Osservazioni sulla tortura / di Pietro Verri

di Redazione Antenati - domenica 7 agosto 2005 - 6205 letture

Ma i sostenitori della tortura [...] peccano con una falsa supposizione. Suppongono che i tormenti sieno un mezzo da sapere la verità: il che è appunto lo stato della questione. Converrebbe loro il dimostrare che questo sia un mezzo di avere la verità, e dopo ciò il ragionamento sarebbe appoggiato. Ma come lo proveranno? Io credo per lo contrario facile il provare le seguenti proposizioni: 1° Che i tormenti non sono un mezzo di scoprire la verità. 2° Che la legge e la pratica stessa criminale non considerano i tormenti come un mezzo di scoprire la verità. 3° Che quand’anche poi in tal metodo fosse conducente alla scoperta della verità, sarebbe intrinsecamente ingiusto.

Per conoscere che i tormenti non sono un mezzo per iscoprire la verità comincerò dal fatto. Ogni criminalista, per poco che abbia esercitato questo disgraziato metodo, mi assicurerà che non di rado accade, che de’ rei robusti e determinati soffrano tormenti senza mai aprir bocca, decisi a morire di spasimo piuttosto che accusare sé medesimi. In questi casi, che non sono né rari né immaginati, il tormento è inutile a scoprire la verità. Molte altre volte il tormentato si confessa reo del delitto.

[...] Gli autori sono pieni di esempi di altri infelici, che per forza di spasimo accusarono se stessi di un delitto, del quale erano innocenti.

[...] Il fatto dunque ci convince che i tormenti non sono un mezzo per rintracciare la verità, perché alcune volte niente producono, altre volte producono la menzogna.

Al fatto poi decisamente corrisponde la ragione. Qual è il sentimento che nasce nell’uomo allorquando soffre un dolore? Questo sentimento è il desiderio che il dolore cessi. Piú sarà violento lo strazio, tanto piú sarà violento il desiderio e l’impazienza di essere al fine. Qual è il mezzo col quale un uomo torturato può accelerare il termine allo spasimo? Coll’asserirsi reo del delitto su di cui viene ricercato.

[...]

Se è certo il delitto, i tormenti sono inutili, e la tortura è superfluamente data, quando anche fosse un mezzo per rintracciare la verità, giacché presso di noi un reo si condanna, benché negativo. La tortura dunque in questo caso sarebbe ingiusta, perché non è giusta cosa il fare un male, e un male gravissimo ad un uomo superfluamente. Se il delitto poi è solamente probabile, qualunque sia il vocabolo col quale i dottori distinguano il grado di probabilità difficile assai a misurarsi, egli è evidente che sarà possibile che il probabilmente reo in fatti sia innocente; allora è somma ingiustizia l’esporre un sicuro scempio e ad un crudelissimo tormento un uomo, che forse è innocente; e il porre un uomo innocente fra que’ strazj e miserie tanto è più ingiusto quanto che fassi colla forza pubblica istessa confidata ai giudici per difendere l’innocente dagli oltraggi. La forza di quest’antichissimo ragionamento hanno cercato i partigiani della tortura di eluderla con varie cavillose distinzioni le quali tutte si riducono a un sofisma, poiché fra l’essere e il non essere non vi è punto di mezzo, e laddove il delitto cessa di essere certo, ivi precisamente comincia la possibilità della innocenza. Adunque l’uso della tortura è intrinsecamente ingiusto, e non potrebbe adoprarsi, quand’anche fosse egli un mezzo per rinvenire la verità.

P. Verri, Osservazioni sulla tortura - (Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XV, pag. 1100)


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