La Jecrassarde / di Victor Hugo

(da: I lavoratori del mare / di Victor Hugo)
di Redazione Antenati - sabato 21 maggio 2005 - 4537 letture

Quarant’anni or sono c’era a Saint-Malo un vicolo detto Coutanchez. Ora non esiste più, perché è stato compreso nel piano di sventramento.

Era una doppia fila di edifici di legno inclinati gli uni verso gli altri, che lasciavano tra loro abbastanza spazio per un ruscello, chiamato via. Vi si camminava a gambe larghe per non guazzare nell’acqua e urtando con la testa o i gomiti contro le case di destra e di sinistra. Quelle vecchie baracche del medioevo normanno appaiono con profili quasi umani. Da una catapecchia a una strega, la distanza è poca. I loro piani rientranti, i loro strapiombi, le imposte ad angoli e i loro grovigli di ferramenta, sembrano labbra, menti, nasi e sopracciglia. L’abbaino è l’occhio, guercio. La guancia è la muraglia, rugosa e bitorzoluta. Quelle case si toccano con le fronti, quasi complottassero qualche brutto tiro. A quell’architettura si collegano queste parole dell’antica civiltà: scannatoio, sgozzatoio, strangolatoio. Una delle case del vicolo Coutanchez, la più grande, la più famosa o più malfamata, si chiamava la Jacressarde.

La Jacressarde era l’alloggio dei senza-tetto. In tutte le città, e specialmente nei porti di mare, al disotto della popolazione, esistono dei rimasugli. Vagabondi a tal segno che spesso perfino la giustizia non riesce a saper nulla di loro; schiumatori di avventure, cacciatori d’espedienti, chimici della specie degli scrocconi che rimettono sempre la loro vita nel crogiolo, tutte le forme di cenci e tutte le maniere di portarli, i frutti secchi dell’improbità, le esistenze in bancarotta, le coscienze che hanno "puntato i pagamenti", quelli che non sono riusciti in una scalata o nello scassinamento di una serratura (poiché i grandi autori di scassi si librano sulle ali e rimangono in alto), gli operai e le operaie del male, i birboni e le birbone, gli scrupoli lacerati, i gomiti rotti, i delinquenti finiti nell’indigenza, i cattivi mal ricompensati, i vinti nel duello sociale, gli affamati che furono divoratori, i piccoli commercianti del delitto, i pezzenti nel duplice e miserevole senso della parola. Ecco quella gente. L’intelligenza umana è là, fatta bestiale. E’ l’immondezzaio delle anime. Si ammucchia in un angolo, dove, di tanto in tanto, passa quel colpo di scopa che si chiama una visita della polizia. A Saint-Malo, la Jacressarde era quell’angolo.

In tali rifugi non si trovano i grandi delinquenti, i banditi, i barattieri, i prodotti scelti dell’ignoranza e della miseria. L’assassinio vi è rappresentato soltanto, forse, da qualche ubriaco brutale; il furbo non oltrepassa il borseggio. E’ più lo sputo della società che il suo vomito. Il malandrino, sì; il brigante, no. Tuttavia, non ci sarebbe da fidarsi. Quell’ultimo strato della bohême può contenere estreme scelleratezze. Una volta, gettando le reti sull’Epi-scié, che era a Parigi ciò che la Jacressarde era a Saint-Malo, la polizia acciuffò Lacenaire. Quei covi accolgono tutto. La caduta è un livellamento. Talvolta l’onestà ridotta alla miseria precipita là dentro. La virtù e la probità hanno delle avventure: ciò è accaduto più di una volta. Non bisogna, di colpo, stimare i Louvre, né disprezzare gli ergastoli. Sia il pubblico rispetto, sia la pubblica riprovazione, devono essere sfrondati. Avvengono di queste sorprese: un angelo in un lupanare, una perla in un letamaio: tale scoperta, cupa e abbagliante al tempo stesso, è possibile. Più che una casa, la Jacressarde era un cortile; e più che un cortile era un pozzo. Non aveva locali che dessero sulla strada. Un alto muro in cui si apriva una porta bassissima era la sua facciata. Si tirava il catenaccio, si spingeva l’uscio e si era in un cortile, al cui centro si scorgeva un foro tondo, circondato da un orlo di pietra a livello del suolo: un pozzo. Il cortile era piccolo, il pozzo era grande, e un lastricato sconnesso inquadrava il suo orifizio. Il cortile quadrato aveva costruzioni da tre lati; da quello della strada, niente; ma, di fronte alla porta, a destra e a sinistra, c’erano abitazioni. Chi, a notte, entrava là dentro, non senza rischi personali, udiva come un rumore di respiri confusi e, se c’era abbastanza lume di luna o di stelle, per far distinguere le forme dalle linee oscure che si avevano sotto gli occhi, ecco che cosa si poteva vedere.

Il cortile; il pozzo; intorno al cortile, di faccia alla porta, una tettoia dalla forma di un ferro di cavallo a linee rette; una galleria tarlata, aperta da ogni lato, col soffitto di travicelli, sorretta da pilastri di pietra disugualmente distanti. Attorno al pozzo, sopra uno strato di paglia, e disposte in circolo come una corona, suole di scarpe dritte, scalcagnate, pollici uscenti da buchi e numerosi talloni nudi; pieni di uomini, di donne e di fanciulli.

Al di là di essi, spingendo lo sguardo nella penombra della tettoia, si potevano distinguere corpi, forme, teste assopite, dormienti abbandonati, cenci d’ambo i sessi, una promiscuità nel mezzo di un letamaio, un indefinibile e sinistro giacimento umano. Quella camera da letto era di tutti. Si pagavano due soldi ogni settimana. I piedi toccavano il pozzo. Nelle notti di pioggia, l’acqua scendeva su quei piedi; nelle notti d’inverno, nevicava su quei corpi.

Che cos’erano quegli esseri? Gli ignoti. Si recavano lì la sera; andavano via la mattina. L’ordine sociale è complicato da quelle larve. Alcuni penetravano di soppiatto per una notte e non la pagavano. La maggioranza di essi non aveva mangiato nulla in tutta la giornata. Tutti i vizi, tutte le abiezioni, tutte le infezioni, tutte le angosce; il medesimo sonno di abbattimento nel medesimo letto di fango.

I sonni di tutte quelle anime si facevano buona compagnia. Funebre posto di ritrovo, nel quale si agitavano e si amalgamavano nello stesso miasma le stanchezze, gli sfinimenti, le ubriachezze smaltite, le peregrinazioni di un’intera giornata senza un tozzo di pane e senza un pensiero buono; lividori dalle palpebre chiuse, rimorsi, desideri invidiosi, capigliature lorde di immondizie, volti contrassegnati dallo sguardo della morte, e, forse, baci di bocche tenebrose. Una tale putredine umana fermentava in quel covo. I miserabili erano lanciati su quel giaciglio dalla fatalità, dal viaggio, dal bastimento arrivato il giorno prima, da un’uscita dal carcere, dal caso e dalla notte. Il destino vuotava colà, ogni giorno, la sua gerla. Entrava chi voleva, dormiva chi poteva, parlava chi ardiva, perché era luogo di bisbigli. Si affrettavano a mescolarsi; si sforzavano di dimenticare se stessi nel sonno, non potendo disperdersi nell’ombra. Rapivano alla morte quanto più potevano. Chiudevano gli occhi in quell’agonia alla rinfusa che ricominciava ogni sera. Da dove uscivano? Dalla società, perché erano la miseria. Dall’onda, perché erano la schiuma.

Non trovava paglia chiunque l’avesse voluta. Parecchie nudità si trascinavano sul lastrico; si coricavano spossate, si destavano anchilosate. Il pozzo privo di parapetto e di coperchio, sempre spalancato, era profondo trenta piedi. La pioggia vi cadeva, vi trapelavano le immondizie, vi filtravano tutti gli scoli del cortile. Accanto c’era la secchia per tirar su l’acqua. Chi aveva sete vi beveva; chi era disperato vi si annegava. Dal sonno sul letame si scivolava in quell’altro sonno.

Nel 1819 fu tratto da quel pozzo il cadavere di un ragazzo di quattordici anni. Per non correre rischi in quel casolare, bisognava essere "della classe". I "laici" erano mal visti. Si conoscevano tra loro, quegli esseri? No. Si fiutavano. La padrona di casa era una donna giovane, abbastanza bella, con in testa una cuffia adorna di nastri. Si lavava, a volte, il viso con l’acqua del pozzo e aveva una gamba di legno. Appena spuntava l’alba, il cortile si vuotava. I frequentatori sparivano. C’erano, nella corte, un gallo e alcune galline che razzolavano tutto il giorno nel letamaio. La corte era attraversata da una trave orizzontale sostenuta da pali, specie di patibolo, non troppo fuori di luogo in un posto simile.

Spesso, nelle giornate che seguivano a sere piovose, si vedeva, messo ad asciugare su quella trave, un abito di seta fradicio e inzaccherato, che apparteneva alla donna dalla gamba di legno. Al di sopra della tettoia, e come questa inquadrante il cortile, c’era un piano e, più sù, una soffitta. Una scala di legno marcito, che attraversava la tettoia, conduceva lassù: scala malferma e dondolante, salita rumorosamente dalla donna che barcollava.

Gli inquilini di passaggio, per una settimana o per una notte, abitavano il cortile; gli inquilini fissi abitavano la casa. Finestre prive di vetri, intelaiature senza usci, caminetti senza focolare: ecco la casa.

Si andava da una stanza all’altra, indifferentemente, attraverso un foro rettangolare che era stato la porta, oppure per un’apertura triangolare che era l’intervallo fra i travicelli delle tramezze. I calcinacci caduti ingombravano il pavimento. Non si sapeva come facesse la casa a rimanere in piedi. Il vento la scuoteva. Si andava su alla meglio per i gradini sdrucciolevoli e consumati della scala; tutto era aperto. L’inverno entrava nella casupola come l’acqua in una spugna. L’abbondanza dei ragni rassicurava, in certo modo, contro un immediato pericolo di rovina. Non c’era alcun mobile. Due o tre pagliericci in qualche angolo, semi-sventrati e che facevano vedere più cenere che paglia. Qua e là una brocca e un catino per vari usi. Un tanfo lieve e schifoso. Dalle finestre si poteva guardare nel cortile. Quella vista rassomigliava al di sopra di una carretta di fanghiglia. Le cose - senza contare le persone - che imputridivano, arrugginivano, ammuffivano là, erano indescrivibili. I rimasugli che vi marcivano erano fraternamente uniti; cadevano dai corpi. I cenci erano disseminati sui ruderi. Oltre alla sua popolazione avventizia, raccolta nel cortile, la Jacressarde aveva tre inquilini: un carbonaio, un cenciaiolo e un fabbricante d’oro. Il carbonaio e il cenciaiolo occupavano due pagliericci del primo piano; il fabbricante d’oro, chimico, alloggiava nella soffitta, la quale, non si sa perché, era chiamata "la topaia". Non si sapeva in quale cantuccio abitasse la donna. Il fabbricante d’oro era anche un pochino poeta. Occupava, sotto i tetti, una stanza con un’angusta, piccola finestra e un grande camino di pietra: baratro nel quale il vento si ingolfava ruggendo. Poiché la piccola finestra dell’abbaino non aveva telaio, egli vi aveva inchiodato un pezzo di lamiera proveniente da una falla di bastimento. Quella lamiera lasciava passare poca luce e molto freddo. Il carbonaio dava come compenso, di tanto in tanto, una balla di carbone, il cenciaiolo uno staio di grano la settimana per le galline; il fabbricante d’oro non pagava: e, intanto, bruciava la casa. Aveva portato via il poco legno che c’era e, spesso, cavava dal muro o dal tetto un’assicella allo scopo di far bollire la sua pentola per l’oro. Sul tramezzo, al di sopra del giaciglio del cenciaiolo, si vedevano due colonne di numeri tracciati col gesso dallo stesso cenciaiolo, settimana per settimana, una colonna di tre e una di cinque, a seconda che lo staio di grano fosse costato tre o cinque centesimi. La pentola da oro del "chimico" era una vecchia bomba rotta, da lui promossa caldaia, nella quale combinava i suoi ingredienti. La trasmutazione lo assorbiva. Talvolta ne parlava, in cortile, ai pezzenti che ne ridevano. «Quella gente è piena di pregiudizi» egli si contentava di dire. Era deciso a non morire prima di aver collocato la pietra filosofale sotto i vetri della scienza. Il suo fornello divorava molta legna: la ringhiera della scala era stata consumata tutta: l’intera casa vi passava, a fuoco lento. L’albergatrice gli diceva: «Non mi lascerete altro che il guscio», e lui la disarmava facendole dei versi. Questa era la Jacressarde.

Un ragazzo, o forse un nano, che poteva avere dodici come sessant’anni, gozzuto, sempre con una scopa in mano, era il servitore.

I frequentatori abituali entravano dalla porta del cortile; il pubblico entrava dalla "bottega".

Che cos’era la bottega?

L’alto muro che costituiva la facciata sulla strada era forato, a destra dell’ingresso della corte, da un’apertura quadrata, porta e finestra al tempo stesso, con imposta e intelaiatura, unica imposta che avesse cardini e chiavistelli, unica intelaiatura che avesse vetri. Dietro quella specie di vetrina c’era una stanzetta fatta con uno scompartimento tolto alla tettoia-dormitorio. Sulla porta di strada si leggeva la seguente scritta, a carbone: "Qui si vendono curiosità". La parola era già in uso fin da allora. Su tre assi, applicate a forma di scaffali all’invetriata, erano alcuni vasi di terracotta privi di manici, un parasole cinese che sembrava un budello, con figure, stracciato qua e là e che non si poteva né chiudere, né aprire; coperchi informi di ferro o di terracotta; cappelli da uomo o da donna sfondati; tre o quattro conchiglie; pacchetti di vecchi bottoni d’osso e di rame; una tabacchiera col ritratto di Maria Antonietta e un volume scompagnato dell’algebra di Boisbertrand: ecco la "bottega". Quell’assortimento costituiva le "curiosità". La bottega, per mezzo di una porta interna, comunicava col cortile dov’era il pozzo. In essa si vedevano una tavola e una panchina. La donna dalla gamba di legno era la venditrice al banco.


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