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Ultima fermata Eboli

Eboli è un comune in provincia di Salerno che vive di agricoltura e allevamento. Lungo la strada che conduce alla stazione ferroviaria di San Nicola Varco sorgono vecchie cascine apparentemente abbandonate...

di Nello Trocchia - domenica 18 dicembre 2005 - 3539 letture

Nel regno delle mozzarelle di bufala e della beauty farm per le mucche c’è chi vive in condizioni disumane, e gli animali, in questo scorcio di periferia dimenticata, sono giovani immigrati marocchini.

Eboli è un comune in provincia di Salerno che vive di agricoltura e allevamento. Lungo la strada che conduce alla stazione ferroviaria di San Nicola Varco sorgono vecchie cascine apparentemente abbandonate, attorno ad un vecchio silos di granaio. Oltre le cascine, si trova un enorme capannone, un ex mercato ortofrutticolo,(20 miliardi di vecchie lire la spesa complessiva) mai entrato in funzione. Ormai da qualche anno, questi vecchi e desolati casolari sono le dimore per circa 400 marocchini. Contarli è un compito difficile perché si spostano continuamente e ogni settimana arrivano nuovi immigrati.

Il tratto di strada che unisce le due cascine al capannone è completamente sterrato, un odore nauseabondo infesta l’aria; sacchetti di spazzatura e rifiuti vari sono la location inquietante di questo luogo ai confini del reale. Una discarica a cielo aperto circonda questi stabili fatiscenti.

Il fango rende difficile il percorso per raggiungere l’ex mercato; un’enorme scritta in arabo accoglie i nuovi ospiti. Dentro il capannone, con lamiere e altri materiali di fortuna ogni immigrato ha ricavato la sua stanzetta, giusto lo spazio per un lettino; coperte e cartoni per provare a dormire e ripararsi dal freddo. Il freddo e il fango invadono lo stabile, trasformandolo in un acquitrino, dove i topi scorazzano indisturbati, insieme con insetti di ogni genere.

L’inverno, qui, è un inferno in terra. Il ritorno in questa specie di casa di sera è drammatico, forse ancor più del lavoro duro e faticoso dei campi. Tutti, questi immigrati, infatti, lavorano come braccianti nelle piantagioni di Eboli e delle campagne vicine. Riescono a lavorare tutto l’anno, dalle 7 del mattino alle 3 del pomeriggio, impegnati nella raccolta di pomodori e degli altri prodotti della terra. Il pranzo è un pezzo di pane mangiato velocemente per completare il lavoro di giornata, sotto l’occhio vigile dei caporali che si arricchiscono sulle spalle dei nuovi schiavi. Paga giornaliera: 20-25 euro, 45 quella dei lavoratori italiani.

Gli immigrati, questi immigrati sono una strana risorsa: lavorano tanto e guadagno poco. Molti subiscono il ricatto del permesso di soggiorno, che viene rinnovato a scadenza, con un costo esorbitante per chi vuole un indirizzo abitativo fittizio e un contratto di lavoro. La maggior parte di loro,però, sono clandestini, la loro posizione non può essere regolarizzata, in ragione delle maglie strette previste dalla Bossi-Fini, che incentiva lo sfruttamento e la schiavitù. Se il datore di lavora non paga questi uomini che una legge di stato trasforma in bestie da soma non possono protestare, reagire: denunciare significherebbe essere espulsi.

Ad Eboli, questa, come altre comunità di immigrati, sono impegnati in un lavoro agricolo duro e sottopagato, che contribuisce all’economia di quest’area, ma la loro utilità sociale termina quando il lavoro finisce. Il resto della vita è avvolto nel silenzio generale. Nessuno li vede,nessuno vede i loro rifugi inospitali e fatiscenti dove provano invano a riposarsi dalla fatica. Questi uomini non cercano altro che un po’ di solidarietà e tranquillità, sognando una casa.

Il lavoro dei campi termina alle 3 e lungo la strada statale 18, file di migranti a piedi e in bicicletta ritornano verso le cascine. A volte capita che qualche macchina li travolga, come è successo ad un marocchino , la scorsa settimana. Gli amici che passeggiavano con lui hanno visto l’automobilista scappare, piangendo inermi in attesa dell’ambulanza. Non è la prima volta che la strada statale si trasforma in un mattatoio per i migranti che la attraversano, nel lento e composto ritorno nei capannoni abbandonati. Il ritorno a casa è angosciante perché il freddo raggela le carni, non c’è il gas, manca l’acqua calda per lavarsi, così come la luce. Mancano i servizi igienici, una condizione di arretratezza e povertà avvolge le esistenze di questi giovani marocchini. Solo due fontanelle per 400 persone.

Spesso capita, raccontano, che qualcuno di noi si senta male, bisogna sopportare; una volta a settimana viene un medico volontario dell’associazione L’Altritalia ad assisterci, per noi è una presenza importante. Nel male di vivere ritrovano un grande spirito di comunità, l’unica risposta alle insidie, alla fatica e al dramma continuo della loro vita.


L’articolo di Nello Trocchia è stato è stato pubblicato sul numero 46 di Metrovie, inserto campano de Il Manifesto.


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