Prospettive dell’evoluzione mondiale / di Lev Trotzskij
(L. Trotzsky, discorso pronunziato il 28 luglio 1924)
di
Redazione Antenati
- sabato 21 maggio 2005
- 3805 letture
Sono trascorsi dieci anni dall’inizio della guerra imperialista. Durante questo decennio, il mondo è notevolmente cambiato, ma molto meno di quanto supponevamo e prevedevamo dieci anni fa. Consideriamo la storia dal punto di vista della rivoluzione sociale. Questo punto di vista è, allo stesso tempo, teorico e pratico. Analizziamo le condizioni delle evoluzioni così come si formano senza di noi e indipendentemente dalla nostra volontà, per comprenderle e agire su di esse tramite la nostra volontà attiva, cioè con la nostra volontà di classe organizzata. Questi due aspetti nel nostro modo marxista di affrontare la storia sono legati indissolubilmente. Se ci si limita a constatare ciò che avviene, in definitiva si arriva al fatalismo, all’indifferenza sociale che, a certi livelli, assume l’aspetto del menscevismo, in cui c’è una gran parte di fatalismo e di rassegnazione di fronte agli avvenimenti. D’altra parte, se ci si limita all’attività, alla volontà rivoluzionaria, si rischia di cadere nel soggettivismo, che implica un gran numero di varietà: una è l’anarchismo, un’altra il socialismo rivoluzionario di sinistra; infine, è a questo soggettivismo che bisogna collegare i fenomeni che si verificano nello stesso comunismo e che Lenin ha definito «malattia infantile di sinistra». Tutta l’arte della politica rivoluzionaria consiste nel saper unire la constatazione oggettiva alla reazione soggettiva. E in questo consiste il leninismo. Ho detto che noi affrontavamo la storia dal punto di vista della rivoluzione che deve trasmettere il potere nelle mani della classe operaia per la ricostruzione comunista della società. Quali sono i presupposti della rivoluzione sociale, in quali condizioni può sorgere, svilupparsi e vincere? Questi presupposti sono molto numerosi. Ma possono essere riuniti in tre e anche in due gruppi: i presupposti oggettivi e soggettivi. I presupposti oggettivi si basano su un determinato livello di sviluppo delle forze produttive. (Questa è una cosa elementare, ma di tanto in tanto non è inutile tornare all’«alfabeto», ai fondatori del marxismo, per arrivare, con l’aiuto del vecchio metodo, alle nuove conclusioni che la situazione attuale impone.) Perciò, la premessa fondamentale della rivoluzione sociale è un determinato livello di sviluppo delle forze produttive, un livello in cui il socialismo e in seguito il comunismo, come modo di produzione e di distribuzione dei beni, offrono vantaggi materiali. È impossibile costruire il comunismo, o anche il socialismo, nella campagna, in cui regna ancora l’aratro. È necessario un certo sviluppo della tecnica. Ora, questo livello è raggiunto in tutto il mondo capitalistico? Sì, incontestabilmente. Che cosa lo prova? Il fatto che le grandi imprese capitalistiche, i trusts, i sindacati, trionfano in tutto il mondo sulle piccole e medie imprese. Perciò, un’organizzazione economica sociale fondata esclusivamente sulla tecnica delle grandi imprese, costruita sul modello dei trusts e dei sindacati, ma su basi di solidarietà, se fosse estesa a una nazione, a uno Stato, poi a tutto il mondo, offrirebbe enormi vantaggi materiali. Questo postulato esiste da molto tempo. Il secondo presupposto oggettivo è il seguente: è necessario che la società sia dissociata in modo che ci sia una classe interessata alla rivoluzione socialista e che questa classe sia abbastanza numerosa e abbastanza influente dal punto di vista della produzione da fare essa stessa questa rivoluzione. Ma questo non basta. È necessario anche che questa classe - e adesso passiamo alla condizione soggettiva - comprenda la situazione, che voglia coscientemente il cambiamento del vecchio ordine delle cose, che abbia alla propria testa un partito capace di dirigerla nel momento della rottura e di assicurarle la vittoria. Ora, questo presuppone una certa situazione della classe borghese dirigente, che deve aver perduto la sua influenza sulle masse popolari, essere scossa nelle proprie file, aver perso la sua sicurezza. Ecco che cos’è esattamente una situazione rivoluzionaria. È soltanto su determinate basi sociali di produzione che possono sorgere le premesse psicologiche, politiche e organiche per la realizzazione dell’insurrezione e la sua vittoria. Il secondo presupposto - la dissociazione di classe o, in altre parole, il ruolo e l’importanza del proletariato nella società esiste? Sì, esiste già da una decina di anni. È quanto dimostra, più di ogni altra cosa, il ruolo del proletariato russo, che tuttavia è di formazione relativamente recente. Che cosa è mancato fino ad ora? L’ultima premessa soggettiva: per il proletariato europeo, la coscienza della sua situazione nella società, una organizzazione e una educazione appropriate, un partito capace di dirigerlo. Varie volte noi, marxisti, abbiamo detto che, a dispetto di tutte le teorie idealiste, la coscienza della società è in ritardo rispetto al suo sviluppo, e ne abbiamo una prova clamorosa nella sorte del proletariato mondiale. Le forze produttive sono mature da molto tempo per il socialismo. Il proletariato, da molto tempo, almeno nei principali paesi capitalistici, svolge un ruolo economico decisivo. Da esso dipende tutto il meccanismo della produzione e, di conseguenza, della società. Ciò che manca, è l’ultimo fattore soggettivo: la coscienza è in ritardo rispetto alla vita. La guerra imperialista è stata il castigo storico di questo ritardo sulla vita, ma, d’altra parte, essa ha dato al proletariato un potente impulso. Essa è avvenuta perché il proletariato non è stato in grado di prevenirla, perché non era ancora riuscito a conoscersi nella società, a comprendere il suo ruolo, la sua missione storica, a organizzarsi, ad assegnarsi il compito della presa del potere e ad attuano. Allo stesso tempo, la guerra imperialista, che è stata la conseguenza non di una colpa, ma di una sventura del proletariato, doveva essere ed è stata un potente fattore rivoluzionario. La guerra ha mostrato la necessità profonda, urgente, di un cambiamento del regime sociale. Molto prima della guerra, il passaggio all’economia socialista presentava notevoli vantaggi; in altre parole, le forze produttive si sarebbero sviluppate su basi socialiste molto più che su basi capitalistiche. Ma, anche sulla base del capitalismo, le forze produttive d’anteguerra crescevano rapidamente, non solo in America, ma anche in Europa. In ciò consisteva la «giustificazione» relativa dell’esistenza stessa del capitalismo. Dopo la guerra imperialista, il quadro è completamente mutato: le forze produttive, lungi dal crescere, diminuiscono. E ora si tratta solo di riparare le distruzioni, non di continuare a sviluppare le forze produttive. Ancora più di prima esse sono strette nel quadro della proprietà individuale e nel quadro degli Stati creati dalla pace di Versailles. Il fatto che il progresso dell’umanità sia attualmente incompatibile con l’esistenza del capitalismo è stato incontestabilmente provato dagli avvenimenti degli ultimi dieci anni. In questo senso, la guerra è stata un fattore rivoluzionario, ma non solo in questo. Sconvolgendo impietosamente tutta l’organizzazione della società, ha sottratto al conservatorismo e alla tradizione la coscienza delle masse lavoratrici. Siamo entrati nell’epoca della rivoluzione. Gli ultimi dieci anni (1914-1924) Se si affronta da questo punto di vista l’ultimo decennio, si nota che esso si divide in vari periodi nettamente delimitati. Il primo è quello della guerra imperialista, che abbraccia più di quattro anni (per la Russia, poco più di tre). Un nuovo periodo comincia in febbraio e, in particolare, nell’ottobre 1917. È il periodo di liquidazione rivoluzionaria della guerra. Gli anni 1918-1919 e una parte dell’anno 1920 (almeno per alcuni paesi) furono interamente assorbiti dalla liquidazione della guerra imperialista e dall’attesa della rivoluzione proletaria in tutta l’Europa. Assistemmo in quel periodo alla rivoluzione d’Ottobre in Russia, al rovesciamento delle monarchie negli imperi centrali, a un potente movimento proletario in tutta l’Europa, e perfino in America. Le ultime ondate di questa tempesta rivoluzionaria furono l’insurrezione del settembre 1920 in Italia e gli avvenimenti del marzo 1921 in Germania. L’insurrezione del settembre 1920 in Italia segue di poco l’offensiva dell’Armata rossa su Varsavia, che era anch’essa parte costitutiva della corrente rivoluzionaria e che rifluì con quest’ultima. Si può dire che quest’epoca di pressione rivoluzionaria diretta del dopoguerra si conclude con l’esplosione del marzo 1921 in Germania. Abbiamo vinto nella Russia zarista, in cui il proletariato ha mantenuto il potere. Le monarchie dell’Europa centrale sono state rovesciate quasi senza colpo ferire. Ma, da nessuna parte, il proletariato si è impadronito del potere, salvo in Ungheria e in Baviera, dove ha potuto conservarlo soltanto per pochissimo tempo. Allora poteva sembrare - e in realtà ai nostri nemici sembrava - che si aprisse un’epoca di restaurazione dell’equilibrio capitalistico, di sutura delle ferite causate dalla guerra imperialista e di consolidamento della società borghese. Dal punto di vista della nostra politica rivoluzionaria, questo nuovo periodo comincia con una ritirata. Questa ritirata, noi l’abbiamo proclamata ufficialmente, non senza una seria lotta interna, al terzo congresso dell’Internazionale comunista, verso la metà del 1921. All’epoca abbiamo constatato che la spinta conseguente alla guerra imperialista era stata insufficiente per la vittoria, perché allora in Europa non c’era un partito dirigente capace di assicurarla, e che l’ultimo grande avvenimento di quel triennio, l’insurrezione di marzo in Germania, era colmo di pericoli e dimostrava chiaramente che, se il movimento continuava su quella strada, minacciava di distruggere il giovane partito dell’Internazionale comunista. Il terzo congresso ha gridato: «Indietro! Arretriamo dal fronte di battaglia sul quale i nostri partiti europei sono stati gettati dagli avvenimenti del dopoguerra». Comincia allora l’epoca della lotta per l’influenza sulle masse, il periodo di accanito lavoro di agitazione e di organizzazione sotto la parola d’ordine del fronte unico proletario, poi sotto quella del fronte unico operaio e contadino. Questo periodo è durato circa due anni. E, durante questo breve spazio di tempo, ha avuto modo di formarsi una mentalità adeguata a un accurato lavoro di agitazione e di propaganda. Sembrava che gli avvenimenti rivoluzionari arretrassero in un avvenire indeterminato, ma abbastanza lontano. Tuttavia, nella seconda parte di questo breve periodo, l’Europa è stata di nuovo sconvolta dalla scossa della Ruhr. A prima vista, l’occupazione della Ruhr poteva sembrare un episodio poco importante per l’Europa insanguinata e sfinita, che aveva già attraversato quattro anni di guerra. In fondo, quell’occupazione fu come una breve ripetizione della guerra imperialista. I tedeschi non resistettero, perché non potevano farlo, e i francesi invasero la regione industriale sulla quale si reggeva l’economia tedesca. Di conseguenza, la Germania e, fino a un certo punto, il resto dell’Europa, si trovarono in un certo senso in stato di guerra. L’economia tedesca e, di riflesso, l’economia francese, si trovarono disorganizzate. Cinque anni dopo che la guerra imperialista aveva sconvolto il mondo intero, sollevato gli strati più arretrati di lavoratori, ma senza condurli alla vittoria, la storia fece in un certo senso una nuova esperienza, un nuovo esame. Io sto dandovi, sembrava dire, una breve riedizione della guerra imperialista. Scuoterò fin dalle fondamenta l’economia già profondamente squilibrata dell’Europa, e darò a voi, proletariato, partiti comunisti, la possibilità di recuperare il tempo perduto in questi ultimi anni. In realtà, nel 1923, in Germania la situazione si evolve bruscamente e radicalmente verso la rivoluzione. La società borghese è sconvolta fin dalle fondamenta. Il presidente del Consiglio dei ministri, Stresemann, dichiara apertamente di essere alla testa dell’ultimo governo borghese della Germania. I fascisti dicono: «Che vengano al potere i comunisti e, dopo, sarà il nostro turno». Lo Stato tedesco è completamente smantellato. Ci si ricordi del crollo del marco e della sorte dell’economia tedesca durante quel periodo. Le masse affluiscono spontaneamente nel partito comunista. La socialdemocrazia, che attualmente è la principale forza al servizio della vecchia società, è scissa, indebolita, non ha più fiducia in se stessa. Gli operai disertano le sue file. E ora, quando consideriamo quel periodo che abbraccia quasi tutto l’anno 1923, in particolare il secondo semestre, dopo la fine della resistenza passiva, ci diciamo: la storia non ha mai creato e probabilmente non creerà mai più condizioni tanto favorevoli per la rivoluzione proletaria e per la presa del potere. Se chiedessimo ai nostri giovani studiosi marxisti di immaginare una situazione più favorevole per la presa del potere da parte del proletariato, credo proprio che non ci riuscirebbero, a condizione chiaramente di operare su dati reali e non su dati fantastici. Ma è venuta a mancare una cosa. Il partito comunista non è stato abbastanza temprato, abbastanza chiaroveggente, abbastanza risoluto e abbastanza combattivo da assicurare l’intervento al momento necessario e quindi la vittoria. E, da questo esempio, impariamo di nuovo a comprendere il ruolo e l’importanza di una giusta direzione del partito comunista, che è l’ultimo fattore, dal punto di vista storico, ma che per importanza non è sicuramente l’ultimo per la rivoluzione proletaria. Il fallimento della rivoluzione tedesca segna un nuovo periodo nello sviluppo dell’Europa e, in parte, di tutto il mondo. Abbiamo caratterizzato questo nuovo periodo come il periodo di arrivo al potere degli elementi democratico-pacifisti della società borghese. I fascisti hanno lasciato il posto ai pacifisti, ai democratici, ai menscevichi, ai radicali e agli altri partiti piccolo-borghesi. Certo, se in Germania avesse trionfato la rivoluzione, tutto il capitolo storico che ora stiamo sfogliando avrebbe un contenuto completamente diverso. Anche se in Francia il governo Herriot fosse giunto al potere, non avrebbe avuto la stessa fisionomia e la sua esistenza sarebbe stata molto più breve, benché io non risponda della sua stabilità. Lo stesso sarebbe stato per MacDonald e per tutte le altre varietà del tipo democratico-pacifista. Fascismo, democrazia, kerenskismo Per comprendere il cambiamento che si è verificato, bisogna sapere che cos’è il fascismo e che cos’è il riformismo pacifista, che qualche volta viene chiamato kerenskismo. Ho già dato una definizione di queste concezioni correnti, ma la ripeterò, perché, senza una esatta comprensione del fascismo e del neoriformismo, si ha inevitabilmente una falsa prospettiva politica. Il fascismo, a seconda dei paesi, può avere aspetti differenti, una composizione sociale diversa, può cioè reclutarsi tra gruppi differenti; ma è essenzialmente il raggruppamento combattivo delle forze che la società borghese minacciata fa nascere per respingere il proletariato nella guerra civile. Quando l’apparato statale democratico-parlamentare si impegola nelle proprie contraddizioni interne, quando la legalità borghese è un intralcio per la borghesia stessa, quest’ultima mette in azione gli elementi più combattivi di cui dispone, li libera dai freni della legalità, li obbliga ad agire con tutti i metodi di distruzione e di terrore. Ed ecco il fascismo. Il fascismo dunque è lo stato di guerra civile per la borghesia, che raduna le sue truppe, allo stesso modo in cui il proletariato raggruppa le sue forze e le sue organizzazioni per l’insurrezione armata nel momento della presa del potere. Di conseguenza, il fascismo non può essere di lunga durata; non può essere uno stato normale della società borghese, proprio come lo stato di insurrezione armata non può essere lo stato costante, normale, del proletariato. O l’insurrezione, scontrandosi con il fascismo, porta alla sconfitta del proletariato, e allora la borghesia restaura progressivamente il suo apparato statale normale; oppure il proletariato è vincitore, e allora non vi è più posto per il fascismo, ma per tutt’altre ragioni. Come sappiamo per nostra esperienza, il proletariato vittorioso dispone di mezzi efficaci per impedire al fascismo di esistere e, a maggior ragione, di svilupparsi. Perciò, la sostituzione del fascismo con il normale «ordine» borghese era predeterminata dal fatto che gli attacchi del proletariato, il primo (1918-1921) come il secondo (1923), erano stati respinti. La borghesia ha resistito e, fino a un certo punto, ha ripreso fiducia. Oggi, in Europa, non è minacciata abbastanza direttamente da armare e mettere in moto i fascisti. Ma non sente la sua posizione abbastanza solida per governare la prima persona. Ecco perché, tra due atti del dramma storico, è necessario il menscevismo. In Inghilterra, il governo MacDonald è necessario alla borghesia. In Francia gli è ancora più necessario il Blocco delle sinistre. Nondimeno, possiamo assimilare il governo laburista e il Blocco delle sinistre al kerenskismo? Abbiamo dato condizionalmente questa denominazione al riformismo di cui ci aspettavamo l’avvento da circa tre anni, mentre davamo per scontata in Francia e in Inghilterra la coincidenza dell’evoluzione parlamentare a sinistra con i cambiamenti rivoluzionari in Germania. Questa coincidenza non si è verificata in seguito alla sconfitta della rivoluzione tedesca nell’ottobre dello scorso anno. Parlare di kerenskismo a proposito del Blocco delle sinistre o del governo MacDonald, significa dimostrare la propria incapacità di comprendere la situazione. Che cosa è il kerenskismo? È un regime in cui la borghesia, non sperando più o non sperando ancora di vincere nella guerra civile aperta, fa le concessioni più estreme e più rischiose e trasmette il potere agli elementi più «sinistri» della democrazia borghese. È il regime in cui l’apparato repressivo sfugge di fatto dalle mani della borghesia. È chiaro che il kerenskismo non può essere uno stato sociale durevole. Esso deve concludersi, o con la vittoria dei korniloviani (vale a dire dei fascisti per l’Europa), o con quella dei comunisti. Il kerenskismo è il preludio diretto dell’Ottobre, anche se, evidentemente, l’Ottobre non deve necessariamente sorgere, in tutti i paesi, dal kerenskismo... In questo senso, possiamo qualificare come kerenskismo il regime di MacDonald o il Blocco delle sinistre? No. La situazione in Inghilterra non corrisponde affatto a quella che c’era in Russia nell’estate del 1917. Le forze del partito comunista inglese non permettono di considerare vicina la presa del potere. In questa situazione non c’è neanche la base per il kornilovismo. Secondo ogni verosimiglianza, MacDonald cederà il posto ai conservatori o ai liberali. In Francia, la situazione dell’apparato statale e le forze del partito comunista non permettono di supporre che il regime del Blocco delle sinistre evolverà direttamente e rapidamente verso la rivoluzione proletaria. Parlare di kerenskismo, in questo caso, è evidentemente fuori luogo. Occorrerebbe un serio cambiamento perché si possa parlare di kerenskismo. Di conseguenza, ci poniamo ora una domanda fondamentale: Che cos’è questo attuale periodo di riformismo? Quali sono le sue basi? Questo regime può consolidarsi, può diventare uno stato normale per una serie di anni - cosa che evidentemente implicherebbe un corrispondente ritardo della rivoluzione proletaria? È il problema fondamentale di oggi. Come ho già detto, non può essere risolto unicamente sul terreno soggettivo, vale a dire secondo i nostri desideri, secondo la nostra volontà di cambiare la situazione. E, in questo caso, come sempre, l’analisi oggettiva, la valutazione di ciò che è, di ciò che cambia, di ciò che diviene deve essere il presupposto della nostra azione. Cerchiamo dunque di affrontare la questione da questo punto di vista. Da che cosa dipende la sorte del riformismo europeo? Attualmente nei principali paesi europei i riformisti sono al potere. Il riformismo presuppone alcune concessioni da parte delle classi possidenti alle classi non possidenti, alcuni modesti «sacrifici» dello Stato borghese a favore della classe operaia. Si può pensare che, nell’Europa attuale, incomparabilmente più povera di prima della guerra, ci sia una base economica per ampie e profonde riforme sociali? Gli stessi riformisti, almeno nel continente, parlano molto poco di queste riforme. Se attualmente si progettano delle «riforme sociali», è piuttosto nel campo borghese: si progetta di sopprimere la giornata di otto ore o, almeno, di apportarvi dei correttivi che, in realtà, la renderanno inesistente. Ma c’è una questione pratica che ha delle affinità con le «riforme» ed è una questione di vita o di morte per gli operai europei, e prima di tutto per gli operai tedeschi, austriaci, ungheresi, cecoslovacchi, polacchi e anche francesi. È la questione della stabilizzazione dei cambi. La stabilizzazione della moneta fiduciaria, marco, corona o franco, comporta quella dei salari e impedisce loro di deprezzarsi. È una questione capitale per tutto il proletariato dell’Europa continentale. È indubbio che i successi relativi ed essenzialmente precari ottenuti con la stabilizzazione della moneta sono una delle basi principali dell’era riformista pacifista. Se in Germania crollasse il marco, la situazione rivoluzionaria si ripresenterebbe integralmente, e se il franco francese continuasse a precipitare come ha fatto alcuni mesi fa, la sorte del governo Herriot sarebbe ancora più problematica di adesso. Di conseguenza, la questione del neoriformismo deve essere formulata in questi termini: su che cosa si basa la speranza di un consolidamento, di un equilibrio economico relativo e temporaneo e, in particolare, la speranza di una stabilizzazione della moneta e dei salari? Che cosa autorizza questa speranza e in quale misura è fondata? Questo interrogativo ci porta a considerare il fattore fondamentale della storia contemporanea dell’umanità: gli Stati Uniti. Voler ragionare sulla sorte dell’Europa e del proletariato mondiale senza tener conto della forza e dell’importanza degli Stati Uniti, significa, in un certo senso, fare i conti senza il padrone, giacché il padrone dell’umanità capitalistica, cioè New York e Washington, è il governo americano. Lo vediamo ora, per esempio, con il piano degli Esperti. L’Europa, fino a ieri così potente, così fiera della sua cultura e del suo passato storico, oggi, per uscire dal vicolo cieco, dalle contraddizioni e dalle disgrazie che si è attirata da sola sulla propria testa, deve far venire da oltre Atlantico un generale Dawes, che forse non è molto intelligente, che forse non ha nessuna intelligenza. Quest’uomo arriva, si siede come arbitro supremo e, come dicono alcuni, mette persino le gambe sul tavolo e stabilisce un quadro esatto dei modi e dei termini di restaurazione dell’Europa. Poi, presenta questo quadro ai governi europei perché vi si conformino. Ed essi vi si conformeranno. Hughes, il ministro americano degli Affari esteri, fa un viaggio non ufficiale in Europa e, nello stesso periodo, MacDonald e Herriot organizzano una conferenza arciufficiale. Dietro la conferenza, tra le quinte, c’è Hughes, che esige ed ordina. Perché? Perché ha la forza. In che cosa consiste questa forza? Nel capitale, nella ricchezza, in una formidabile potenza economica2. Il precedente sviluppo dell’Europa e di tutto il mondo si effettuava, in misura considerevole, sotto la direzione dell’Inghilterra. L’Inghilterra aveva saputo, per prima, utilizzare ampiamente il carbone e il ferro e, di conseguenza, assicurarsi per molto tempo la direzione del mondo. In altri termini, essa realizzava politicamente la sua preponderanza economica e ne traeva profitto nei suoi rapporti internazionali. Dominava in Europa opponendo un paese all’altro, consentendo o rifiutando prestiti, finanziando la lotta contro la Rivoluzione francese ecc. Dominava il mondo intero. Ma la sua preponderanza nel momento di maggiore rigoglio è niente in confronto a quella di cui dispongono attualmente gli Stati Uniti sul resto del mondo, Inghilterra compresa. Questo è il problema fondamentale della storia europea e mondiale. Non capirlo, significa essere incapaci di comprendere il prossimo capitolo della nostra storia. Non è per un caso che il generale Dawes ha varcato l’oceano, che siamo costretti a sapere che egli si chiama Dawes e che ha la qualifica di generale. Egli ha con sé numerosi banchieri americani, che esaminano i documenti dei governi europei e dichiarano: Noi non permetteremo questo, noi esigiamo quest’altro. Perché questo tono autoritario? Tutto il sistema dei risarcimenti fallirà se l’America non effettua il primo versamento: 800 milioni di marchi oro per garantire la moneta tedesca. Dall’America dipende la stabilizzazione o la caduta del franco, ed anche, in misura inferiore, della sterlina. Ora, il marco, il franco e la sterlina giocano un certo ruolo nella vita dei popoli. L’imperialismo «pacifista» degli Stati Uniti Non è da oggi che l’America si è impegnata completamente e definitivamente sulla strada di un’attiva politica imperialista mondiale. Il cambiamento della sua politica risale agli ultimi anni del XIX secolo. La guerra ispanoamericana ha avuto luogo nel 1898; a quell’epoca gli Stati Uniti si sono impadroniti di Cuba e, allo stesso tempo, si sono assicurati la chiave del canale di Panama e, di conseguenza, uno sbocco nell’oceano Pacifico, verso la Cina, verso il continente asiatico. Nel 1900, l’esportazione dei prodotti industriali, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, ha superato la loro importazione. E così l’America ha potuto intraprendere una politica mondiale attiva. Nel 1903, l’America stacca dalla Colombia la provincia di Panama, di cui fa proclamare e riconoscere l’indipendenza. Agisce allo stesso modo con le isole Hawaï e, mi sembra, con le isole Samoa. Quando vuole annettere un territorio straniero o mettere un paese sotto tutela, organizza una piccola rivoluzione locale, poi interviene per pacificare il paese, - come fa attualmente Dawes nell’Europa rovinata dalla guerra, condotta con l’aiuto dell’America. Nel 1903, gli Stati Uniti si assicurano in questo modo l’istmo di Panama e procedono al taglio del canale, il cui compimento, nel 1920, apre, nel senso letterale del termine, un nuovo capitolo nella storia dell’America e di tutto il globo terrestre. Gli Stati Uniti hanno radicalmente corretto la geografia nell’interesse dell’imperialismo americano. Come è noto, la loro industria è concentrata nella parte orientale del paese, verso l’Atlantico. La parte occidentale è soprattutto agricola. Gli Stati Uniti sono attirati principalmente dalla Cina, che ha una popolazione di 400 milioni di abitanti e incalcolabili ricchezze. Attraverso il canale di Panama, la loro industria si apre una via verso l’Occidente che consente di risparmiare parecchie migliaia di chilometri. Gli anni 1898, 1900, 1914 e 1920 sono le date che segnano le tappe principali del cammino dell’imperialismo sul quale si sono deliberatamente avviati gli Stati Uniti. Di queste tappe, la guerra mondiale è stata la più importante. Gli Stati Uniti sono intervenuti soltanto all’ultimo momento, hanno aspettato tre anni prima di uscire dalla loro «neutralità». Inoltre, due mesi prima del loro intervento, Wilson dichiarava che non era neanche il caso di parlare della partecipazione dell’America alla sanguinosa follia dei popoli europei. Per tre anni, gli Stati Uniti si sono accontentati di convertire metodicamente in dollari il sangue dei «folli» europei. Ma, nel momento in cui la guerra minacciava di concludersi con la vittoria della Germania, loro più pericolosa rivale, gli Stati Uniti sono intervenuti, e il loro intervento ha deciso l’esito della lotta. Fatto notevole: è a scopo d’interesse che l’America ha alimentato la guerra attraverso la sua industria; è a scopo di interesse che è intervenuta, per schiacciare un temibile concorrente; e, tuttavia, è riuscita a mantenere una solida reputazione di pacifismo. È uno dei paradossi della storia, paradosso che non ha e non avrà niente di divertente per noi. L’imperialismo americano, fondamentalmente brutale, spietato, rapace, grazie alle particolari condizioni dell’America, ha la possibilità di avvolgersi nel mantello del pacifismo - cosa che non possono fare gli avventurieri imperialisti del vecchio mondo. Ciò dipende da ragioni geografiche e storiche. Gli Stati Uniti non hanno avuto bisogno di mantenere un esercito di terra. Perché? Perché sono separati dai loro rivali da immensi oceani. L’Inghilterra è un’isola, e questo è uno dei fattori determinanti del suo carattere, e insieme uno dei suoi principali vantaggi. Anche gli Stati Uniti sono una vasta isola in rapporto al vecchio mondo. L’Inghilterra si protegge con la sua flotta. Ma, se si riesce a sfondare il suo fronte navale, è facile conquistarla, perché rappresenta soltanto una stretta striscia di terra. Ma provate a conquistare gli Stati Uniti! È un’isola che ha allo stesso tempo tutti i vantaggi della Russia, l’immensità del territorio. Anche senza flotta, gli Stati Uniti sarebbero quasi invulnerabili, grazie alla loro vasta superficie. Ecco la principale ragione geografica che ha permesso loro di agghindarsi con questa maschera del pacifismo. In realtà, contrariamente all’Europa e agli altri paesi, l’America, fino ad ora, non aveva esercito. E se ne ha uno, è perché vi è stata costretta. Chi l’ha costretta? I barbari, il kaiser, gli imperialisti tedeschi. La seconda ragione della reputazione di pacifismo degli Stati Uniti, bisogna cercarla nella storia. Essi sono intervenuti nell’arena mondiale quando l’intero globo terrestre era già conquistato, diviso e oppresso. Per questo l’avanzata imperialista degli Stati Uniti si effettua sotto le parole d’ordine: «Libertà dei mari», «Frontiere aperte» ecc. ecc. Perciò, quando l’America è costretta a compiere apertamente una canagliata militarista, agli occhi della sua popolazione e, in una certa misura, di tutta l’umanità, la responsabilità incombe unicamente sui cittadini ritardati del resto del mondo. Wilson ha aiutato a dare il colpo di grazia alla Germania, poi è arrivato in Europa armato dei suoi quattordici punti, in cui prometteva il benessere generale, la pace universale, il castigo del kaiser, proclamava il diritto delle nazioni a disporre di se stesse, il regno della giustizia ecc. E, per lunghi mesi, i piccoli borghesi, e anche una gran parte degli operai europei, credettero nel vangelo di Wilson. Rappresentante del capitale americano, che si era macchiato di sangue attizzando la guerra europea, questo professore di provincia apparve in Europa come l’apostolo del pacifismo e della riconciliazione. E tutti dicevano: Wilson darà la pace, Wilson restaurerà l’Europa. Ma Wilson non riuscì a ottenere al primo colpo ciò che è venuto a realizzare oggi il generale Dawes con la sua scorta di banchieri e, offeso, girò le spalle all’Europa e se ne tornò a casa. Quali non furono allora i clamori dei democratici-pacifisti e dei socialdemocratici contro la follia della borghesia europea, che non aveva voluto accordarsi con Wilson e non aveva saputo realizzare la pacificazione e il benessere dell’Europa! Wilson fu isolato. Il partito repubblicano andò al potere. L’America attraversò allora un periodo di prosperità commerciale e industriale basata quasi unicamente sul mercato interno, vale a dire sul temporaneo equilibrio tra industria e agricoltura, tra l’Est e l’Ovest del paese. Questa prosperità durò soltanto due anni: ebbe fine del 1923. Ma, dalla primavera scorsa, si sono manifestati i sintomi di una crisi commerciale e industriale, preceduta peraltro da una forte crisi agricola che ha crudelmente colpito le regioni agricole del paese. E, come sempre, questa crisi ha dato all’imperialismo un nuovo impulso vivificante. Il capitale finanziario degli Stati Uniti ha spedito i suoi rappresentanti in Europa per completare l’opera cominciata durante la guerra imperialista e continuata con la pace di Versailles, vale a dire per mettere l’Europa sotto tutela economica. Il piano degli Stati Uniti: mettere l’Europa «a stecchetto» Che cosa vuole il capitale americano? A cosa tende? Esso cerca, si dice, la stabilità. Vuole ristabilire il mercato europeo nel suo interesse, vuole restituire all’Europa la sua capacità di acquisto. In che modo? Con quali limitazioni? In realtà, il capitale americano non può volersi creare un concorrente nell’Europa. Esso non può ammettere che l’Inghilterra e, a maggior ragione, la Germania e la Francia recuperino i loro mercati mondiali, perché esso stesso vi sta stretto, poiché esporta prodotti ed esporta se stesso. Esso mira al dominio del mondo, vuole instaurare la supremazia dell’America sul nostro pianeta. Che cosa deve fare verso l’Europa? Deve pacificarla, dice. Come? Sotto la sua egemonia. Che cosa significa? Che esso deve permettere all’Europa di risollevarsi, ma entro limiti ben determinati, accordarle settori determinati, ristretti del mercato mondiale. Il capitale americano ora comanda ai diplomatici. Si prepara a comandare anche alle banche e ai trusts europei, a tutta la borghesia europea. A questo tende. Assegnerà ai finanzieri e agli industriali europei determinati settori del mercato. Regolerà le loro attività. In una parola, vuole ridurre l’Europa capitalistica al proprio servizio; in altre parole, indicarle quante tonnellate, litri o chilogrammi di questa o quell’altra materia ha il diritto di comprare o di vendere. Già nelle tesi per il terzo congresso dell’Internazionale comunista, scrivemmo che l’Europa è balcanizzata. Questa balcanizzazione oggi continua. Gli Stati balcanici hanno sempre avuto dei protettori, nella persona della Russia zarista o dell’Austria-Ungheria, che imponevano il cambiamento della loro politica, dei loro governanti, o addirittura delle loro dinastie (Serbia). Attualmente, l’Europa si trova in una situazione analoga nei confronti degli Stati Uniti e, in parte, della Gran Bretagna. Man mano che si svilupperanno i loro antagonismi, i governi europei andranno a cercare aiuto e protezione a Washington e a Londra; il cambiamento dei partiti e dei governi sarà determinato, in ultima analisi, dalla volontà del capitale americano, che indicherà all’Europa quanto deve bere e mangiare ... Il razionamento, lo sappiamo per esperienza, non è mai troppo piacevole. Ora, la razione strettamente limitata che stabiliranno gli americani per i popoli europei verrà applicata anche alle classi dominanti non solo della Germania e della Francia, ma anche della Gran Bretagna. L’Inghilterra deve considerare questa eventualità. Ma attualmente, dicono, l’America sta con l’Inghilterra; si è formato un blocco anglosassone, esiste un capitale anglosassone, una politica anglosassone; il principale antagonismo del mondo è quello che divide l’America e il Giappone. Parlare in questo modo, significa dimostrare la propria incomprensione della situazione. L’antagonismo fondamentale del mondo è l’antagonismo angloamericano. È ciò che il futuro dimostrerà sempre più chiaramente. L’imperialismo americano e la socialdemocrazia europea Ma prima di affrontare questa importante questione, esaminiamo qual è il ruolo che il capitale americano riserva ai radicali e ai menscevichi europei, alla socialdemocrazia in questa Europa che sta per essere posta a regime controllato. La socialdemocrazia è incaricata di preparare questa nuova situazione, cioè di aiutare politicamente il capitale americano a mettere a razione l’Europa. Che fanno in questo momento le socialdemocrazie tedesca e francese, che fanno i socialisti di tutta Europa? Si educano e si sforzano di educare le masse operaie nella religione dell’americanismo; in altre parole, fanno dell’americanismo, del ruolo del capitale americano in Europa, una nuova religione politica. Si sforzano di persuadere le masse lavoratrici che, senza il capitale americano, essenzialmente pacificatore, senza i prestiti dell’America, l’Europa non potrà resistere. Fanno opposizione alla loro borghesia, come i socialpatrioti tedeschi, non dal punto di vista della rivoluzione proletaria, e neanche per ottenere delle riforme, ma per dimostrare che questa borghesia è intollerabile, egoista, sciovinista e incapace di andare d’accordo con il capitale americano pacifista, umanitario, democratico. È il problema fondamentale della vita politica dell’Europa e, in particolare, della Germania. In altri termini, la socialdemocrazia europea diventa oggi l’agenzia politica del capitale americano. È un fatto inaspettato? No, poiché la socialdemocrazia, che era l’agenzia della borghesia, nella sua degenerazione politica, doveva fatalmente diventare l’agenzia della borghesia più forte, della più potente, della borghesia di tutte le borghesie, cioè della borghesia americana. Poiché il capitale americano assume il compito di unificare, di pacificare l’Europa, di insegnarle a risolvere i problemi dei risarcimenti e altri ancora, e poiché tiene i cordoni della borsa, la dipendenza della socialdemocrazia nei confronti della borghesia tedesca in Germania, della borghesia francese in Francia, diventa sempre di più una dipendenza nei confronti del padrone di queste borghesie. Il capitale americano è attualmente il padrone dell’Europa. Ed è naturale che la socialdemocrazia cada politicamente sotto la dipendenza del padrone dei suoi padroni. Questo è il fatto essenziale per comprendere la situazione attuale e la politica della Seconda Internazionale. Non rendersene conto, significa non poter comprendere gli avvenimenti di oggi e di domani, significa vedere soltanto la superficie delle cose e soddisfarsi di frasi generiche. La socialdemocrazia prepara il terreno al capitale americano, si fa suo araldo, parla del suo ruolo salutare, gli apre la strada, l’accompagna con i suoi auguri, lo glorifica. Non è un lavoro di poca importanza. Prima, l’imperialismo si faceva spianare la strada dai missionari, che i selvaggi di solito fucilavano, e qualche volta addirittura mangiavano. Per vendicare i loro morti, allora, spedivano truppe, successivamente mercanti e amministratori. Per colonizzare l’Europa, per farne il proprio dominio, il capitale americano non ha bisogno di spedirvi dei missionari. Sul posto, c’è già un partito il cui compito è di predicare ai popoli il vangelo di Wilson, il vangelo di Coolidge, le Sacre Scritture delle Borse di New York e di Chicago. In questo consiste l’attuale missione del menscevismo europeo. Ma, servizio per servizio! I menscevichi ricavano dalla loro dedizione parecchi vantaggi. Per questo, proprio ultimamente, durante il periodo della guerra civile acuta, la socialdemocrazia tedesca ha dovuto assumere la difesa armata della sua borghesia, di quella stessa borghesia che camminava tenendosi per mano con i fascisti. Infatti, Noske è una figura simbolica della politica postbellica della socialdemocrazia tedesca. Oggi, quest’ultima ha un ruolo completamente diverso: può permettersi il lusso di stare all’opposizione. Critica la sua borghesia e, con questo, mette una certa distanza tra sé e i partiti del capitale. Come la critica? Tu sei egoista, interessata, stupida, nociva, le dice; ma al di là dell’Atlantico, c’è una borghesia ricca e potente, umanitaria, riformista, pacifista, che viene di nuovo da noi, che vuole darci 800 milioni di marchi per restaurare la nostra moneta e tu ti inalberi, osi ribellarti contro di lei quando hai sprofondato la nostra patria nella miseria. Ti smaschereremo senza pietà davanti alle masse popolari tedesche. E questo, lo dice in tono quasi rivoluzionario, difendendo la borghesia americana. Lo stesso accade in Francia. Evidentemente, poiché la situazione politica è più favorevole e il franco non è ancora troppo svalutato, la socialdemocrazia gioca il suo ruolo in sordina, ma in realtà fa esattamente la stessa cosa della socialdemocrazia tedesca. Il partito di Léon Blum, Renaudel, Jean Longuet ha interamente la responsabilità della pace di Versailles e dell’occupazione della Ruhr. Infatti, è incontestabile che il governo Herriot, sostenuto dai socialisti, è per il mantenimento dell’occupazione della Ruhr. Ma, adesso, i socialisti francesi hanno la possibilità di dire al loro alleato Herriot: «Gli americani esigono che voi evacuiate la Ruhr a determinate condizioni; fatelo; ora, anche noi lo esigiamo». Essi lo esigono, non per manifestare la volontà e la forza del proletariato francese, ma per subordinare la borghesia francese alla borghesia americana. Non dimenticate inoltre che la borghesia francese deve 3 miliardi e 700 milioni di dollari alla borghesia americana. È una somma notevole. L’America, quando vorrà, può far precipitare il franco. Certo, non lo farà; è venuta in Europa per instaurarvi l’ordine e non per accumulare rovine. Non lo farà; ma potrà farlo, se vuole. Tutto dipende da lei. Ecco perché, di fronte a questo enorme debito, gli argomenti di Renaudel, Blum e soci sembrano abbastanza convincenti alla borghesia francese. Allo stesso tempo, la socialdemocrazia in Germania, in Francia e altrove, ottiene la possibilità di opporsi alla sua borghesia, di condurre su problemi concreti una politica «di opposizione» e, di conseguenza, di conquistarsi la fiducia di una parte della classe operaia. Inoltre, i partiti menscevichi dei vari paesi europei ora hanno alcune possibilità di «azioni» comuni. Già ora la socialdemocrazia europea rappresenta una organizzazione abbastanza unita. Questo in qualche modo è un fatto nuovo. Infatti, da dieci anni, dall’inizio della guerra imperialista essa non aveva potuto intervenire in blocco. Adesso può farlo e i menscevichi intervengono per sostenere in coro l’America, il suo programma, le sue rivendicazioni, il suo pacifismo, la sua grande missione. Così, la Seconda Internazionale, questo mezzo cadavere, si galvanizza un pò. Come l’Internazionale di Amsterdam, essa si restaura. Certo, non sarà più ciò che era prima della guerra. Non avrà più la forza di un tempo; è impossibile risuscitare il passato e cancellare dalla storia l’Internazionale comunista. È impossibile cancellare la guerra imperialista, che è stato un colpo terribile per la Seconda Internazionale. Tuttavia, quest’ ultima cerca di riprendersi, di rimettersi in piedi, di camminare con le stampelle americane. Durante la guerra imperialista, i socialdemocratici tedeschi e francesi erano apertamente legati alle rispettive borghesie. Poteva esserci una Internazionale quando i diversi partiti si combattevano, si accusavano, si insultavano a vicenda? Non c’era nessuna possibilità di indossare la maschera dell’internazionalismo. Al momento della conclusione della pace, era la stessa cosa. A Versailles furono semplicemente fissati i risultati della guerra imperialista sui documenti diplomatici. C’era posto in quel momento per la solidarietà? Certamente no. Nel periodo dell’occupazione della Ruhr, neanche. Ma adesso, il capitale americano arriva in Europa e dichiara: Popoli, ecco un piano di risarcimenti; signori menscevichi, ecco un programma. E questo programma, la socialdemocrazia lo accetta come base della sua attività. Questo nuovo programma unifica le socialdemocrazie francese, tedesca, inglese, olandese, svizzera. Infatti, ogni piccolo borghese svizzero spera che la sua patria possa vendere più orologi quando gli americani avranno ristabilito l’ordine e la pace in Europa. E tutta la piccola borghesia, che si esprime attraverso la socialdemocrazia, ritrova la sua unità spirituale nel programma dell’americanismo. In altri termini, la Seconda Internazionale attualmente ha un programma di unificazione: quello che il generale Dawes le ha portato da Washington. Di nuovo lo stesso paradosso: quando il capitale americano interviene per un’opera di rapina, ha ogni possibilità di farlo facendosi passare per un riorganizzatore, un pacificatore, un realizzatore delle aspirazioni umanitarie, creando per la socialdemocrazia una piattaforma incomparabilmente più vantaggiosa di quella nazionale adottata fino a ieri. La borghesia nazionale è qui, tutti possono vederla, mentre il capitale americano è lontano, è difficile conoscere i suoi affari, che non sono sempre tra i più puliti; ma in Europa, esso interviene in qualità di pacificatore: la sua colossale potenza, senza precedenti nella storia, soprattutto la sua ricchezza, si impongono ai piccoli borghesi, ai socialdemocratici. Vi dirò, incidentalmente, che durante quest’ultimo anno, sono stato costretto, per le mie funzioni, ad avere dei colloqui con alcuni senatori americani dei partiti repubblicano e democratico. Esteriormente, sono dei provinciali. Non sono sicuro che conoscano la geografia dell’Europa, penserei piuttosto di no, ma quando parlano di politica, si esprimono così: «Ho detto a Poincaré», «Ho fatto notare a Curzon», «Ho spiegato a Mussolini». In Europa, si sentono come in un paese conquistato. Un fabbricante arricchito di latte condensato, di conserve o altri prodotti, parla con tono protettore dei politici borghesi più influenti d’Europa. Egli prevede che sarà presto il padrone, e si sente già il padrone. E questo perché i calcoli della borghesia inglese, che spera di conservare il suo ruolo dirigente, saranno sventati. Gli Stati Uniti e l’Inghilterra Il principale antagonismo mondiale è quello tra gli interessi degli Stati Uniti e quelli dell’Inghilterra. Perché? Perché l’Inghilterra è ancora il paese più ricco e più potente dopo gli Stati Uniti. È il principale rivale dell’America, il principale ostacolo sulla sua strada. Se si riesce a scalzare la potenza dell’Inghilterra, a domarla, o persino a rovesciarla, che cosa resterà? 3 Certo, gli Stati Uniti trionferanno sul Giappone. Essi hanno tutte le carte in mano: 1’ oro, il ferro, il carbone, la nafta; sono politicamente avvantaggiati nei loro rapporti con la Cina, che vogliono «liberare» dal Giappone. L’America libera sempre qualcuno: in qualche modo, è la sua professione. Per questo motivo, quindi, il principale antagonismo è quello che divide gli Stati Uniti e l’Inghilterra. Esso si aggrava di giorno in giorno. La borghesia inglese non si sente molto a suo agio dopo il trattato di Versailles. Sa quel che vale la moneta sonante, e non può non accorgersi che il dollaro prevale sulla sterlina. Sa che questa superiorità si tradurrà inevitabilmente nella sfera politica. Essa stessa ha sfruttato a fondo la potenza della sterlina nella sua politica internazionale, e adesso sente che si apre l’era del dollaro. Cerca di consolidarsi, di cullarsi di illusioni. Perciò i giornali inglesi più seri dicono: Sì, gli americani sono molto ricchi, ma in fin dei conti non sono altro che dei provinciali. Non conoscono le vie della politica mondiale. Noi, inglesi, abbiamo incomparabilmente più esperienza. Gli yankees hanno bisogno dei nostri consigli, della nostra direzione, e noi, inglesi, guideremo nelle vie della politica mondiale questi parenti di provincia improvvisamente arricchiti il che non ci impedirà di conservare la nostra posizione dominante e di ricevere sul mercato una buona mediazione. Di sicuro, in questo c’è una parte di verità. Come ho già detto, non è sicuro che i senatori americani conoscano la geografia dell’Europa; ora, per fare grossi affari sul nostro continente, è necessario conoscerne la geografia. Ma è così difficile per una classe dominante acquisire delle conoscenze? Quando la borghesia si arricchisce rapidamente, non le è difficile istruirsi nelle scienze e nelle arti. I figli dei nostri Morozov e Mamontov somigliano quasi a dei lord ereditari. Per la classe oppressa, per il proletariato è difficile svilupparsi, assimilare tutti gli elementi della cultura. Ma questo è facile per una classe dominante, soprattutto quando è anche opulenta come la borghesia americana. Quest’ultima troverà, formerà o comprerà specialisti in tutti i campi. L’americano non fa che cominciare a rendersi conto della sua importanza mondiale; anche in lui, la «coscienza» è in ritardo sulla «realtà». Bisogna considerare il problema non come si presenta ai nostri occhi in questo momento, ma nelle sue prospettive. Ora, l’americano, non tarderà a capire completamente la propria forza e, di conseguenza, il suo ruolo. La potenza economica degli Stati Uniti non si è ancora fatta sentire interamente, ma si farà sentire su tutto. Ciò di cui dispone attualmente l’Europa capitalistica nella politica mondiale sono solo i resti della sua potenza economica di ieri, della sua vecchia influenza mondiale, che non corrisponde più alle condizioni materiali odierne. È vero, l’America non ha ancora imparato a realizzare la sua potenza. Ma lo impara rapidamente a scapito dell’Europa. Ancora per qualche tempo avrà bisogno dell’Inghilterra per guidarla nelle strade della politica mondiale. Ma non le occorrerà molto tempo per eguagliarla e superarla in questo campo. Una classe dominante in ascesa muta rapidamente carattere, fisionomia e metodi d’azione. Guardate, per esempio, la borghesia tedesca. È passato molto tempo da quando i tedeschi erano considerati timidi sognatori dagli occhi blu, un popolo di poeti e di pensatori? Ora, qualche decina d’anni di sviluppo capitalistico è bastata per fare della borghesia tedesca la classe imperialista più corazzata, più brutale, più aggressiva. È vero, il castigo non si è fatto attendere a lungo. E, di nuovo, è cambiato il carattere del borghese tedesco. Egli assimila rapidamente sull’arena europea tutte le abitudini e tutti i comportamenti del cane bastonato. La borghesia inglese è più seria. Il suo carattere si è formato nel corso di parecchi secoli. Il suo sentimento di classe è profondamente radicato e sarà più difficile farle perdere la sua mentalità di padrona dell’universo. Ma gli americani ci riusciranno quando lo vorranno, e lo vorranno presto. Inutilmente il borghese inglese si consola pensando di guidare l’americano inesperto. Certo, ci sarà un periodo di transizione, ma l’importante non è l’esperienza diplomatica, è la forza reale, è il capitale, è l’industria. Ora, gli Stati Uniti occupano economicamente il primo posto nel mondo. La loro produzione di oggetti di prima necessità varia da un terzo ai due terzi della produzione mondiale. Essi producono i due terzi (nel 1923 persino il 72%) del petrolio, che attualmente gioca un ruolo militare e industriale eccezionale. È vero che si lamentano che le loro fonti petrolifere si esauriscono. Nei primi tempi dopo la guerra credevo che queste lamentele fossero solo un modo di preparare l’opinione pubblica ad una manomissione del petrolio degli altri paesi. Tuttavia, i geologi confermano che, se l’America continua a consumare petrolio nelle attuali proporzioni, non ne avrà più che per 25-40 anni. Ma, alla scadenza di questo termine, grazie alla sua industria e alla sua flotta, avrà già avuto il tempo di togliere agli altri paesi tutto il loro petrolio, perciò non è il caso di preoccuparci. La situazione mondiale degli Stati Uniti si esprime attraverso cifre indiscutibili. Infatti, la produzione di grano dell’America rappresenta un quarto della produzione mondiale, quella dell’avena un terzo, quella del mais i tre quarti. Gli Stati Uniti producono la metà del carbone del mondo, la metà del minerale di ferro, il 60% dell’acciaio, il 60% del rame, il 47% dello zinco. La loro rete ferroviaria rappresenta il 37% della rete mondiale. La loro flotta commerciale, che prima della guerra quasi non esisteva, attualmente rappresenta più del 25% del tonnellaggio mondiale. Infine, gli Stati Uniti possiedono l’84% delle automobili di tutto il mondo. Se per l’estrazione dell’oro occupano un posto relativamente modesto (14%), non bisogna dimenticare che, grazie alla loro bilancia commerciale attiva, essi hanno concentrato il 44,2% dell’oro esistente nel mondo. Il loro reddito nazionale è due volte e mezzo superiore a quello del l’Inghilterra, della Francia, della Germania e del Giappone messi insieme. Queste cifre decidono tutto. Esse apriranno la strada all’America sulla terra, sul mare e nell’aria. Che cosa preannunciano queste cifre per l’Inghilterra? Niente di buono. Significano che l’Inghilterra non eviterà la sorte degli altri paesi capitalistici, che dovrà accettare di ridimensionarsi. Ma quando dovrà rassegnarvisi apertamente, non si farà appello a Curzon, poiché è troppo intransigente, bensì a MacDonald. I politicanti borghesi inglesi non vorranno mai fare accettare questa umiliazione al loro paese. Occorrerà la pietosa eloquenza di MacDonald, di Henderson, dei «fabiani» per fare pressione sulla borghesia inglese e persuadere gli operai inglesi: «Andiamo a combattere contro l’America? diranno. No, noi siamo per la pace, siamo per un accordo». Ora, quale sarà l’accordo con lo zio Sam? Le cifre citate sopra lo dimostrano eloquentemente. «Accetta il ridimensionamento, ecco il solo accordo possibile. E se non vuoi, preparati alla guerra». Fino ad ora, l’Inghilterra ha indietreggiato un passo dopo l’altro davanti all’America. Così, proprio recentemente, il presidente Harding ha invitato a Washington la Francia, il Giappone e l’Inghilterra, e ha proposto tranquillamente a quest’ultima di limitare lo sviluppo della sua flotta. Prima della guerra, come è noto, l’Inghilterra si atteneva al principio secondo il quale la sua flotta da guerra doveva essere superiore alle flotte riunite delle due potenze navali più forti dopo di lei. Gli Stati Uniti hanno messo fine a questo stato di cose. A Washington, Harding, come di dovere, ha cominciato il suo discorso dicendo che «la coscienza della civiltà si era svegliata» e l’ha terminato dichiarando: La proporzione delle nostre forze navali sarà la seguente: Inghilterra, 5; Stati Uniti, 5 (per il momento); Francia, 3; Giappone, 3. Perché questa correlazione? Prima della guerra, la flotta americana era molto inferiore alla flotta inglese. Durante la guerra, è aumentata considerevolmente. Quando gli inglesi parlano del pericolo rappresentato dalla flotta degli americani, questi ultimi rispondono: «Perché abbiamo costruito questa flotta? Non è forse per difendere le isole britanniche dai sottomarini tedeschi?» Ecco perché, con questa scusa, è stata costruita la flotta. Ma essa può servire anche per altri scopi. Perché gli Stati Uniti sono dovuti ricorrere al programma di limitazione degli armamenti di Washington? Non certo perché non potevano costruire abbastanza rapidamente navi da guerra, grandi vascelli di linea. Nel campo della costruzione, nessuno può pensare di eguagliarli. Ma è impossibile creare, istruire e formare rapidamente i marinai necessari; per questo, occorre tempo, ed ecco la ragione della tregua di dieci anni che si sono dati gli americani a Washington. Quando difendevano il programma di limitazione degli armamenti navali, le riviste americane in sostanza scrivevano: «Se non volete mettervi d’accordo con noi, faremo navi da guerra come panini». Quanto alla risposta della rivista marittima ufficiale inglese, è stata pressappoco questa: «Noi siamo pronti a un accordo pacifico, perché minacciarci?». Questa risposta riflette la nuova mentalità dei dirigenti inglesi. Si abituano all’idea che bisogna sottomettersi all’America e che il massimo che si possa richiedere ad essa è di essere cortese. È anche tutto ciò che la borghesia europea potrà sperare domani dall’America. Nella sua rivalità con gli Stati Uniti, l’Inghilterra non può che indietreggiare. Attraverso questi successivi indietreggiamenti, il capitale inglese si compra una partecipazione agli affari del capitale americano e per questo si ha l’impressione di un blocco capitalistico anglosassone. La facciata è salva, e non senza profitto, poiché I’ Inghilterra ne ricava importanti vantaggi, ma deve ripiegare davanti all’America, cederle il passo. L’America rafforza le sue posizioni mondiali, l’Inghilterra si indebolisce. Recentemente, essa ha rinunciato a fortificare Singapore. Ora, Singapore è la chiave dell’Oceano Indiano e del Pacifico, una delle basi più importanti della politica inglese in Estremo Oriente. Ma l’Inghilterra può portare avanti la sua politica nel Pacifico, sia con il Giappone contro l’America, sia con l’America contro il Giappone. Per le fortificazioni di Singapore erano state stanziate somme enormi. Posto di fronte all’alternativa di andare con l’America contro il Giappone o con il Giappone contro l’America, MacDonald ha rinunciato a fortificare Singapore. Certo, l’imperialismo inglese non ha ancora detto la sua ultima parola e forse ritornerà sul suo consenso, ma per l’Inghilterra questo è l’inizio della sua rinuncia a una politica indipendente nel Pacifico. Chi le ha ordinato di rompere con il Giappone? L’America. Quest’ultima le ha rivolto un ultimatum nella debita forma, e l’Inghilterra si è inchinata, ha denunciato la sua alleanza con il Giappone. In questo momento l’Inghilterra cede, batte in ritirata. Ma cosa ci dice che dovrà essere sempre così e che sia esclusa la guerra? Nulla. Le attuali concessioni dell’Inghilterra non faranno che aumentare le sue difficoltà. Sotto l’apparenza della collaborazione, si accumulano formidabili antagonismi. La guerra scoppierà fatalmente, perché l’Inghilterra non acconsentirà mai a essere relegata in secondo piano e a ridurre il suo impero. A un certo punto, sarà costretta a mobilitare tutte le sue forze per resistere alla sua rivale. Ma, nella lotta aperta, tutte le possibilità, per quanto possiamo giudicare, sono dalla parte dell’America. L’Inghilterra è un’isola, e anche l’America, nel suo genere, è un’isola, ma più vasta. Nella sua esistenza giornaliera, l’Inghilterra dipende interamente dai paesi d’oltre Atlantico. Ora, in America c’è tutto quello che occorre per l’esistenza e per la guerra. L’Inghilterra ha colonie in tutte le parti del mondo, e l’America si sta dando da fare per «liberarle». Dal momento in cui sarà in guerra con l’Inghilterra, l’America farà appello alle centinaia di milioni di indù e li inviterà a sollevarsi per difendere i loro diritti nazionali intangibili. Agirà nello stesso modo nei confronti dell’Egitto, dell’Irlanda ecc. Allo stesso modo in cui, per torchiare l’Europa, ora si agghinda con il mantello del pacifismo, al momento della guerra con l’Inghilterra interverrà come la grande liberatrice dei popoli coloniali. La storia favorisce il capitale americano: per ogni brigantaggio, gli fornisce una parola d’ordine di emancipazione. In Europa, gli Stati Uniti chiedono l’applicazione della politica delle «porte aperte». Il Giappone vuole smembrare la Cina e mettere le mani su alcune sue provincie, perché non ha né ferro, né carbone, né petrolio, mentre la Cina possiede tutto questo. Esso non può né vivere, né fare la guerra senza carbone, senza ferro e senza petrolio, cosicché si trova in condizione di notevole inferiorità nella sua lotta contro gli Stati Uniti. Per questo cerca di impadronirsi con la forza delle ricchezze della Cina. E gli Stati Uniti cosa fanno? Dicono: «Porte aperte in Cina!». Che dice l’America a proposito degli oceani? «Libertà dei mari!». È una parola d’ordine che suona bene. Che cosa significa in realtà? «Flotta inglese, scansati un poco, lasciami passare!». Il regime delle frontiere aperte in Cina, vuoi dire: «Giapponese, scostati, lasciami la via libera». Si tratta insomma di conquiste economiche, di saccheggi. Ma, a causa delle condizioni speciali in cui si trovano gli Stati Uniti, la loro politica riveste un’ apparenza di pacifismo, talvolta persino di fattore di emancipazione. Evidentemente, anche l’Inghilterra ha enormi vantaggi. Prima di tutto, possiede punti di appoggio, basi navali e militari in tutto il mondo, cosa che l’America non ha. Ma tutto questo lo si può creare, o prenderlo con la forza, poco a poco; inoltre, i punti d’appoggio dell’Inghilterra sono legati alla sua dominazione coloniale e, di conseguenza, sono vulnerabili. L’America, poiché è la più forte, troverà in tutto il mondo alleati e aiuti e, allo stesso tempo, le basi necessarie. Se ora si annette il Canada e l’Australia con la parola d’ordine della difesa della razza bianca contro la razza gialla, e con questo fonda il suo diritto alla preponderanza militare e navale, nello stadio successivo, forse molto vicino, della sua evoluzione, dichiarerà che gli uomini di colore giallo sono creati anch’essi a immagine di Dio e, di conseguenza, hanno il diritto di sostituire la dominazione economica dell’America alla dominazione coloniale dell’Inghilterra. In una guerra con l’Inghilterra, gli Stati Uniti sarebbero terribilmente avvantaggiati, perché, fin dal primo giorno, potrebbero chiamare gli indù, gli egiziani e altri popoli coloniali all’insurrezione, armarli e sostenerli. L’Inghilterra sarà costretta a pensarci due volte prima di decidersi alla guerra. Ma se non vuole rischiare la guerra, sarà costretta a ripiegare passo a passo sotto la pressione del capitale americano. Per fare la guerra, occorrono dei Lloyd George e dei Churchill; per indietreggiare senza combattere, ci vogliono dei MacDonald. Ciò che abbiamo detto dei rapporti tra Stati Uniti e Inghilterra si applica ai rapporti degli Stati Uniti con il Giappone, con la Francia e con gli altri Stati europei secondari. Qual è il problema oggi in Europa? L’Alsazia-Lorena, la Ruhr, il bacino della Saar, la Slesia, cioè alcuni miseri pezzi, alcune strisce di territori. Nel frattempo, l’America elabora il suo piano e si prepara a mettere a razione tutto il mondo. Contrariamente all’Inghilterra, essa non si propone di mettere in piedi un esercito, un’amministrazione per le sue colonie, Europa compresa; no, «permetterà» a queste ultime di mantenere l’ordine riformista, pacifista, anodino, con l’aiuto della socialdemocrazia, dei radicali e degli altri partiti piccolo-borghesi, e dimostrerà ad essi che devono esserle riconoscenti perché non ha attentato alla loro «indipendenza». Ecco il piano del capitale americano, ecco il programma sui quale si ricostituisce la Seconda Internazionale. Prospettive di guerra e di rivoluzione Questo programma americano di messa sotto tutela di tutto il mondo non è affatto un programma pacifista; al contrario, è denso di guerre e di sconvolgimenti rivoluzionari. Non è senza motivo che l’America continua a sviluppare la sua flotta. Costruisce attivamente incrociatori leggeri e rapidi, sottomarini e navi ausiliarie. E quando l’Inghilterra si azzarda a protestare a mezza voce, risponde: «Ricordatevi che io devo fare i conti non solo con voi, ma anche con il Giappone; il Giappone possiede una enorme quantità di incrociatori leggeri, e io devo ristabilire la proporzione che, come sapete, è di 5 a 3». A questo è impossibile replicare, perché gli Stati Uniti, secondo la loro espressione, possono fare navi da guerra come panini. Ecco la prospettiva della prossima guerra mondiale, di cui l’oceano Pacifico e l’oceano Atlantico saranno l’arena, anche ammesso che la borghesia possa continuare a governare il mondo per un periodo abbastanza lungo. È molto poco verosimile che la borghesia di tutti i paesi consenta ad essere relegata all’ultimo posto, a diventare il vassallo dell’America senza tentare almeno di resistere. In realtà, l’Inghilterra ha degli appetiti formidabili, un desiderio furioso di mantenere la sua dominazione sul mondo. I conflitti militari sono europeo, questione che è il punto principale della mia esposizione, inevitabili. L’era dell’americanismo pacifista che in questo momento sembra aprirsi non è che una preparazione a nuove guerre mostruose. Al problema delle possibilità dell’attuale riformismo europeo, problema che è il punto principale della mia esposizione, dobbiamo rispondere: queste possibilità, fino a un certo momento, sono direttamente proporzionate a quelle del «pacifismo» imperialista americano. Se la trasformazione dell’Europa in dominio americano va in porto, cioè, se nel corso degli anni futuri non si scontrerà con la resistenza dei popoli, se non fallirà in seguito alla guerra o alla rivoluzione, la socialdemocrazia europea, ombra del capitale americano, conserverà per un certo tempo la sua influenza, e l’Europa si manterrà in un equilibrio instabile, costituito dai resti della sua antica potenza e dagli elementi della sua nuova vita organizzata secondo il razionamento fissato dall’America. Tutto questo sarà nascosto da un amalgama ideologico di assiomi della socialdemocrazia europea e dei principi «pacifisti» dei quaccheri americani. Perciò bisogna chiedersi non quali sono le forze della socialdemocrazia europea, ma quali sono le possibilità del capitale americano di mantenere il nuovo regime in Europa, finanziando quest’ultima con parsimonia. È impossibile fare all’occorrenza delle previsioni esatte e, a maggior ragione, fissare dei termini. Ci basta comprendere il nuovo meccanismo dei rapporti mondiali, renderci conto dei fattori fondamentali che determineranno la situazione in Europa, per poter seguire lo sviluppo degli avvenimenti, approfittare degli zigzag politici della socialdemocrazia europea e, di conseguenza, rafforzare le possibilità della rivoluzione proletaria. Gli antagonismi che hanno preparato la guerra imperialista e l’hanno scatenata dieci anni fa sull’Europa, antagonismi accentuati dalla guerra, mantenuti dalla pace di Versailles e intensificati dalla lotta di classe in Europa, sussistono incontestabilmente. E gli Stati Uniti si scontreranno con questi antagonismi in tutta la loro acutezza. Razionare un paese affamato è difficile, noi lo sappiamo per esperienza; è vero che lo abbiamo fatto in altre condizioni, basandoci su altri principi, subordinandoci alla necessità di lottare per salvare la rivoluzione. Ma abbiamo potuto constatare che il regime di carestia era legato a crescenti disordini che in fin dei conti hanno portato all’insurrezione di Krontadt. Attualmente, spinta dalla logica dell’imperialismo rapace, l’America fa una gigantesca esperienza di razionamento su parecchi popoli. Questo piano si scontrerà nella sua attuazione con lotte di classe e con lotte nazionali accanite. Più la potenza del capitale americano si trasformerà in potenza politica, più il capitale americano si svilupperà internazionalmente, più i banchieri americani comanderanno ai governi d’Europa, e più forte, più centralizzata, più decisiva sarà la resistenza delle masse proletarie, piccolo-borghesi e contadine d’Europa, perché, fare dell’Europa una colonia, non è così semplice come credete, signori americani. (Applausi.) Noi stiamo assistendo all’inizio di questo processo. Ora, per la prima volta, dopo parecchi anni, il proletariato tedesco affamato sta sentendo un sollievo ai suoi mali. Quando l’operaio è completamente spossato, quando ha sofferto a lungo per la carestia, diventa sensibile al più piccolo sollievo. Questo sollievo, in questo momento, è la stabilizzazione del marco, la stabilizzazione dei salari, che ha portato a una certa stabilizzazione politica della socialdemocrazia tedesca. Ma questa stabilizzazione è solo temporanea. L’America non si dispone affatto ad aumentare la razione tedesca e, in particolare, la parte che deve andare all’operaio tedesco. Lo stesso accadrà in seguito per l’operaio francese e per l’operaio inglese. Perché, che cosa occorre all’America? Le occorre, a scapito delle masse lavoratrici dell’Europa e del mondo intero, assicurare i propri profitti e, allo stesso tempo, consolidare la situazione privilegiata dell’aristocrazia operaia americana, senza la quale il capitale americano non può mantenersi: senza Gompers e le sue tradeunions, senza operai qualificati ben pagati, il regime politico del capitale americano crollerà. Ora, si può mantenere l’aristocrazia operaia americana in una situazione privilegiata soltanto riducendo la «plebe», il «volgo» proletario europeo, a una razione strettamente e parsimoniosamente misurata. Ma per la socialdemocrazia europea sarà sempre più difficile predicare davanti alle masse operaie il vangelo dell’americanismo. La resistenza degli operai europei al padrone dei loro padroni, al capitale americano, diventerà sempre più centralizzata. L’importanza diretta, pratica, combattiva della parola d’ordine della rivoluzione europea e della sua forma statuale «Stati Uniti d’Europa» diventerà sempre più evidente per gli operai europei. In che modo la socialdemocrazia intossica la coscienza degli operai europei? Noi siamo un’Europa divisa, fatta a pezzi dalla pace di Versailles, dice loro; non possiamo vivere senza l’America. Ma il partito comunista europeo dirà: Voi mentite; se lo vogliamo, potremo. Chi ci costringe a essere un’Europa spezzettata? Possiamo diventare un’Europa unificata. Il proletariato rivoluzionario può unificare l’Europa, trasformarla in Stati Uniti proletari d’Europa. L’America è potente. Contro la Gran Bretagna, che si appoggia alle sue colonie in tutto il mondo, l’America è onnipotente. Ma contro un’Europa proletaria-contadina unificata, fusa in una sola unione di soviet con la Russia, sarà impotente. Questo è ciò che sente il capitale americano. Per esso non c’è nemico più accanito del bolscevismo. La politica di Hughes non è fantasia, capriccio, è l’espressione della volontà del capitale americano, che ora entra nell’epoca della lotta aperta per la supremazia mondiale. Si scontra già con noi, perché le strade che portano alla Cina e alla Siberia passano per l’oceano Pacifico. L’imperialismo americano accarezza il sogno di colonizzare la Siberia. Ma là c’è una difesa. Noi abbiamo il monopolio del commercio estero. Abbiamo le basi socialiste della politica economica. Ecco il primo ostacolo per il capitale americano. E quando quest’ultimo, grazie alla politica delle frontiere aperte, penetra in Cina, trova nelle masse popolari non la religione dell’americanismo, ma il programma politico del bolscevismo tradotto in cinese. Sulle labbra dei coolies e dei contadini cinesi non ci sono i nomi di Wilson, di Harding, di Coolidge, di Morgan o di Rockefeller. In Cina e in tutto l’Oriente si pronuncia con entusiasmo il nome di Lenin. È unicamente con le parole d’ordine della liberazione dei popoli che gli Stati Uniti possono scalzare la potenza dell’Inghilterra. Per loro, queste parole d’ordine servono solo a velare una politica di conquiste. Ma in Oriente, accanto al console, al commerciante, al professore e al giornalista americano, ci sono dei combattenti, dei rivoluzionari, che hanno saputo tradurre nella loro lingua il programma emancipatore del bolscevismo. Dappertutto, in Europa come in Asia, l’americanismo imperialista si scontra con il bolscevismo rivoluzionario. Bolscevismo e americanismo imperialista, ecco i due fattori della storia contemporanea. Nel 1919, nel momento dell’arrivo di Wilson in Europa, quando tutta la stampa borghese parlava di Wilson e di Lenin, dissi scherzando a quest’ultimo: «Lenin e Wilson, ecco i due principi apocalittici della storia contemporanea». Vladimir Il’ic si mise a ridere. Neanche io, allora, prevedevo fino a che punto questa battuta sarebbe stata giustificata dalla storia. Il leninismo e l’imperialismo americano sono i due soli principi che lottano attualmente in Europa, e, dall’esito di questa lotta, dipende il destino dell’umanità. Il nostro nemico americano è molto più unito e molto più potente dei nostri nemici sparsi in Europa, ma concentra gli operai europei. Ora, proprio nella concentrazione è la nostra forza. La ricostituzione della Seconda Internazionale è soltanto il sintomo che il proletariato europeo è costretto a raggrupparsi su più vasta scala e a lottare non più nel quadro nazionale, ma nel quadro continentale. E man mano che le masse operaie sentono la necessità di resistere e allargano la base di questa resistenza, le idee rivoluzionarie prendono il sopravvento. E più le idee che pervadono le masse sono rivoluzionarie, più il terreno diventa favorevole al bolscevismo. Ogni successo dell’americanismo contribuirà a centralizzare e a estendere contemporaneamente la lotta per il bolscevismo. L’avvenire è nostro. Poiché parlo a un’assemblea convocata dalla Società degli Amici della Facoltà delle Scienze fisiche e matematiche, permettetemi di dirvi che la mia critica marxista rivoluzionaria dell’americanismo non significa che noi condanniamo quest’ultimo in blocco, che rinunciamo a imparare dagli americani ciò che possiamo e dobbiamo assimilare dai loro lati buoni. A noi mancano la loro tecnica e i loro processi lavoratori. Il postulato della tecnica è la scienza: scienze naturali, fisica, matematica ecc. Ora, per noi è necessario ad ogni costo avvicinarci il più possibile agli americani su questo punto. Dobbiamo corazzare il bolscevismo all’americana. Fino ad ora abbiamo potuto resistere. Tuttavia, la lotta può assumere proporzioni più minacciose. È più facile per noi corazzarci all’americana che per il capitale americano mettere a razione l’Europa e il mondo intero. Se noi ci corazziamo con la fisica, le matematiche, la tecnica, se americanizziamo la nostra industria socialista ancora debole, potremo, con certezza decuplicata, dire che l’avvenire è interamente e definitivamente nostro. Il bolscevismo americanizzato vincerà, schiaccerà l’americanismo imperialista.
- Ci sono 0 contributi al forum. - Policy sui Forum -