Sulla grazia / di Friedrich Schiller

di Redazione Antenati - sabato 8 aprile 2006 - 8090 letture

Nella dignità... Lo spirito si comporta da padrone del corpo, perché qui esso deve affermare la sua autonomia contro l’imperioso istinto, che procede ad azioni senza di lui e vorrebbe sottrarsi al suo giogo. Nella grazia invece governa con liberalità, perché qui è lui che mette in azione la natura e non trova alcuna resistenza da vincere... La grazia sta dunque nella libertà dei moti volontari; la dignità nel dominio di quelli involontari. La grazia lascia una parvenza di spontaneità alla natura, là dove questa adempie gli ordini dello spirito; la dignità invece la sottomette allo spirito, là dove essa vorrebbe regnare. Nella dignità... ci è presentato un esempio della subordinazione dell’elemento sensibile a quello morale... Nella grazia, invece la ragione vede la propria esigenza soddisfatta nella sensibilità. [...] Avendo dignità e grazia campi diversi per la loro manifestazione, non si escludono vicendevolmente nella medesima persona; ...anzi soltanto dalla grazia la dignità riceve la sua convalidazione, e soltanto dalla dignità la grazia riceve il suo valore.

(Schiller, Grazia e dignità)

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Sulla grazia / di Friedrich Schiller
8 giugno 2007, di : Dario Romeo

Prima di arrivare alla distinzione sopra riportata tra grazia e dignità bisogna passare da distinzioni più radicali e fondanti che Schiller opera e che giustificheranno la diversità e al contempo l’affinità esistenti tra grazia e dignità. Distinguiamo il bello dal sublime (si consideri che da entrambi questi concetti se ne diramano dicotomicamente altri che non si tratteranno in questa sede). Si ha la percezione del bello quando l’oggetto è contemplato sotto la specie della libertà, quando cioè non si contempla un oggetto per comprenderne le cause o la struttura in modo da imporgli un concetto che ne giudica la perfezione (nel qual caso lo si osserverà scientificamente) , né come causa finale (nel qual caso applicheremo ad esso la nostra volizione configurandolo come morale), ma semplicemente in ciò che esso è. Il bello è la libertà. Quel concetto che kantianamente rappresenta la chiave di volta della ragion pratica, è da Schiller trasferito nel giudizio estetico: non v’è bellezza se non v’è libertà. La bellezza è la libertà nel fenomeno. Si ha l’unione spontanea di immanenza e trascendenza nell’unità del fenomeno con la libertà, la vita con la forma, il senso con la ragione. Realmente poi, contemplando un oggetto bello, diviene bella, se pure solo momentaneamente, anche l’anima di chi contempla. Così Schiller ritiene il raggiungimento dell’idealità umana essere l’unione di impulso sensibile ed impulso formale. Tale collaborazione dà origine all’impulso al gioco che non è da considerarsi un terzo impulso a metà tra due dimensioni ontologicamente non mediabili, ma l’aufhebung, la sintesi dialettica tra i due. L’anima bella sarà l’anima che ha raggiunto questa mirabile sintesi tra sensibilità e ragione. Entrambi questi impulsi devono rimanere liberi ma nello stesso tempo equilibrati. Nel caso in cui la ragione schiacci la sensibilità si ha la tirannia; nel caso la sensibilità calpesti la ragione si ha l’anarchia. Nella misura in cui l’uomo è naturalmente unione di ragione e senso, tali forze devono agire in concomitanza. Solo in tal modo l’anima umana diverrà veramente umana. Solo così l’anima diverrà bella.

Se il bello è la perfetta sintesi delle facoltà umane, il sublime, principio patetico della tragedia, è invece ciò che permette all’uomo di percepire se stesso libero come essere razionale. Nella contemplazione di un fenomeno naturale che sovrasta il senso e lo umilia, la ragione si scopre libera ed indipendente rispetto al senso. Occorre che la tecnica non inibisca il sentimento di terrore facendo percepire la possibilità al soggetto contemplante di poter controllare l’impetuosità della forza della natura, e al contempo che egli sia al riparo da tale manifestazione in modo che la sua reale sussistenza non sia messa in effettivo pericolo. Così: il bello è unione di senso e ragione rispettando la libertà del senso; il sublime è la rivelazione della libertà della ragione. Infatti per una educazione estetica dell’umanità è d’uopo che la libertà del senso nel bello sia rafforzata dalla libertà dello spirito nel sublime.

Nel saggio Sul bello e sul sublime, Schiller vuole unire questi due geni tenuti, al momento, distinti. Lo fa partendo dalla analisi della bellezza umana. Essa si distingue, sotto la specie della fruizione estetica, in: bellezza umana architettonica e bellezza umana mossa. Quella architettonica è direttamente derivata dalla necessità della natura. Ammirare la bellezza architettonica del corpo umano significa cogliere la bellezza che la natura stessa gli ha dato, gli ha conferito, significa ammirarne la sua struttura naturale nella sua datità immediata, nella sua passività. La bellezza umana mossa è invece il complesso di manifestazioni corporali suscitato dai moti dell’anima. Tali movimenti possono essere: volontari o involontari. Se abbiamo detto che la bellezza è libertà potrebbe risultare evidente che sarà nei movimenti volontari (che presuppongono la libertà) a risiedere la bellezza. Ma riflettiamo un attimo. Cos’è la volontà se non l’ordinamento dei nostri atti psicologici e, successivamente, fisici in vista di un fine determinato? E fa parte della contemplazione estetica configurarsi un oggetto come fine? Si era detto di no. Al massimo fa parte della moralità. I movimenti volontari non esprimono dunque la bellezza. Saranno allora i movimenti involontari ad esprimerla? Involontari vuol dire non liberi. La costrizione, la necessità è in sé completamente inconciliabile col concetto di bellezza come libertà. Anche stavolta sarà una sintesi dialettica dei due concetti a darci la spiegazione. Questa sintesi sarà un movimento volontario che rende e-vidente la Gesinnung (il sentimento costante dello spirito) e non tende alla volizione di un oggetto particolare. Questo atto volontario è volontario in quanto è conforme alla Gesinnung ma è al contempo involontario perché non è il frutto di una singola decisione della volontà (Pareyson). A questa sintesi tra volontarietà (forma, ragione, libertà) e involontarietà (materia, senso, vita, necessità) nella figura umana diamo il nome di grazia. Essa è mediazione tra tutto ciò che abbiamo or ora detto, proprio come la bellezza! E se la grazia corrisponde alla bellezza, a cosa potrà corrispondere la dignità se non al sublime? La dignità è infatti il momento in cui è più visibile l’umiliazione del senso a contrasto con la libertà della ragione. Questa situazione la reperiremo nel dolore fisico: “la calma nel dolore diventa, sebbene indirettamente, la rappresentazione dell’intelligenza dell’uomo e l’espressione della sua libertà morale” (Schiller). In ultima analisi: la bellezza sta alla grazia come il sublime sta alla dignità. L’anima bella è espressa dalla grazia, l’anima sublime dalla dignità. Nell’unione di grazia e dignità si ha per Schiller il raggiungimento del tanto agnato ideale greco così come è esposto principalmente nelle Lettere sull’educazione estetica dell’uomo. Il bello e il sublime sono nella figura umana l’espressione sensibile della volontà.: “il carattere è buono quando la sua espressione è bella, cioè quando la figura umana è piena di grazia, e la volontà è libera quando la sua espressione è sublime, cioè quando la figura è piena di dignità” (Pareyson). Questo è il ritratto dell’uomo ideale schilleriano, un uomo che in quanto bello è buono e che è buono solo se vuole essere bello. La moralità schilleriana è prima di tutto estetica. Non è l’imperatività del dovere a dettare legge tirannica sulla sensibilità ontologicamente imbizzarrita ma è il libero gioco delle parti concordate tramite l’educazione estetica che forma l’armonia necessaria alla bellezza, che una volontà buona non può non volere. Il buono vuole il bello nella misura in cui il bello genera il buono. La libertà vuole la ragione per essere valorizzata, la ragione vuole la libertà per essere autenticata. La grazia vuole la dignità per essere valorizzata, la dignità vuole la grazia per essere autenticata. E tutta questa armonia è la bellezza e se la volontà è buona , ovvero se la libertà è davvero valorizzata dalla ragione, allora non può non volere l’armonia della bellezza.

Dario Romeo