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Tornare alla scuola in cui si crede

Tornare alla scuola in cui si crede, in cui gli insegnanti vengono rispettati. Ancora é possibile?

di Silvia Zambrini - mercoledì 15 marzo 2023 - 1858 letture

Le levatacce per raggiungere la scuola fuori Milano, gli orari pesanti e il modesto stipendio, venivano ricompensati dalla soddisfazione nell’istruire ragazzi che parlavano solo in dialetto. Amavo il loro desiderio di apprendere, la puntualità con cui mi consegnavano compiti su quaderni a volte unti di grasso perché a casa l’unico tavolo era quello di cucina. Mi commuoveva la timidezza con cui i loro cari mi esprimevano affetto e riconoscenza. Sono stati anni duri (con anche una guerra in corso) ma che ricordo con grande emozione!

Dai racconti di mia nonna Ida Piazza Zambrini insegnante di italiano e storia presso la scuola di avviamento al lavoro di Rho in provincia di Milano negli anni ’40.

Tornare al rispetto nei confronti di chi insegna é aspirazione dei recenti governanti, di destra e di sinistra perché l’istruzione come ascensore sociale manca a tutti, anche a quei docenti (ormai in pensione) che negli anno ’70 si batterono per una scuola più aperta, con l’istituzionalizzazione di consigli scolastici e commissioni allargate a genitori, consulenti, rappresentanti di enti locali, associazioni ecc.

​Negli anni ’80 radio e televisioni vedevano ampliarsi i palinsesti con il diffondersi di infinite emittenti indipendenti. Significava ascoltare ovunque e a qualsiasi ora contenuti pubblicitari introdotti da sigle irruenti, assistere a immagini spesso volgari. La scuola riusciva inizialmente a fronteggiare questi modelli di esteriorità e consumismo che coinvolgevano soprattutto i più giovani. Intanto i salti tecnologici continuavano il loro corso e presto si sarebbe arrivati alle microtecnologie individuali. Ma un’altra cosa accadeva in quegli anni ed era i sempre meno alunni nelle classi a causa di una popolazione che diminuiva. Dagli istituti costretti a rifiutare nuovi iscritti si passava a quelli che li procacciano per evitare di essere sciolti o accorpati ad altri. Studenti e genitori prendevano il nome di “utenza”, i presidi di dirigenti scolastici. Questi ultimi, così come avendo a che fare con clienti che in quanto tali hanno comunque ragione, richiamavano gli insegnanti a non scontentare genitori ormai abituati a interferire tra loro e i figli, a giudicare programmi di didattica in base ai propri gusti e grado di cultura.

​Quando la scuola aveva aperto i propri confini non si pensava ai cambiamenti demografici che avrebbero contribuito a trasformare le sedi scolastiche in luoghi in cui ignoranza e superficialità, anziché costituire imbarazzo, diventavano motivo di arroganza se non di autoaffermazione (più volte supportata dagli avvocati) fino all’aggressione fisica di maestri e professori di cui non si apprezzano i metodi. E nemmeno si pensava al torpore mentale e al non ascolto per via del marasma fonico al di fuori delle abitazioni, al quale la scuola si andava adeguando permettendo che nelle aule entrassero i telefonini e si ascoltasse musica durante le ore di applicazioni artistiche, tecniche, pratiche.

Ora, al di là delle buone intenzioni, è molto difficile smantellare un sistema radicato nel tempo. Ma in alcune scuole ci si riesce: ad esempio dove il dirigente scolastico presente in sede (così come una volta facevano i presidi) non teme di contrariare genitori poco ambiziosi quanto protettivi verso i figli. Dove il professore, libero di esercitare il proprio sapere, riceve riscontro al punto che, quando si ritroverà solo e anziano, saranno i suoi ex alunni a volersi occupare di lui: a dispetto dello sbando generale succedono anche queste cose e non sono frutto di riforme ridondanti o scesa in campo di curiosi personaggi di cui non si capisce la vera funzione. Sono frutto di una scuola che volendo ancora funziona, lì dove l’istruzione rimane al primo posto e si investe sugli adulti di domani anziché sulle attuali esigenze di "un’utenza difficile". I giovani di oggi non sono sostanzialmente diversi da quelli degli anni ’40.


L’articolo di Silvia Zambrini è pubblicato anche su Fana.one.



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