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La modifica dell'Art. 18 dello Statuto dei Lavoratori
di francesco spinosa
E' davvero "lui"
che deve essere modificato, o piuttosto la cultura
economico-aziendale della classe imprenditoriale
italiana?
Le riflessioni contenute in
queste righe partono da alcuni dati di
fatto inconfutabili, i quali vengono analizzati
ed interpretati in modo del
tutto personale, innanzitutto in chiave economica
e successivamente anche
in chiave politico-etico-sociale.
I dati di fatto di partenza sono questi:
1. L'attuale governo di centro-destra ha intenzione
di modificare,
in alcune ipotesi particolari ed in via sperimentale,
l'art.18 dello
Statuto dei Lavoratori che prevede la possibilità
di licenziare un
lavoratore dipendente solo per giusta causa e
con giustificato motivo.
2. Nel mondo anglosassone c'è piena libertà
di licenziare i
dipendenti ogniqualvolta i vertici dell'azienda
lo ritengono opportuno (per
es. quando gli affari aziendali cominciano a non
andare bene).
3. A parità di tasso d'inflazione, cioè
del costo della vita, i
lavoratori dei Paesi anglosassoni sono retribuiti
meglio di quelli
italiani.
4. Il modello imprenditoriale di gran lunga prevalente
in Italia è
quello dell'azienda a proprietà familiare,
o comunque, di impresa dotata di
un numero esiguo di proprietari che controllano
e gestiscono l'azienda in
modo accentrato. È molto raro, se non inesistente,
il modello della public
company, cioè dell'impresa con azionariato
talmente frammentato da rendere
impossibile un controllo unitario da parte di
pochi soci, con la
conseguenza che i veri "proprietari"
dell'azienda sono i gestori, cioè i
manager.
5. Il motivo della proposta di modifica dell'art.18
sta - a detta
del governo - nell'esigenza di dare maggiore flessibilità
al mercato del
lavoro italiano, al fine di rendere più
competitive le imprese nazionali
proteggendole, in parte, dalle recessioni e dalle
crisi macroeconomiche e
settoriali.
6. L'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è
costato al popolo
italiano molti anni di lotte politico-sociali,
nonché sacrifici in termini
di vite umane.
Le prime considerazioni analitiche che mi vengono
in mente sono per
esempio il forte sospetto che la modifica dell'art.18,
attualmente
progettata solo per alcuni casi limitati, possa
in breve tempo estendersi
alla totalità dei rapporti di lavoro subordinato
e diventare permanente.
Se così non fosse, non si capisce a che
cosa serva l'attuale
progetto, data l'esiguità dei casi a cui
esso è applicabile. In parole
povere, la competitività delle imprese
italiane non aumenterebbe di certo
se la "riforma" dell'art.18 rimanesse
tale e quale come è presentata oggi.
Inoltre, se è chiaro che a seguito di crisi
macroeconomiche o
settoriali i licenziamenti dei lavoratori darebbero
sollievo alle aziende,
è altrettanto evidente che un grande sollievo
ci sarebbe anche a seguito di
licenziamenti effettuati senza nessuna crisi economica
in atto, ma solo
perché l'azienda è gestita male
dai suoi manager e/o proprietari.
In sostanza, ritengo che la liberalizzazione dei
licenziamenti
potrebbe generare una catena infinita di abusi
e di piccoli e grandi
ricatti operati dai datori di lavoro a scapito
dei dipendenti.
Il lavoratore dipendente non deve e non può
pagare per le
inefficienze o, peggio, per gli illeciti altrui,
soprattutto quando
"altrui" è pagato 50-100 volte
in più del lavoratore.
Un'altra riflessione viene spontanea quando si
paragona il mercato
del lavoro italiano a quello dei Paesi anglosassoni,
in particolare USA e
Gran Bretagna.
Solitamente sentiamo i nostri Ministri dire che
le economie di tali
Paesi crescono più velocemente di quella
italiana e che riescono a reagire
meglio alle crisi internazionali soprattutto perché
il mercato del lavoro è
più flessibile in quanto prevede la "libertà
di licenziare": come a dire
che i licenziamenti rivestono una funzione propulsiva
per gli equilibri
finanziari delle imprese e per l'andamento delle
economie nazionali.
Non vengono, però, sottolineati due piccoli
particolari non proprio
secondari: nei Paesi anglosassoni i lavoratori
sono retribuiti mediamente
meglio degli italiani (ad un maggiore rischio
del posto di lavoro
corrisponde una maggiore retribuzione) e, inoltre,
in tali Paesi i
lavoratori licenziati non hanno grandi difficoltà
nel trovare una nuova
occupazione poiché la domanda di forza
lavoro da parte delle imprese è
continuamente alimentata e sostenuta da uno sviluppo
dell'economia sempre
sufficientemente alto.
Cioè: nei Paesi anglosassoni non è
la libertà di licenziamento a
dare il via al circolo virtuoso che genera maggiore
efficienza delle
imprese e di conseguenza tassi di crescita dell'economia
sempre positivi
nel medio periodo; in realtà, lo sviluppo
delle economie anglosassoni ha
delle motivazioni ben più radicali, da
ricercare nelle oculate gestioni
aziendali, nell'innovazione tecnologica e nella
limitazione degli sprechi,
indipendentemente dalla gestione della flessibilità
della forza lavoro.
La riflessione fondamentale, però, la dedico
al modello di
capitalismo esistente in Italia e, quindi, alla
cultura imprenditoriale
italiana.
In sintesi: nel nostro Paese la pressoché
totalità delle imprese ha
carattere familiare, ossia è di proprietà
di una famiglia o di un singolo
individuo, ed è gestita dai membri stessi
della famiglia o dal singolo
individuo (a volte con l'ausilio di manager professionisti
esterni alla
famiglia ed alla proprietà).
Partendo da un tale dato di fatto, che evidenzia
chiaramente lo
strettissimo legame che viene a crearsi tra
l'imprenditore-fondatore-capofamiglia e la sua
azienda, a mio parere,
possono verificarsi 4 situazioni diverse:
1. imprenditore ricco - azienda ricca;
2. imprenditore povero - azienda povera;
3. imprenditore povero - azienda ricca;
4. imprenditore ricco - azienda povera.
L'ipotesi 1 è quella ideale, chiaramente
la migliore in assoluto,
non molto frequente in pratica e appannaggio di
poche aziende di grandi
dimensioni.
L'ipotesi 2 rappresenta, di fatto, il fallimento
dell'attività
imprenditoriale esercitata.
L'ipotesi 3, a mio parere, è puramente
astratta; non esiste nella
pratica.
L'ipotesi 4, invece, è quella ampiamente
più diffusa in Italia,
all'interno del suo vastissimo tessuto di piccole
e medie imprese.
I proprietari/gestori delle imprese italiane a
carattere familiare,
praticamente la totalità delle aziende
del nostro Paese, riescono,
nonostante l'esistenza di regole votate alla correttezza
ed alla
trasparenza della gestione, ad attuare a proprio
piacimento politiche di
prelievo occulto dei redditi generati dall'azienda
in modo tale da creare
una commistione rovinosa tra patrimonio e reddito
personale e patrimonio e
reddito dell'impresa.
Da questa situazione nasce il modello dell'imprenditore
ricco con
impresa povera: automobili, immobili, spese di
rappresentanza fittizie,
stipendi miliardari sono soltanto alcuni degli
esempi più lampanti di beni
ad uso personale dell'imprenditore che vengono
imputati come costi
aziendali.
La conseguenza di questa prassi generalizzata
è la riduzione
dell'efficienza dell'impresa, la generazione di
risultati economici
negativi o poco brillanti, la creazione di un
circolo vizioso e distorsivo
che, portato all'estremo, potrà avere ripercussioni
negative
sull'occupazione e sull'economia.
A mio parere sono questi gli elementi su cui bisogna
agire per
rendere più competitive le imprese italiane
a livello internazionale e per
garantire loro un reale salto di qualità:
la limitazione degli sprechi, il
rispetto di regole di trasparenza gestionale (che
peraltro già esistono),
l'eliminazione delle commistioni tra patrimoni
personali e aziendali, gli
investimenti in tecnologia (ricerca e sviluppo),
il reclutamento di
personale capace e preparato.
Non è possibile raggiungere questi obiettivi
per mezzo del dirigismo
Statale, ossia impiantando ulteriori sistemi di
norme comportamentali e di
controllo, e neppure per mezzo di misure inefficaci
ed insensate come la
modifica dell'art.18 dello Statuto dei Lavoratori,
ma solo tramite un
cambiamento radicale della cultura manageriale
dell'imprenditoria italiana.
La realtà italiana, oggi, è che
le imprese sono degli strumenti
utilizzati non per creare occupazione, sviluppo
e benessere collettivo, ma
soltanto sviluppo e benessere individuale (con
le dovute eccezioni),
attraverso la formazione di serbatoi occulti di
denaro da cui pochi
individui attingono.
In parole povere, se si vuole cambiare sostanzialmente,
bisogna
agire sugli imprenditori e sulla loro mentalità,
e non sui lavoratori, i
quali sono già sottoposti a misure di flessibilità
e precarietà non
indifferenti.
Quest'ultimo punto merita un ulteriore approfondimento.
Io credo che la Cassa Integrazione Guadagni, i
contratti a tempo
determinato, i contratti part-time, i contratti
di Formazione e Lavoro, gli
stage, il lavoro interinale, i contratti di collaborazione
coordinata e
continuativa, rappresentino già degli elementi
di flessibilità notevole per
il mercato del lavoro italiano.
A ben guardare, infatti, con l'esistenza di tutte
queste (ed altre)
misure di flessibilità, che vengono sfruttate
pienamente dalle nostre
imprese, il costo del lavoro per un'azienda italiana
non può più essere
considerato propriamente "fisso" e,
quindi, può essere relativamente
modulato anche in funzione della congiuntura economica.
Certamente siamo molto lontani dal sistema anglosassone
che permette
di licenziare liberamente il personale, ma ciò,
a mio parere, va visto
positivamente anche dal punto di vista della equilibrata
gestione delle
singole aziende.
Infatti, avere in bilancio una rilevante voce
di costo "fissa" o
"semi-fissa" come è il costo
del lavoro, rappresenta uno stimolo in più
per
i manager a perseguire l'efficienza operativa
limitando gli sprechi e gli
investimenti errati.
Un altro tipo di considerazione che ritengo fondamentale
riguarda la
sfera politico-sociale.
Lo Statuto dei Lavoratori è il risultato
di anni di lotte e
battaglie, anche cruente, che hanno profondamente
segnato tutta la società
civile italiana; più esattamente, non solo
hanno segnato la società civile,
ma l'hanno anche convinta.
Una dimostrazione di questa piena convinzione
sulle finalità della
lotta sociale l'abbiamo avuta recentemente, a
distanza di molti anni,
quando il popolo italiano in un referendum ha
votato contro l'abrogazione
dell'art.18.
Credo che sia inutile filosofeggiare sulla differenza
che intercorre
tra "abrogazione" di una norma e "modifica
di una norma in alcuni casi
particolari", dato che, come ho già
detto, l'intento palese del Governo è
quello di arrivare gradualmente ad una abolizione.
La domanda che mi viene spontanea a questo punto
è: assodata
l'enorme valenza etica e sociale dell'art.18,
perché gli attuali governanti
sono disposti a sostenere il peso morale di essere
gli artefici iniziatori
di un tale colpo di spugna?
Forse se ne infischiano di questa valenza etico-sociale?
Se fosse così, dovrebbero però ricordarsi
che la volontà popolare
manifestata in proposito va in senso opposto e
che il loro incarico
governativo ha ragione di esistere fin quando
è legittimato dalla volontà
del popolo.
Forse sono davvero convinti che i benefìci
per l'economia e per la
collettività sarebbero elevati?
Se fosse così, dovrebbero almeno considerare
che c'è una illustre
schiera di economisti che la pensano in modo diverso.
Personalmente ho il forte sospetto che il nostro
Governo se ne
infischi di tutto "il sociale" che c'è
dietro lo Statuto dei Lavoratori e,
di conseguenza, se ne infischi dell'opinione dei
cittadini.
Non solo: ho il sospetto che sbandierare questa
riforma come
strumento fondamentale per migliorare la competitività
delle imprese
italiane e per incrementare il livello di benessere
del Paese, nasconda in
realtà il solo desiderio di tutelare gli
interessi della classe
imprenditoriale e dei "soliti noti"
del capitalismo italiano, a scapito
della collettività (in questo caso rappresentata
dai lavoratori).
Concludo con una domanda (sincera) rivolta sia
ai sostenitori di
questo Governo che agli oppositori: viste le due
principali personalità
coinvolte in questo progetto di riforma, siamo
proprio sicuri di voler
affidare una materia così delicata nelle
mani di uno che fino a ieri
strepitava per dividere la Padania dalla Terronia,
e di un altro che
attualmente fa di mestiere l'imprenditore, cioè
il datore di lavoro, e che
fino all'altro ieri faceva gli spot pubblicitari
dello Stock '84?
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