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Provi di lingua matri: una recensione / di Andrea Carnevali

Provi di lingua matri / Maria Gabriella Canfarelli. - Mascalucia: Edizioni Novecento, 2019.
di Redazione Antenati - lunedì 29 luglio 2024 - 720 letture

La raccolta Provi di lingua matri di Maria Gabriella Canfarelli invita il lettore, attraverso il dialetto, a riconoscere un mondo ormai lontano. Un mondo che è tuttavia fondativo della complessiva personalità poetica dell’autrice catanese.

Il testo in lingua dialettale o meglio neo-volgare – come si usa dire oggi da poeti e critici impegnati in questo settore – si inscrive nel percorso artistico della Canfarelli quale esperienza unica e originale in quanto la poetessa aveva già pubblicato alcune raccolte poetiche nondimeno in lingua italiana ed altre se ne sarebbero aggiunte in seguito. Ma come s’è detto più sopra, quel suo lavoro in dialetto è stato fondamentale per lei. Tanto che i curatori del volume Dalle carte dell’isola. Libro della poesia neo-volgare siciliana (2021), Gualtiero De Santi e Renato Pennisi, impressa per i tipi della Collana Poetica della Nuova Carabba, hanno ritenuto di doverla accogliere accanto ad autori di lunga tenuta e più riconosciuta fama antologizzando le composizioni nelle quali la sperimentazione linguistica poteva orientare il lettore verso una “forma di poesia sensibile e reale” (p. 186) importante in questo tipo di scrittura. “Il mito delle radici primordiali,” – scrive appunto Gualtiero De Santi – “che appartiene a tanti poeti del nostro tempo, mantiene la propria forma nelle linee cadenzali di trasmissione nel dialetto e in una visione agonistica e conflittuale dei legami sociali e interpersonali” (p. 185).

La musicalità della parola presente nei versi di Canfarelli crea un tempo iniziale che consente di entrare in empatia con l’autrice. Le sillabe cullano chi legga nella dolcezza delle parole che descrivono infanzia ed adolescenza. La voce della poetessa è somigliante a un sibilo del vento che il lettore deve saper cogliere e ascoltare perché egli diventi l’interlocutore di queste storie ambientate in Sicilia. Una delle quali racconta come la lingua, che si impara a scuola, sia distante dal linguaggio della vita quotidiana. “Quann’eru nica, / sicca ’nte robbi, ca ci puteva / natari comu’n pisci, / m’abbuffuniavi arrirennu / picchì parravutaliànu. Fossi / ppi t’addumannavi cu era / dda figghia ca jeva a scola / e s’inzignava a lèggiri e scriviri / e nenti sapeva da vita” (p. 14) [1].

I versi fanno emergere le emozioni che lei sente dentro di sé, specchio dei sentimenti che affiorano attraverso flash narrativi che compongono un autoritratto della scrittrice, nella cui lingua si conserva una memoria che si fa nitida grazie al pensiero e allo sguardo continuo sul passato; ciò che favorisce la formazione di immagini che danno vita al verso.

La parola materializza le idee e i ricordi dei personaggi cari alla poetessa come la madre e la nonna. Ma, particolarmente, nella prolungata soggettività con cui lei dialoga con il mondo esterno, compare a volte la figura della Madre che le parla in dialetto. Le parole materne sono impresse nella mente e sono trasferite su fogli di carta per raccontare una situazione di vita.

Maria Gabriella Canfarelli descrive per accumuli emotivi, sovrapposizioni di immagini, utilizzando specifiche costruzioni linguistiche: “Provu, nun pozzufari autru / ca pruvari a pigghiarilli / che manu ‘noto funnu, / annijati ‘ntoscruru, spirduti / - appoi taliari” (p. 16) [2]. Frasi che si ripetono, come elementi ossessivi, per sottolineare l’importanza della memoria. Inoltre, la poetessa sembra immersa nella solitudine che è esternata per divenire una condizione per scrivere.

Si tratta di un dialogo intimo e psicologico, che lei sa raggiungere grazie alla “guarigione dell’anima”. Poche parole nate dalle suggestioni della natura che infondono in lei un senso d’appagamento poi trasferito nei tornanti della poesia e in quelle esercitazioni di lingua madre che la spingeranno al dialetto, attraverso composizioni accompagnate da titoletti che introducono l’argomento.

La riflessione della poetessa è in forma di frammento e viene inquadrata all’interno di un arco temporale dove il lettore ritrova i diversi momenti della giornata. Parole e ricordi viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda. Inoltre, gli oggetti della casa e la natura creano la memoria involontaria che stimola l’autrice in quel suo dialogo continuo con sé e con il mondo circostante.

Le molte e puntuali percezioni sono ordinate da riflessioni, da accostamenti di immagini e da ricordi che si mescolano ai momenti più recenti. La nominazione degli oggetti crea una sorta di mappa degli ambienti della casa dove l’autrice è vissuta da bambina. Così Canfarelli rivive infinite volte quei momenti impressi nella sua memoria: “Parru u dialettu / ppi fàrimi sèntiri /picchi s’accapu a vuci, sugnu vacati / cascia di lignu / ca un voli autri jorna /appinnuti ‘nto filu, / nun nni voli sapìri” (p. 17) [3].

L’io narrante – perché anche di questo si parla – acquista un insolito spessore temporale e psicologico, in un racconto che si distingue dal personaggio di un romanzo in quanto prevede solo la coscienza intima di sé e del proprio valore.

Il mondo descritto dalla Canfarelli è sempre denso di emozioni che sovrastano il pensiero logico dell’autrice. Così la poetessa si chiede se il turbinio delle emozioni debba essere stemperato dalla ragione. Nella quotidianità, si presentano situazioni che interrompono il dialogo interiore con la parola.

L’aurea poetica è allora immaginata come condizione di vita sublunare – dove le nuvole rappresentano la creatività: di “chiddi ca spaccunu u cori / e u dannunun si viri. I me’, che manu nzirrati / can un u volunu fari passari” (p. 18).

Come si riesce a cogliere da questo passaggio, la scrittura descrive il processo creativo con cui lei arriva alla parola in versi. Attraverso la visione onirica, espressione di una natura sensibile, Canfarelli introduce nel racconto elementi soggettivi per chiarire il suo rapporto con il mondo dell’arte: “Chiangi, jetti ruluri e schìgghiunu / i to’ anni picciriddi / tuppuliunu / co sangu ‘ntemanu, fogghia / ca trema e voli l’abburu” (p. 19) [4].

C’è infine, nelle parole di Canfarelli, una sacralità immanente al mondo che viene descritto. Ma occorre dire che la parola sacra è paragonata alla parola materna, primordiale e popolare come se nella cultura della casa e dell’esistenza quotidiana si rinvenisse e rivedesse la luce divina che illumina gli spazi domestici.


Questa recensione di Andrea Carnevali è stata pubblicata dalla rivista Linguæ & - 1/2024 (link alla rivista)

Scheda su Maria Gabriella Canfarelli su Antenati, storia delle letterature europee.


[1] Quant’ero piccina, / secca nei vestiti, che ci potevo / nuotare come un pesce, / mi schernivi ridendo / perché parlavo italiano. Forse / per questo non ci capivamo / forse ti chiedevi chi era /quella figlia che andava a scuola / e imparava a leggere e scrivere / e niente sapeva della vita” (p.15).

[2] “Provo, altro non posso fare / che provare a prenderle / con le mani sul fondo, / annegate nel buio, disperse / - poi guardare” (p. 16).

[3] “Parlo il dialetto / per farmi sentire / perché la voce è finita / sono vuoto / baule di legno /che non vuole altri giorni / appesi sul filo, / non ne vuole sapere” (p. 17).159

[4] “[...] di quelli che spaccano il cuore/e il danno non si vede. / I miei, con le mani serrate / che non vogliono farlo passare” (p. 18).


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