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Coronavirus: E se si morisse per trombosi?

Un cardiologo è giunto a questa considerazione praticando degli ecocardio a pazienti affetti da Coronavirus. Dalle prime analisi dei dati emersi, sembrerebbe che i pazienti vanno in rianimazione per tromboembolia venosa generalizzata, soprattutto polmonare.

di Redazione - sabato 11 aprile 2020 - 8497 letture

Un cardiologo di Pavia, in prima linea nei reparti di terapia anti-covid-19, avrebbe formulato un’ipotesi sulla causa principale dei decessi che rivoluzionerebbe l’approccio al virus e le cure, spostando l’attenzione da un problema polmonare ad uno di natura cardiologa.

Il cardiologo è giunto a questa considerazione praticando degli ecocardio a pazienti affetti da Coronavirus. Dalle prime analisi dei dati emersi, i pazienti vanno in rianimazione per tromboembolia venosa generalizzata, soprattutto polmonare. Se così fosse, non servirebbero a niente le rianimazioni e le intubazioni perché innanzitutto occorre prevenire queste tromboembolie. Ventilando un polmone dove il sangue non arriva, le condizioni dei malati non muterebbero. Lo dimostrerebbe che, usando questa terapia, la percentuale di deceduti è di 9 su 10. Questo perché il problema è cardiovascolare, non respiratorio. Sarebbero quindi le microtrombosi venose e non la polmonite a determinare la fatalità.

La causa della formazione dei trombi è dovuta all’infiammazione che indurrebbe trombosi attraverso un meccanismo fisiopatologico complesso ma ben noto. Quello che la letteratura scientifica, soprattutto cinese, diceva fino a metà marzo era che non bisognava usare antinfiammatori. Ora in Italia si usano antinfiammatori e antibiotici (come nelle influenze) e il numero dei ricoverati è sensibilmente diminuito.

I morti registrati, anche di 40 anni, avevano una storia di febbre alta per 10-15 giorni non curata adeguatamente. Qui l’infiammazione ha distrutto tutto e preparato il terreno alla formazione dei trombi. Perché il problema principale non è il virus, ma la reazione immunitaria che distruggerebbe le cellule dove il virus entra. Infatti nei reparti Covid di Pavia non sono mai entrati malati di artrite reumatoide, essendo in terapia cortisonica.

Questo è il motivo principale per cui in Italia le ospedalizzazioni si riducono e sta diventando una malattia curabile a casa. Curandola bene a casa si evita non solo l’ospedalizzazione, ma anche il rischio trombotico. Una conclusione non facilmente deducibile perché i segni della microembolia sono sfumati, anche all’ecocardio. Confrontando i dati dei primi 50 pazienti, tra chi respira male e chi no, la reale causa di decessi è apparsa molto chiara.

Un’ipotesi che, se trovasse riscontro anche in altre strutture e studi specifici, consentirebbe a tornare ad un vita normale e revocare la quarantena. Si avrebbe così il tempo di dedicarsi al vaccino senza eccessiva urgenza. Un parziale riscontro lo si ha già confrontando le terapie adottate in Italia con quelle negli Stati Uniti e in altri stati che, seguendo la letteratura scientifica che invita a NON usare antinfiammatori, stanno riscontrando un innalzamento dei decessi.

Questa ipotesi sarebbe già stata confermata dai protocolli di altri ospedali, quali il Sacco, dove viene somministrato il Clexane a tutti, con D-dimero predittivo, che più è alto meno risponderà il paziente. Al San Gerardo di Monza utilizzano il Clexane e il Cortisone, al Sant’Orsola di Bologna Clexane a tutti, al quale si aggiunge un protocollo condiviso con i medici di famiglia che prescrivono Plaquenil.

Riguardo gli antinfiammatori, occorre precisare che la produzione di COX 2 è aumentata nei tessuti bersaglio virali da pazienti con infezione virale attiva e si è visto che la delezione della COX2 riduce la mortalità, mentre la delezione della COX1 è associata al peggioramento dell’infezione. Questo dimostrerebbe che i farmaci antinfiammatori tipo Brufen, Naproxene, Aspirina che inibiscono la COX1 oltre che la COX 2 non andrebbero usati. Diversamente il Celecoxib, che è un inibitore selettivo della COX 2 sembrerebbe dare buoni risultati. Ovviamente bisogna comunque aspettare gli esiti degli studi in atto. Di certo c’è che questa analisi porta in evidenza la necessità di usare negli stadi più avanzati della malattia una eparina a basso peso molecolare ad alte dosi (Clexane 8.000 UI/die).

In poche parole, pare che l’exitus sia determinato da una DIC (per i non medici, Coagulazione Intravascolare Disseminata) innescata dal virus. Quindi la polmonite interstiziale non sarebbe la causa principale dei decessi, ma rappresenterebbe soltanto una valutazione diagnostica errata. Questo indurrebbe a pensare che si siano raddoppiati i posti in rianimazione, con costi esorbitanti, probabilmente inutilmente.

L’eventuale conferma di queste considerazioni potrebbe dare una svolta decisiva sull’emergenza Covid-19 e con le giuste indicazioni nei confronti dei politici, determinare un cambio di direzione rispetto ai provvedimenti finora adottati.


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