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Quando la parola è sbagliata

di Sergej - mercoledì 14 settembre 2022 - 2288 letture

Accade nei passaggi tra generazioni (termine e concetto che abbiamo già a suo tempo definito "analogico" e concettualmente sfuggente, anche pericoloso e certamente non preciso), nei passaggi da un’epoca all’altra (anche questo concetto "analogico" e allusivo più che persuasivo in termini di significato).

Non ci si capisce. Letteralmente.

La parola subisce una crisi. Entrano in gioco - socialmente, politicamente - nuove parole che mettono in crisi quelle vecchie. Le parole usate "per intenderci" un attimo prima all’improvviso diventano incomprensibili, persino offensive.

In questo attimo storico, in Italia tra il 2000 e il 2022, le parole connotanti alcuni generi sessuali. La polemica sullo schwa (la e capovolta: Ə) [1], e quella sui "mestieri" legati alle donne ("ministro" o "ministra"? e così via). Parallelamente all’emergere delle categorie LGTB+, al ruolo delle donne nella produzione e nel sistema economico. Mentre nella vita quotidiana l’intercalare "cazzo" e "minchia" (fallocratici, ma senza la percezione di alcuna incoerenza rispetto all’attacco al patriarcato portata avanti dall’altro filone culturale sociale e politico) dilagano nel linguaggio comune e familiare - un tempo aborrenti le "parole cattive". E il "political correct" diventa il mantra di una parte delle classi alte così come la guerra al "political correct" diventa l’arma delle classi contrapposte.

Nella realtà esiste un flusso continuo ininterrotto, eterogeneo e in cui i parlanti si contrappongono e sovrappongono - ognuno con le proprie idiosincrasie, i vezzi, gli scatti linguisticamente ironici, le tradizioni (anche familiari: si pensi al "Lessico familiare" di Natalia Ginzburg; ma anche di quartiere, di paese, di città e via all’infinito). Ogni tanto gli storici (noi tutti, nel guardare alle cose che riteniamo siano collocate "dietro di noi") individuano degli scalini, dei momenti comuni che vengono chiamate "epoca". In cui magari, come scriveva qualche filosofo, si manifesta lo "spirito del tempo". In questo scalino - che serve per stilare report, studi, tentare uno sguardo complessivo, una specie di "fermo immagine" ’ché altrimenti la materia storica sfuggirebbe e si sgretolerebbe tra le mani - inconsistente, inafferrabile come un elettrone della fisica quantistica -, si individuano "quel" movimento che farebbe da portabandiera di quella determinata epoca, che ne darebbe il portato innovativo o caratterizzante. In cui la parola si coagula attorno a una propria grammatica e una propria sintassi, soprattutto a una propria sfera di significati.

Per chi ha reminiscenze storiche, si pensi al "passaggio" tra illuminismo e romanticismo, al pre-romanticismo; oppure in età più avanzata, agli "scapigliati". Per chi era stato formato nell’illuminismo, quei giovani amanti di sepolcri e amori svenevoli letteralmente erano del tutto incomprensibili: "ma chi minchia vogliono questi!" - e viceversa. E poi via via - nei "passaggi generazionali" (concetto dicevamo puramente astratto e di comodo, "per intenderci" che poi a una analisi più stringente finisce per sgretolarsi sotto la lente di ingrandimento) fino all’oggi. Si pensi alle "mode" che abbiamo attraversato. Per quanto mi riguarda: il Settantasette e la generazione dei movimenti; i paninari degli anni Ottanta e il "riflusso"; i "miglioristi" e poi i "socialisti" che rubavano; la breve epoca degli indignati contro le ruberie politiche e il sistema di potere bloccato che ha dato luogo al "tipo sociologico" del retino; gli indignati degli anni Novanta e successivi, spesso attivi nel giro di uno e due anni, ma che ha dato vita a "tipi sociologici" dotati di una propria specifica lingua - contrapposta alla lingua "degli altri"; e poi il rampantismo dei "renziani", il berlusconismo, il "leghismo" padano e il "grillinismo". Tutte lingue e atteggiamenti psicologici, prima che movimenti politici e culturali.

Ogni volta che si passati da un’epoca all’altra, sempre lo stesso salto o scarto: le parole della fase precedente perdevano di valore e chi ancora le usava si ritrovava smarrita davanti all’incomprensione delle nuove parole. Si pensi agli esponenti dell’ancient régime davanti ai girondini e alla rivoluzione. O alle diverse e variegate tribù degli anni attorno al Sessantotto (i "capelli lunghi che noi portiam" di una canzone dell’epoca) nel dialogo impossibile con le generazioni immediatamente precedenti, quelle dei propri padri.

Noi che abbiamo attraversato tutte queste "fasi" della vita sociale collettiva, e abbiamo visto come, nel formarsi di ognuna di queste tribù, calava come un’ombra sinistra: chi era dentro al gruppo acquisiva una identità, che poi si portava dentro per tutta la vita. Fatta di un atteggiamento e di una lingua propria. Provate a parlare con un reduce dei movimenti degli anni Settanta, oppure con un democristiano o un socialista. L’umano rimane fisicamente, apparentemente uguale: stesse braccia, testa, capelli, mani ecc_ il corpo è lo stesso. In caso di emergenza, la trasfusione di sangue funziona tra i vari corpi nello stesso modo. Ma è dentro quel che cambia; oltre la formalità dello strato superficiale, dato dalle convenzioni sociali - lo strato di civilizzazione posticcio che permette a tutti noi di non spararci immediatamente a vista ma anzi quando ci incontriamo di salutare educatamente e persino far finta di sorridere -. Dentro si è posseduti da uno spirito diverso. Che ogni tanto riappare, quando uno meno se lo aspetta. E allora bisogna chiamare l’esorcista o attendere che il dèmone dentro rientri.

Ognuno ha la sua lingua, la sua musica, l’occhio con cui guarda le cose. Frutto di un imprinting, più che di una elaborazione - perché poi si costruisce dentro di sé con il materiale (esterno) che si trova, non si può fare altro.

Il flusso delle cose che accadono e che forma la memoria di quel che accade vive di queste continue "cose" che si succedono, fratture e rivoli. La realtà è una amalgama in divenire di tutte queste cose etorogenee in cui la parola del vecchio nostalgico nazi-fascista vive accanto al tecnocrate neo-liberista uscito dalla Bocconi. E tutti insieme facciamo questa massa di mentecatti poeti e sognatori che vivono nello stesso tempo e nello stesso luogo - ma come in universi paralleli e confusi.

In questo contesto, la parola che dovrebbe agire per comunicare tra le persone. E che invece, prodotta dalle diverse faglie, dai diversi momenti angolari in cui ognuno di noi vive ed è invischiato (inficiato), spesso diventa strumento di incomunicazione. Scarto tra "generazioni" e ceti. Barriera. E come la parola, qualsiasi altro atto umano e sociale: la musica, il modo di guidare un’automobile (andando da una Regione all’altra si scopre che esistono microabitudini tra una Regione e l’altra: consuetudini, regole, modi di fare diversi...).

Che cosa strana che sono questi umani...

[1] Sulla differenza tra schevà e Ə vedi Wikipedia Ə, e Wikipedia scevà.


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