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Di’ qualcosa di destra

Il libro di Angelo Mellone "Di’ qualcosa di destra" edito da Marsilio.

di pietro g. serra - giovedì 18 maggio 2006 - 9432 letture

Angelo Mellone è un brillante intellettuale segnato dall’anagrafe. I suoi vent’anni sono coincisi con l’affermazione della destra politica in Italia, i trenta da poco compiuti lo vedono impegnato nel tentativo di dare a quella destra uno spessore e un’immagine culturale, con il dichiarato sottinteso di farne una forza, dinamica, post-ideologica, riformista. L’impresa, come si vede, non è di poco conto e ne se potrà riparlare magari fra un decennio, quando Mellone avrà superato i quaranta, un’età che tempera gli entusiasmi e la voglia di arrivare con l’esperienza e qualche esame di coscienza.

Il saggio al quale Mellone affida le sue speranze e le sue riflessioni si intitola Dì qualcosa di destra (Marsilio, 222 pagine, 11 €) e ha un’introduzione di Claudio Velardi, già comunista e braccio destro di D’Alema alla presidenza del Consiglio, poi editore del Riformista e figura di spicco di una nuova sinistra in cerca di sé stessa.

Velardi non si nasconde che oggi le tradizionali categorie ideologiche non sono più sufficienti a spiegare il Paese, ma vede nella nostra democrazia un carattere «schiettamente gerontocratico» che impedisce di fatto ogni cambiamento. Risultato: sperare nelle nuove generazioni. Il che, con un’Italia a bassisismo tasso di natalità, più che un viatico è un’estrema unzione.

Mellone la pensa probabilmente come Velardi, speranza nei giovani inclusa, ma non lo dice più di tanto, speranza nei giovani esclusa. A differenza di quest’ultimo che, preso atto della fine di un’egemonia politico-culturale, lavora per un rimescolamento delle carte e per la costruzione di una diversa identità, è impegnato nella elaborazione di un’egemonia alternativa nella quale la realtà di una Destra politica di governo pesa però come un macigno.

Se c’è infatti una destra al potere (va da sé che il libro è stato pensato e scritto prima delle ultime elezioni), sottilizzare sulla insufficienza della classica dicotomia delle differenze sarebbe masochismo: inoltre, ogni processo egemonico che si rispetti ha come assunto un elemento identitario forte e in grado di calamitare l’attenzione. Data per scontata la presenza e la liceità della destra in Italia, Mellone deve però spiegare come e perché, fra quella che lui ipotizza e quella invece reale o comunque avvertita, come tale siano più le differenze che le affinità.

A scorrere il libro, vien fuori infatti la filigrana di una destra moderna, creativa, radicata nella società, capace di muoversi fra i fenomeni di costume, le culture popolari, l’immaginario diffuso... Ma ciò che invece appare in superficie ne è la variante socialmente reazionaria, antropologicamente bacchettona, culturalmente arretrata, modernizzata suo malgrado più che modernizzatrice sua sponte, minoritaria anche se numericamente maggioranza nel Paese.

Per risolvere e/o affrontare il problema, Mellone si muove su due campi. Il primo è una sorta di ridefinizione e di riscrittura delle cosiddette destre esistenti, una nuova tassonomia, più giornalistica che scientifica, che francamente lascia il tempo che trova.

L’autore è troppo intelligente per credere che l’invenzione della categoria «Anarchici ultracontemporanei», di cui farebbero parte il regista Enrico Vanzina, il deputato di AN Teodoro Buontempo e il critico cinematografico Maurizio Cabona, spieghi veramente qualcosa. E quanto a quella dei «Mediterranean Conservatives», nella quale bontà sua mi inserisce, insieme con Carlo Sgorlon, Alessandro Piperno e Sergio Romano, qualsiasi cosa essa voglia dire in inglese o tradotta in italiano, è roba da togliergli il saluto.

Il secondo, più serio, è quello del pop-fascismo e del pop-riformismo. Mellone sa benissimo che il più grosso problema identitario della destra italiana rimane quello delle sue radici fasciste e della sua esperienza post-fascista. Lo sa talmente bene che sul tema glissa, dando come per acquisita una elaborazione ideologica post-Fiuggi, che per i modi in cui è avvenuta, spiega invece perfettamente il profilo di destra d’ordine, conservatrice e pseudoliberale, che Alleanza Nazionale ha finito per ritalgiarsi nei confronti del mondo esterno.

Non essendoci mai stata una destra in Italia, nel momento in cui la si deve inventare, ci si rifà a un modello un po’ classico e molto esterofilo (la Thatcher, Aznar, Chirac, adesso Sarkozy: i modelli del leader di AN Gianfranco Fini brillano per intercambiabilità e vaghezza).

Ma basta fare un salto in qualsiasi sezione o circolo culturale che ruota intorno ad AN, per accorgersi come il coacervo di umori giovanili e non solo, sia ancora impregnato di quelle radici: chi scrive ne ha avuto fresca testimonianza nel corso di un paio di presentazioni del saggio di Luca Telese, Cuori neri, e ne ha tratto l’impressione di un ambiente schizofrenico, ossessivamente legato al culto di una memoria apparentemente rimosssa, archiviata e/o negata, ma in realtà mai abbandonata e tuttavia non più esibibile.

Proprio perché il problema esiste, Melone lo supera e lo ricomprende in quello che lui chiama il fascismo pop. La tesi è suggestiva e ha spunti di verità.

Detta in breve: è la presa d’atto che la società italiana è più avanti della sua rappresentazione politica e che nel comune sentire, tutta una serie di elementi tipici del fascismo sono di fatto entrati nell’immaginario collettivo, persino nel senso comune, svuotati magari di significato, ridotti a marchio, a segno, a griffe, in fondo oggetti di consumo.

Allo stesso modo, a livello giovanile, l’esibizione di una croce celtica su un casco da motorino, se da un lato è resa possibile dalla sua neutralizzazione in quanto segno identitario forte, dall’altro reinserisce quella identità depurata, le dà un diritto di cittadinanza, generico, certo, ma non per questo meno reale.

Allo stesso modo, la accettata liceità del definirsi di destra permette anche il recupero di elementi culturali-pittorici, architettonici, narrativi, filosofici-fascisti in senso stretto o in senso lato, ma comunque a lungo accomunati al fascismo solo in negativo.

Resta tuttavia il fatto, su cui Mellone sorvola, che lo «sdoganamento» è sempre il frutto di una scelta altrui: paradossalmente non è la destra a poterlo fare sua sponte, proprio perché, avendo accettato la logica politica del riconoscimento deciso dall’avversario, e alle sue condizioni, è da quest’ultimo che si vede ora rilasciare e ora negare patenti di identità e libretti di politica circolazione. Dal fascismo pop al riformismo pop il passo è breve.

Mellone è un intellettuale che un tempo sarebbe stato definito organico: nella proiezione politica del centro-destra scarta il centro e si tiene la destra, ma all’interno di quest’ultima toglie Forza Italia e la Lega e si tiene AN. C’è naturalmente un suo perché politologico: “Solo chi ha alle spalle una cultura politica solida può riuscire in un’azione innovatrice”. Ovvero: “Ci sono le condizioni per governare da destra il processo di modernizzazione. Ciò significa vincere la prova del "riformismo di governo", realista e radicale. Immaginare da destra nuovi modelli sociali nell’epoca del "pensiero unico" in economia. Ma ogni "svolta", se non poggia sulla solidità di un percorso storico, rischia sempre di franare su se stessa e di implodere. Non è paradossale, dunque, che per fare un altro passo in avanti sia necessario, almeno per un momento, voltarsi indietro: e dimostrare che se l’Italia "dice" e "fa" qualcosa "di destra" non è la creazione estemporanea della Prima Repubblica”.

Che dire? L’analisi di Mellone dà per scontato il crepuscolo del berlusconismo, “incapace di dare profondità al "sogno degli anni novanta e, per il suo intrinseco carattere di fase di transizione, incapace di creare una duratura "visione dell’Italia”, ma io non ne sarei così sicuro e le ultime elezioni offrono semmai una chiave di lettura un po ’diversa. Inoltre, nel riformismo pop accarezzato da Mellone c’è una sorta di corto circuito. Tutta una serie di suggesitoni culturali, infatti, sono estreme, anarchiche, libertarie, in altri anni le si sarebbe definite alternative, e ripropongono la vecchia querelle fra un partito moderato, un elettorato tradizionale e una classe intellettuale «rivoluzionaria».

Quando non è così, è il recupero di una serie di modelli e di riferimenti che affondano la loro ragion d’essere negli anni Ottanta del boom delle televisioni private, della modernizzazione assoluta, in una parola in quel berlusconismo che si ritiene sconfitto e nei confronti del quale ci si vorrebbe alternativi.

Per certi versi, Mellone fa lo stesso errore fatto dalla cultura di sinistra quando, venuta meno l’egemonia marxista, pensò che allargare al massimo la sua sfera di influenza e di accettazione dell’altro da sé fosse la strategia migliore per conservare il potere. Se vuoi tenere insieme tutto e tutti, Musil e Marcuse, Céline e Sartre, i mistici e gli oroscopi, le avanguardie e le masse, la tv spazzatura e il cinema d’esssi, alla fine perdi l’anima e non guadagni che confusione.

Inoltre, andrebbe consigliata una maggior cautela intellettuale nel prendere per buoni gli elementi giornalistici di critica positiva fatti dagli avversari. Spesso un apprezzamento è, più semplicemente, dovuto alla convinzione che tu sarai un concorrente più facile da eliminare rispetto a quel tuo alleato, sul quale intanto, vomito il mio disprezzo e così facendo, solletico la tua vanità.

Rimane, infine, l’impressione che questa destra diffusa di cui nel libro si parla con dovizia stenti nella realtà ad avere una rappresentatività, cioè una pubblica visibilità. A meno che non sia così tanto diffusa da essere in realtà già a sinistra, magari senza saperlo. Sarebbe un curioso caso di eterogenei dei fini e forse allora ci vorrebbe un altro libro.

STENIO SOLINAS

«Linea», 23 aprile 2006


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Conoscere per migliorare
20 maggio 2006, di : ciao

Purtroppo gente che scrive come il prof. Serra ne è riamasta poca.

Io invito chiunque voglia, di scrivere poche righe dimostrando dal "fondo della sala" che c’è una platea attenta non solo all’argomento, ma a tutti quegli accorgimenti che creano l’equilibrio e l’invito a continuare la lettura.

Io mio commento, è appunto che la destra o la sinistra hanno poco a che fare con il carattere mite delle persone forti d’animo per natura.

Oggi si tende a parlare a ruota libera in tanti campi..

In realtà i politici di destra e di sinistra si guardano in cagnesco, mal disposti a raccontarsi qualunque cosa.

Cosa ci rimane da fare nel frastuono conseguente?

Ricordare appunto che dobbiamo cercare una via d’uscita..

J. P. Sartre racconta appunto nell’opera "Porte chiuse", che non per caso ci troveremo di fronte i nostri antagonisti o i nostri omologhi, nell’altro mondo. In realtà, solo in questo modo ci sarebbe data la possibilità di salvarci da tutti quei casini che anche noi.. avremmo combinato.

Anche se uno non dovesse credere all’ ipotesi di Sartre, cosa resta da proporre in una società che scambia la politica per tifoseria?

Il popolo scivola ancora di più nei tranelli dei potenti, rischiando di dare uno spettacolo poco edificante e forse definitivo, pari a ciò che è l’esempio dato dai suoi politici..

Anche noi del popolo, perciò, dobbiamo dare l’esempio di come ci si a aggrappa a una zattera..

    Conoscere per migliorare
    21 maggio 2006

    Ciao,grazie per i complimenti, ma il pezzo è di Stenio Solinas, inviato ed editorialista del "Il Giornale". Se vuoi approfondire l’argomento, leggi la sua quasi autobiografia Per farla finita con la destra (Ponte alle Grazie, 1997): scoprirai la preziosità di certe posizioni anticonformiste ed un percorso esistenziale molto originale che ti porterà a chiederti: ma ha ancora senso la dicotomia destra/sinistra? Ciao Giuseppe Giuseppe