Dossier: Lo sviluppo dell’industria verde italiana come volano della crescita: possibilità, prospettive, politiche

Il Cer è un think tank fondato nel 1981 da Giorgio Ruffolo ed altri economisti. Ha di recente pubblicato una ricerca molto corposa e fondamentale sulle reali possibilità di sviluppo della green economy in Italia.

di Emanuele G. - mercoledì 2 novembre 2011 - 3990 letture

INDICE RAGIONATO E PRINCIPALI RISULTATI

Nell’ultimo biennio il quadro energetico-ambientale è profondamente mutato: si è determinata una significativa discontinuità tanto nella dinamica delle principali variabili di riferimento che, soprattutto, nel modo con cui gli investitori privati e i principali policy maker occidentali guardano al settore produttivo “verde”. In sostanza, anche prendendo questa prospettiva, c’è un prima e un dopo crisi finanziaria.

I fattori del cambiamento sono innanzitutto economici. La recessione sopportata dalle grandi economie avanzate ha avuto un impatto significativo sulla domanda di energia e ne ha alterato le prospettive per i prossimi anni: banalmente, se l’economia cresce meno, consuma relativamente meno energia e inquina meno (per un significativo precedente si veda il calo di CO2 che si è registrato dopo il crollo del regime sovietico). A questo si aggiunge che, soprattutto laddove i margini di spreco sono più ampi, le condizioni di difficoltà possono accelerare i processi di contenimento dell’intensità energetica per unità di prodotto. Paradossalmente, dunque, la crisi ha avvicinato i maggiori paesi occidentali - quelli europei in primis – ai propri obiettivi di riduzione di gas serra: secondo le stime provvisorie dell’Agenzia europea dell’ambiente tra il 2008 e il 2009 le emissioni di GHG dell’EU 27 sono calate circa del 7 per cento.

A fronte di questa correzione è cresciuta l’energia pulita. A livello globale, nello stesso 2009, la capacità produttiva complessiva di energia elettrica da rinnovabili è salita del 7 per cento; escludendo il grande idroelettrico si arriva al 20 per cento. Proprio nel corso dell’ultimo difficile biennio, il comparto verde ha dato, infatti, chiara prova di solidità e capacità di attrarre risorse finanziarie. Gli investimenti privati in imprese e tecnologie verdi non hanno registrato una flessione come gran parte degli altri comparti produttivi ma sono aumentati del 35 per cento superando nel 2010 i 220 miliardi di dollari annui, trascinati in particolare dalla rapida espansione del solare e dell’eolico.

Un’indicazione analoga a quella del comparto privato è rintracciabile nelle scelte adottate dalla maggioranza dei Governi con i cosiddetti pacchetti anticrisi varati all’inizio del 2009. La spesa pubblica destinata a sostenere direttamente o indirettamente il processo di riconversione energetica nel quinquennio 2009-2013, sfiora 190 miliardi di dollari (con un picco di 65 miliardi quest’anno) e copre un’ampia gamma di interventi possibili, dalle rinnovabili (incentivi/detassazione), al risparmio energetico, alla ricerca e sviluppo, alle reti e ai trasporti.

Un elemento di forte rottura si è registrato anche sul piano delle politiche internazionali. L’esito complessivamente deludente della Conferenza di Copenaghen e il basso profilo tenuto a Cancun hanno inevitabilmente messo in discussione l’approccio di fondo alla questione ambientale su scala mondiale. Accantonata per ora l’ipotesi di un sistema di obiettivi vincolanti di riduzione delle emissioni per tutti i grandi player mondiali - opzione a lungo portata avanti dai negoziatori europei - l’impegno politico/istituzionale a livello internazionale dovrebbe tornare a concentrarsi sull’implementazione di misure concrete e regole precise per favorire l’efficienza energetica e le fonti alternative alle fossili. Il paradigma perseguito dovrebbe spostarsi cioè da un modello di tipo command & control, appunto fondato sulla definizione di target ambientali più o meno rigidi, ad uno di tipo bottom up, mirato alla ricerca di un set organico di interventi capaci di rimuovere ostacoli e incentivare le tecnologie per la riconversione energetica. Si tratta di un cambio di passo strategico tutt’altro che irrilevante in termini operativi.

Il combinato disposto di tutti questi fattori altera, dunque, il quadro di riferimento e lascia intendere come il comparto verde stia attraversando uno snodo cruciale del proprio sviluppo: in questo senso è certamente significativo l’atteggiamento della Cina che, pure non imbrigliata da un sistema di vincoli/obblighi internazionali, è la prima piazza al mondo per investimenti (circa il 25% del totale mondiale), punta ingenti risorse pubbliche sul settore (65 miliardi di dollari in un piano nazionale anticrisi da circa 600), favorisce quanto più possibile il partenariato tra imprese nazionali e non (incluse quelle italiane). Di fatto, ancor più che prima della crisi, l’industria delle fonti rinnovabili – intesa come produzione/realizzazione di impianti e tecnologie - si presenta oggi come un volano per la crescita economica di medio-lungo termine.

Questo Rapporto valuta stato dell’arte, potenziale sviluppo e politiche di sostegno alla filiera produttiva di tecnologie per FER in Italia. Tenuto conto di quanto detto, logico punto di partenza è la definizione di una previsione di base che includa le dinamiche più recenti connesse al dispiegarsi degli effetti della crisi. L’esercizio, effettuato con il Modello econometrico del Cer-Nib, da un lato consente di tracciare le nuove tendenze di lungo periodo e individuare i punti di caduta del sistema italiano in termini energetico-ambientali; dall’altro rappresenta uno scenario rispetto al quale valutare l’impatto determinato dallo sviluppo di un’industria verde italiana fortemente competitiva.

Dalla simulazione – che presentiamo in dettaglio nel primo capitolo - emerge che a differenza di prima della crisi anche in uno scenario “business as usual”, cioè al netto di politiche che non siano già attive, si registra una graduale riduzione in termini di emissioni lungo tutto l’arco della previsione. Un profilo decisamente positivo da un punto di vista ambientale che ci avvicina ai target fissati in sede internazionale: secondo le nostre stime l’Italia potrebbe scendere collocarsi intorno ai 490 MTON di emissioni nel 2020 e arrivare a 465 MTON per il 2040. Questa dinamica costantemente decrescente è spiegata da almeno tre dati di fondo.

Il primo è appunto legato ad una revisione al ribasso delle previsioni di crescita per l’economia italiana che, dopo lo scorso terribile biennio, nelle nostre ipotesi si colloca poco sopra l’1 per cento nella media dei prossimi trenta anni. Tale lentezza, per quanto accentuata, da sola non giustifica tuttavia la tendenza delle emissioni, visto che anche prima della crisi la nostra economia non viaggiava certo spedita.

Una parte significativa del miglioramento ambientale riflette infatti una diminuzione strutturale dell’intensità energetica. Calcolato sia rispetto al prodotto interno lordo che alla popolazione, l’indice italiano dopo il 2006 ha evidenziato un chiaro trend decrescente che ha trovato un’importante conferma anche nel corso della recente recessione. Un’analisi comparativa approfondita delle dinamiche energetico-ambientali rivela come tale comportamento sia in realtà coerente con quanto rilevato nelle grandi economie europee e cominci a “sanare” una divergenza italiana: una scomposizione settoriale suggerisce che ulteriori ampi spazi di miglioramento sono disponibili in particolare nel comparto di produzione dell’energia, nell’edilizia residenziale e nella gestione dei rifiuti.

Anche nel panorama italiano un terzo fattore di cambiamento è rappresentato dalla crescita delle FER. Nell’ultimo quadriennio c’è stata una visibile accelerazione che ha fatto salire il loro peso sul totale dei consumi finali di ben tre punti percentuali, quando nei quindici anni precedenti l’aumento cumulato era stato di appena 1,2 punti. In prospettiva, pur adottando un’ipotesi di base prudente relativamente al ritmo di crescita, la quota di energia fornita dalle rinnovabili dovrebbe assumere una dinamica continuamente e marcatamente crescente, tale da portarla al 14 per cento nel 2020 (quindi comunque al di sotto del target fissato in sede europea al 17 per cento) per poi avvicinarsi al 25 per cento alla fine del periodo di previsione.

In questo scenario di riferimento, è dunque opportuno domandarsi quale sia oggi l’effettiva capacità della filiera produttiva italiana di rispondere a una domanda interna crescente di tecnologia/impianti da rinnovabili e, al tempo stesso, di competere sui mercati internazionali: in pratica quanto il nostro sistema è in grado di “sfruttare” le tendenze in atto. Il secondo capitolo del Rapporto presenta una visione d’insieme dei comparti ad alto potenziale di sviluppo industriale distinguendo per singole fonti. In sintesi, in Italia, la filiera di impianti/tecnologie destinate alla produzione energetica da rinnovabili è piuttosto frammentata, con una presenza maggiore nelle fasi a valle della catena del valore aggiunto; è quasi del tutto assente in alcuni segmenti (spesso quelli con i margini economici più ampi); è tendenzialmente più forte nella produzione degli impianti di piccola taglia e meno in quelli più grandi; è caratterizzata da una maggiore presenza di operatori di piccola/media dimensione (ci sono anche molte start up che puntano a sfruttare i sistemi di incentivazione); ha comunque caratteristiche sensibilmente diverse a seconda sia della fonte che della fase produttiva considerata. A conti fatti, il quadro descritto non è certamente quello di un’industria solida e affermata sul mercato nazionale e internazionale, anche se emergono nicchie/posizioni specifiche che possono avere sviluppi importanti. Per fornire una dimensione del potenziale impatto economico legato allo sviluppo di un’offerta verde nazionale abbiamo effettuato un esercizio di simulazione ad hoc con il nostro Modello. Dopo aver disegnato un profilo di lungo termine per il commercio mondiale di tecnologie per FER, abbiamo ipotizzato che l’Italia converga gradualmente verso una media ponderata delle quote dei principali paesi esportatori e che contestualmente arrivi a coprire i tre quarti della propria domanda nazionale (oggi, grossomodo, se ne copre un quarto): da un punto di vista settoriale, i progressi industriali maggiori si dovrebbero avere nel fotovoltaico e nell’eolico. Si tratta evidentemente di ipotesi piuttosto estreme che vanno intese come obbiettivi/benchmark verso i quali convergere.

Le nostre stime, discusse nel terzo capito del Rapporto, segnalano potenziali ricadute economiche importanti. Intanto al 2040 il Pil risulterebbe più alto rispetto alla simulazione di base di circa 5 punti percentuali, determinati in buona parte dalla nuova domanda estera: il tasso di crescita di lungo periodo dell’economia italiana, grazie allo sviluppo del comparto produttivo verde, salirebbe di almeno un paio di decimi avvicinandosi all’1,5 per cento. Si noti peraltro che tale effetto espansivo potrebbe essere magnificato da eventuali spill over della crescita del settore delle tecnologie ambientali sulla produttività complessiva del sistema italiano. In letteratura non mancano evidenze in questo senso.

A fronte di questa crescita - sempre rispetto alla simulazione di base - il miglioramento del saldo nominale della bilancia commerciale italiana si commisura in 4 decimi di Pil. Questo dato in realtà riflette una sensibile crescita delle esportazioni di tecnologia verde alla quale se ne correla una delle importazioni solo leggermente più contenuta: esso va quindi inteso più come risultato di una maggiore partecipazione al commercio internazionale che come mero ed esclusivo aumento della penetrazione delle merci italiane. Il miglioramento registrato appare tanto più significativo perché contenuto dall’interazione del comparto delle FER con il resto del sistema economico: l’aumento delle esportazioni di macchinari ambientali infatti non solo attiva importazioni inerenti al proprio processo produttivo ma anche importazioni dovute all’effetto positivo sulla crescita generale; inoltre, va tenuto conto che una maggiore domanda effettiva determina anche un aumento dell’inflazione interna con conseguente perdita di competitività verso l’esterno.

É da ritenere che anche sul piano occupazionale gli effetti sarebbero consistenti. É assodato che nella filiera verde l’impatto maggiore in termini di posti di lavoro si ha nelle fasi più a monte della catena produttiva (costruzione) che non in quelle più a valle (gestione e manutenzione), e che tale forbice appare particolarmente ampia proprio per il fotovoltaico e l’eolico. Applicando alle ipotesi adottate un’elasticità occupazionale media distinta per fonte rinnovabile, emerge che, cumulando l’impulso del mercato estero e di quello nazionale, nel complesso potrebbero essere generati circa 170 mila nuovi posti di lavoro.

Con l’accelerazione della crescita migliorano anche le condizioni della finanza pubblica. Secondo i nostri conti, lo spazio che si crea è piuttosto importante: nel complesso del periodo di previsione si liberano risorse per 122 miliardi di euro a prezzi 2009 che consentirebbero di finanziare quasi il 60% della spesa per energie rinnovabili prevista nella base. Si creano cioè le condizioni per innescare un ciclo virtuoso per cui il successo economico dell’investimento ambientale genera fondi per spingere ulteriormente l’accumulazione di capitale nel settore delle tecnologie per rinnovabili.

Questa forma di “autofinanziamento verde”, certamente auspicabile, è però tutt’altro che semplice da avviare. Lo sviluppo di una filiera industriale per le rinnovabili presuppone infatti la capacità di portare a compimento e sfruttare appieno i processi di innovazione, superando quegli snodi che spesso impediscono che dalla fase di ricerca pura si arrivi alla effettiva diffusione di una tecnologia. Nell’ultimo capitolo del Rapporto, attraverso la formalizzazione di uno schema esplicativo del processo di innovazione, mettiamo in luce le peculiarità del comparto, il ruolo da assegnare all’operatore pubblico/privato e le politiche effettive messe in campo.

Il settore delle rinnovabili - e il funzionamento del relativo mercato - presenta infatti delle caratteristiche che direttamente o indirettamente frenano la propensione ad investire in ricerca e complicano la finalizzazione dell’iter delle nuove tecnologie. Si tratta di difficoltà ampiamente documentate dalla letteratura e che interessano differenti aspetti, da quelli prettamente economici (barriere all’entrata, economie di scala, learning by doing), a quelli amministrativi (processi autorizzativi), a quelli infrastrutturali (gestione della produzione energetica intermittente). Ne deriva un’intensità in R&S del comparto verde più bassa rispetto agli altri settori ad alto grado di innovazione e, da un punto di vista di processo, un maggiore rischio che le tecnologie - quando effettivamente prodotte - rimangano intrappolate in un circolo vizioso di bassa utilizzazione e alti costi (la cosiddetta technology valley of death).

Nel superamento di queste difficoltà gioca un ruolo chiave l’operatore pubblico: non solo nella parte iniziale del processo, quella caratterizzata da un’attività di R&S di base e maggiormente scollegata dagli interessi commerciali, ma lungo tutta la catena tecnologica. L’intervento pubblico deve di fatto garantire un “ponte” che consenta il superamento della fase più critica, quella che collega sperimentazione e commercializzazione che poi, con un peso via via crescente dei soggetti privati, si conclude con la diffusione della tecnologia. Per dosare e dare continuità all’azione di supporto possono essere utilizzati strumenti che interessano i differenti passaggi del percorso innovativo: si comincia dalle misure più prossime all’attività di ricerca (incubatori tecnologici, programmi dimostrativi, progetti pilota), per passare a quelle mirate alla rimozione della barriere amministrative e infrastrutturali, per poi arrivare a quelle a diretto sostegno delle domanda con obblighi e incentivi (sistema delle quote ma soprattutto tariffe feed in).

Una lettura approfondita in questa chiave delle politiche attive in Italia suggerisce una considerazione di fondo: sebbene risultino previste misure per tutte le fasi del percorso tecnologico, emerge uno “squilibrio” a favore di quelle più a valle dell’iter. Appare cioè relativamente fragile il sostegno alla ricerca e alle fasi immediatamente successive ad essa (sviluppo sperimentale, avvio della commercializzazione) mentre risulta ben più solido il supporto diretto della domanda finale di tecnologie esistenti attraverso il sistema degli incentivi (fasi di penetrazione nel mercato e diffusione).

Di ciò - oltre che nella disamina del quadro nazionale - si trova conferma anche procedendo ad un confronto con altri paese europei, e in particolare con la Germania dove, non a caso, il comparto industriale delle rinnovabili è maggiormente consolidato: rispetto al caso italiano risulta superiore la spesa in R&S, il numero degli incubatori e, in generale, la capacità di innescare investimenti industriali privati, fattore chiave per completare il percorso innovativo.

Tale assetto rischia di premiare le tecnologie più mature e consolidate sul piano commerciale, penalizzando in ultima istanza una filiera ancora poco strutturata come quella italiana che invece dovrebbe puntare ad un elevato grado di innovazione. In questa direzione, se appaiono appropriate alcune strategie di policy già portate avanti (progressiva uscita dal sistema dei certificati verdi a favore delle tariffe feed-in, autorizzazione unica, forte promozione di accordi operativi bilaterali internazionali), sembra tuttavia opportuno un ribilanciamento almeno parziale dell’impegno pubblico.

[Il resto della ricerca lo potete leggere nel file accluso al presente articolo]

Per maggiori informazioni: Centro Europa Ricerche.


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