Lo"Spazio letterario" di Maurice Blanchot: percorso di lettura e interpretazione, di Attilio Viena

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11. L'anomalia dell'attività letteraria

L'autore è colui che ascolta il mormorio e lo traduce in forma di scrittura. Osserva opportunamente Blanchot che scrivere non è mai un potere di cui si dispone, ma rappresenta anzi il risultato dell'impotenza di fronte al mormorio. Per questo l'impulso alla scrittura agisce con tanta più forza quanto più è debole chi riceve tale impulso. Per quanto lucido, lo scrittore sarà sempre soggetto ad un'esperienza che lo soverchia. Ma da cosa deriva questo carattere soverchiante dell'esperienza letteraria?
La risposta è contenuta, a mio avviso, in una interessante analogia tracciata da Blanchot tra il suicida e l'artista (32). Entrambi esercitano un potere che vuole essere tale anche di fronte all'inafferrabile.
Secondo Blanchot non si dà la possibilità di fare della morte un oggetto della propria volontà, dal momento che la morte è un evento estraneo alle possibilità umane. In tal senso, non si può progettare di uccidersi.
Allo stesso modo, neppure l'opera può essere progettata, né può essere ricercata come un fine. Si può anzi aggiungere che l'unico modo per trovarla è quello di non cercarla, di non volerla. L'opera è essenzialmente ciò che merita di essere ricercato senza che questa ricerca sia orientata allo scopo di realizzare l'opera. E infatti quel che muove lo scrittore è proprio la ricerca dell'opera; il percorso è molto più importante della meta, come dimostra significativamente il cammino di Orfeo verso l'ispirazione. Si è notato in precedenza che la scrittura non è mai un potere di cui si dispone. Va ora aggiunto che, proprio per la singolarità di quell'esperienza denominata letteratura, mai lo scrittore deve ritenersi davvero tale, mai deve considerarsi sicuro della propria condizione e della propria ispirazione. In effetti, l'ispirazione ed il suo contrario, ossia l'aridità, non si escludono del tutto: esiste anzi un punto in cui esse si congiungono fino a confondersi. Tale punto è precisamente quello nel quale la forza dell'ispirazione è più pura, e talmente pura e potente da essere quasi distruttiva. Si tratta di quel momento, straordinario e disperato insieme, in cui coesistono la massima potenza e l'estrema inoperosità. Blanchot ce lo rappresenta in modo talmente efficace che pare viverlo mentre scrive (33).
E si avvertono, tra le righe, tutto il tormento e tutto lo stupore della creazione, quella mescolanza di gioia e dolore che ricorda la "divina mania" così ben descritta da Platone nello Ione. C'è indubbiamente, nel momento sovrano dell'ispirazione, un qualcosa di ineffabile, un qualcosa che si sarebbe tentati di definire divino, in quanto irriducibile agli schemi umani. Lo scrivere dà misura umana all'ispirazione; e scrivere vuol dire intendere l'ispirazione e sostenerne la prova. E' lo spazio letterario a dominare lo scrittore, non viceversa. E, tuttavia, questa non è condizione puramente passiva: se lo scrittore è colui che rinuncia a dire "io", colui che deve sparire a vantaggio della voce anonima dello spazio letterario, questo è un compito tutt'altro che agevole. Esso richiede fermezza e determinazione, il coraggio di abbandonare le certezze del giorno a favore delle incertezze della notte.

Note

32) Cfr. SL, pp. 86 - 87.

33) Si veda in particolare SL, p. 157.

Contesto

Maurice Blanchot



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