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La poetica: dal vino alla lingua
Un punto dal quale sembra opportuno partire per comprendere la poetica
del cantastorie Guccini, è il titolo del suo primo romanzo, Croniche epafaniche
interpretabile sia come cronache di Pavana (secondo una particolare etimologia
suggerita dall'autore), sia come epifaniche cioè rivelatrici di verità
ulteriori. Questo titolo, nella sua seconda accezione mostra una importante
caratteristica che ha connotato la carriera cantautoriale dell'artista.
Si evidenzia l'impegno di Guccini a raccontare storie, che dietro un leggero
velo metaforico, sono cronache di vita quotidiana. Cronache gucciniane,
il cui senso è quello di far apparire dietro la quotidianità la presenza
della verità, relativa e precaria ma capace di modificare il senso delle
cose e del nostro stare al mondo. Questa verità può essere però raggiunta
solo con delle intuizioni e può essere difficilmente afferrata. Spesso
si ha l'intuizione attraverso la riscoperta di un percorso naturale, altre
volte mediante l'incontro con persone diverse rispetto alla consueta vita
quotidiana. Importanti in tal senso, il Frate e Amerigo, protagonisti
di due canzoni a loro intitolate. L'uno singolare personaggio di Pavana,
l'altro un prozio di Guccini emigrante in America. Dice Guccini di fare
canzoni "sul vivere" e che "c'è sempre stata pudica, sottile, nelle mie
canzoni una domanda sull'infinito,sul senso ultimo delle cose […]". Un
ruolo particolare lo svolgono le donne, angeli e specchi della ricerca
esistenziale. Il confronto esistenziale è forte in Eskimo, racconto autobiografico
della sconfitta di una generazione, cresciuta nella speranza del '68 e
che ha creduto alla nascita di una società più a misura d'uomo.
Il modesto indumento sessantottesco ("portavo allora un eskimo innocente
/ dettato solo dalla povertà") diventa il simbolo di una coerenza personale
e non condivisa: "ed io ho sempre un eskimo addosso / uguale a quello
che ricorderai / … / ed io ti canterò questa canzone / … / ignorala come
hai ignorato le altre / e poi saran la ultime oramai". Al fondo di molte
canzoni gucciniane vi è l'affermazione della complessità delle scelte
esistenziali, politiche e di parte ma anche ciò che Gramsci ha definito
la "medesimezza umana" ovvero una comune ed insopprimibile identità esistenziale,
che l'artista in Canzone quasi d'amore ha sintetizzato con queste parole:
"siam tutti uguali / e moriamo ogni giorno dei medesimi mali / perché
siam tutti soli / ed è nostro destino / … / siam tutti uguali / siam cattivi
e buoni / e abbiam gli stessi mali / siam vigliacchi e fieri / …". Questa
convivenza è possibile poiché nella realtà esistono davvero "perbenismo
e verità fatte di formule vuote", "far carriera e odi di partito" esiste,
insomma, chi veramente uccide Dio annientando in sé e negli altri l'essere
uomini. Realtà espressa nella celebre Dio è morto, canzone che parlando
apertamente di corruzione e meschinità, scatenò la collera dei benpensanti.
Il testo passa in rassegna i mali che affliggono l'individuo e la società:
"mi han detto / che questa mia generazione ormai non crede / in ciò che
spesso han mascherato con la fede / nei miti eterni della patria e dell'eroe
/ perché è venuto ormai il momento / di negare tutto ciò che è falsità
/ …/" per poi compendiarli nella formula "Dio è morto" ripetuta nel ritornello:
"è un Dio che è morto / nei campi di sterminio Dio è morto / coi miti
della razza Dio è morto". La strofa conclusiva: "in ciò che noi crediamo
Dio è risorto / in ciò che noi vogliamo Dio è risorto / nel mondo che
faremo Dio è risorto / Dio è risorto", sembra un po' troppo legata alle
speranze coltivate dai giovani degli anni '70, purtroppo in gran parte
disilluse dall'evolversi delle vicende storiche, italiane e mondiali.
Questo discorso sulla relatività della verità e sulla conseguente responsabilità
delle proprie scelte, potrebbe accostare Guccini a quella letteratura
che Bachtin ha chiamato "carnevalesca", cioè capace di mostrare una visione
del mondo libera da ogni dogma, da ogni morale precostituita, da ogni
imposizione gerarchica e di ricreare un'atmosfera di spregiudicatezza
e libertà che caratterizza il carnevale e le feste popolari. In Guccini
si trova una visione complessa del mondo, sempre ironica e spesso comica,
al cui centro sta l'esaltazione della libertà, dell'intelligenza, della
risata carnevalesca. Fondamentale in questa visione è la gioiosa esaltazione
della materialità della vita. Carnevaleschi sono anche tanti suoi personaggi,
il loro non appartenere alla "normale" vita quotidiana, o il loro essere
colti (nel ritratto poetico di Guccini) in un momento di crisi, di passaggio
e di cambiamento esistenziale. Carnevalesco è lo stesso "personaggio Guccini"
con il suo amore per la vita, il vino, la gioia del sesso. Ma oltre a
questi vi sono altri tratti: il presentarsi come un "vecchio giullare",
come "pecora nera" il tipo di linguaggio usato, pieno di oscenità, la
presenza costante del vino simbolo di una saggezza socratica ("al rosso
saggio chiedi i tuoi perché"); non stupisce perciò che anche gli amici
dell'artista siano presentati con un'immagine carnevalesca: "i miei amici
veri…non sono razza padrona / non sono gente arcigna / siam volgari come
la gramigna… / non son certo parecchi / son come i denti in bocca a certi
vecchi / ma proprio perché pochi / son buoni fino in fondo / e sempre
pronti a masticare il mondo". In questa concezione del mondo, anche la
morte, non è qualcosa di drammatico e definitivo, ma è parte della vita,
"una non voluta, ma necessaria, staffetta". Quindi la vita è concepita
come un gioco; e saper giocare a tempo e luogo, è un modo molto serio
di affrontare questa e la morte. Il concerto è per Guccini il luogo tipico
della festa e del libero contatto familiare. Testimonianza di tutto ciò
è il suo album intitolato Opera buffa, nel quale si raccolgono canzoni
e scherzi tipici del nostro autore, con lo scopo come egli afferma: "…di
mostrare l'aspetto conviviale, a briglie sciolte delle mie serate in pubblico".
Questo atteggiamento capace di mischiare "carnevalescamente" morte e vita,
riflessione e gioco, spregiudicatezza intellettuale e responsabilità individuale
e politica, spiega perché il seguito più forte di Guccini sia stato tra
i giovani che erano insofferenti alle gabbie partito / chiesa, ma nello
stesso tempo che si riconoscevano nelle tradizioni più alte del cattolicesimo
e del comunismo. Guccini infatti è stato vissuto come un guru "cattolico
- comunista", anche se egli a coloro che accusavano l'artista di un eccessivo
appiattimento su posizioni filocomuniste, Guccini, si è sempre proclamato
anarchico. Infatti, contrariamente a quanto affermava Lauzi, "sinistra"
non è tout court "comunismo". Ha invece un fondamento di realtà l'accusa
mossa dall'artista genovese alle case discografiche secondo cui il "cantautorato"
era diventato una sorta di garanzia di vendita. Negli anni '70, infatti,
le case discografiche ricercano un prodotto in grado di adeguarsi alle
nuove realtà giovanili e di risolvere la forte crisi che si era aperta
nel settore. Così nel 1978, nella classifica annuale degli LP più venduti,
sono i cantautori a primeggiare. Dietro l'affermazione dei "cantautori
dell'impegno politico e sociale", oltre alla realtà commerciale, vi sono
complessi motivi d'ordine politico e culturale legati alla forte politicizzazione
giovanile avvenuta in seguito alle lotte operaie e studentesche della
fine degli anni '60. questo spiega la forte attenzione per i cantautori,
da parte della direzione delle Feste dell'Unità (le feste del Partito
Comunista). Conferma tutto questo lo stesso Guccini dicendo che: "per
quanto mi riguarda gli anni chiave furono tra il '75 e il '77. Cominciai
inaspettatamente ad avere 1000, 2000 persone a serata fino ad arrivare
stabilmente alla misura del Palasport, seguita non raramente da quella
dello stadio o del campo sportivo". Il quadro storico - sociologico in
cui si afferma Guccini è quello dei primi anni '70 nei quali il PCI e
il movimento operaio e sindacale conoscono una forte affermazione politica.
Ogni sua canzone è capace di sopravvivere al passare delle stagioni e
delle mode e alle facili strumentalizzazioni politiche. Il valore artistico
e il suo carisma etico - politico, hanno permesso a Guccini di proseguire
senza cambiamenti significativi non solo nella sua "poetica" ma anche
nella sua formula del suo concerto cantautorale. Da vent'anni i suoi concerti
si aprono all'insegna di un carnevalesco fiasco di vino, proseguendo alternando
canzoni a battutacce fulminanti, per chiudersi immancabilmente con La
locomotiva. Oggi, questa è accompagnata da una nuova canzone uscita con
il suo ultimo album, Stagioni, che prende il titolo dall'opera omonima.
"E' un curioso esempio di brano scritto nell'arco di oltre 30 anni" -
dice Guccini - "Il giorno in cui morì Che Guevara, nel 1967, mi vennero
di getto alcuni versi che poi misi in un cassetto". L'anno scorso, poi
l'artista, un po' per gioco, durante un concerto a Monza, notò dei ragazzi
con le magliette del Che, così fece sentire la strofa che aveva scritto
su di lui: "in un giorno d'ottobre / in terra boliviana / con cento colpi
è morto / Ernesto Che Guevara". Era uno scherzo, ma il boato della gente
entusiasmò i discografici che spinsero Guccini a rimetterci mano. La canzone
non parla solo del Che, ma anche della perdita dei valori di una generazione
oggi alla ricerca, come afferma Nanni Moretti, di qualcuno che dica una
cosa di sinistra e lo stesso Guccini afferma: "diranno che è una nuova
locomotiva, e non mi dispiacerà". Il mito del "compagno Guccini", nasce
anche dalla formazione dell'artista che ha abbandonato certi schemi e
cliché per avvicinarsi alle nuove realtà giovanili degli anni '70. le
prime canzoni di Guccini risentono dell'influsso della canzone francese
portata in Italia dalla "scuola di Genova" e da Cantacronache. A questa
esperienza si aggiunge quella della beat - generation e l'influsso etico
- artistico di Dylan. Grazie a questo formazione, infatti, Guccini è riuscito
a superare l'impasse in cui era caduta la "scuola di Genova", che già
dalla fine degli anni '60 aveva consumato la sua carica innovatrice e
fu incapace di inserirsi nel nuovo contesto degli anni '70. Guccini fece
del "concerto di massa" lo strumento principe della propria affermazione
artistica e commerciale. È da notare la sua piena disponibilità a suonare
nelle situazioni più diverse e a prezzi spesso simbolici, o come si diceva
allora "politici". Ma Guccini è anche colui che è entrato nella storia
della musica italiana per il suo modo di raccontare - cantando. La sua
sapienza nell'uso del verso, della rima, della parola ha conquistato critici
e poeti quali Francesco Fortini, Roberto Roversi e Umberto Eco, che afferma:
"Guccini è forse il più colto dei cantautori in circolazione, la sua è
una poesia dotta. […] Guccini è omerico, procede per agglomerazioni, ha
una gran sfacciataggine nell'osare una metafora dopo l'altra". Guccini
stesso conferma l'importanza che rivestono rima, metrica e metafore, sia
sul piano della costruzione letteraria, sia su quello della fluibilità
musicale quando, interrogato sul suo modo di far canzoni, risponde: "in
realtà non si può parlare di una vera e propria tecnica. […] c'è un nucleo,
una idea generale attorno alla quale comincio ad aggiungere altre idee,
frasi, pensieri. […] la metrica, la rima sono per me elementi molto importanti.
È un modo per amplificare la parola, per precisarne il significato. […]".
La sua musica è semplice, ripetibile e svolge la funzione di accompagnamento,
e in proposito il cantautore afferma: "a me, in effetti, interessa molto
più quello che dico e con che parole lo dico, di quanto mi interessi il
supporto musicale; quindi molto spesso mi accontento che il pezzo non
sia banalissimo, e che possa andare bene e sia piacevole musicalmente;
un po' come facevano i cantastorie. […] e quindi sono convinto che con
le canzoni non si possa fare della musica […] e non si può nemmeno fare
della poesia, le canzoni hanno cioè, una loro specificità artistica e
una loro precisa dignità. Sono quindi un mezzo espressivo autonomo". July, 2000
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