Lo"Spazio letterario" di Maurice Blanchot: percorso di lettura e interpretazione, di Attilio Viena

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9. Il vuoto come origine dell'opera. Suoi caratteri

L'opera appare intimamente legata a quel "fuori vago e vuoto" al quale l'autore presta ascolto e dà voce (30). Per manifestarsi, però, essa ha bisogno di uscire alla luce della comunicazione.
L'opera deriva, dunque, dall'interazione tra due forze di opposta natura, l'una centripeta e l'altra centrifuga. Ecco perché essa non deve essere considerata risultato, ma continua e inesausta tensione bipolare, espressione di un conflitto insanabile. Anche il capolavoro più certo reca la traccia indelebile di un'imperfezione iniziale, di ciò che Blanchot denomina "l'incertezza dell'origine". Si tratta di un'impronta tenue, ma ineliminabile, testimonianza della lotta tra autore e notte dell'ispirazione. Ma cos'è esattamente l'ispirazione e perché per Blanchot l'origine dell'opera è il vuoto, l'assenza d'opera?
Va subito precisato, per rispondere a questo interrogativo, che il testo blanchotiano coinvolge l'arte nel movimento di riproduzione - annientamento che è tipico, come si è visto, del quotidiano. La questione della riproducibilità non riguarda soltanto l'epoca della tecnica, ma appartiene all'essenza stessa dell'arte ed in particolare della letteratura, che si fonda sulla parola scritta. Blanchot sostiene che la possibilità di essere riprodotta rivela nella scrittura la mancanza di origine, ciò che W. Tommasi indica come "il carattere non originario dell'origine" (31).
Il mondo della tecnica porta, dunque, all'evidenza ciò che è implicito nella scrittura. Tecnica e scrittura esprimono la prossimità ad un'origine impossibile e ad una fine altrettanto irraggiungibile. Su entrambe incombe l'ossessione della rinascita e della ripetizione; entrambe contengono un potere infinito di metamorfosi e di riproduzione.
Quanto alla natura specifica dell'origine vuota occorre dire che si tratta, paradossalmente, di un luogo pieno. In questo spazio fittizio la ricchezza di possibilità non è ancora l'attuazione di quella possibilità particolare che diventa opera; per questo la sorgente è sempre più ricca di ciò che ne scaturisce. Per questo l'opera reca in sé una sorta di insoddisfazione e incompiutezza, una nostalgia di ciò che essa avrebbe potuto essere.
Anche l'autore è irresistibilmente attratto dal vuoto originario. Sa di averlo perduto compiendo l'opera, sa che è soltanto questa perdita a rendere possibile l'opera. Eppure quel vuoto resta al fondo della scrittura; la scrittura disegna come un cerchio attorno al proprio centro vuoto.
E' Blanchot stesso a suggerire questa immagine tratta dalla geometria, attraverso i frequenti riferimenti al tema del centro dell'opera. Centro assente eppure così imperioso, così magnetico; l'opera esige dal suo autore che egli perda ogni natura e diventi il luogo vuoto dove si formula l'affermazione impersonale. Lì non è l'autore a parlare, ma il mormorio incessante, la voce neutra, la parola che è promessa della parola: sia Ulisse sia Orfeo vi si imbattono, l'uno retrocedendo e l'altro inabissandosi.

Note

30) Cfr. SL, p. 212: "L'arte come immagine, come parola e come ritmo, indica la prossimità minacciosa di un fuori vago e vuoto, esistenza neutra, nulla, senza limite, soffocante condensazione in cui senza posa l'essere si perpetua sotto la specie del niente."

31) TOMMASI, Tecnica e scrittura, cit., p. 154.

Contesto

Maurice Blanchot



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