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Corso sulle mafie per docenti del Piemonte: mafie e corruzione

Il prof. Alberto Vannucci al Liceo artistico statale torinese “Renato Cottini”, in un incontro in streaming, venerdì 24 febbraio, dinanzi ai docenti del corso di formazione sulle mafie

di francoplat - mercoledì 1 marzo 2023 - 1900 letture

Tra i reati che conoscono una fiorente vitalità, un’inossidabile persistenza nel nostro Paese, vi è la corruzione; ciò sin dalle origini della nostra storia unitaria, come si dirà più avanti. Corrumpere: esercitare un’azione di progressivo disfacimento. Così la parola latina porta, sul piano etimologico, a intendere il reato di corruzione come l’erosione, tutt’altro che occasionale, del senso dello Stato e dello Stato stesso da parte di corrotti e corruttori. È questa la prospettiva dalla quale parte Isaia Sales in una sua opera – Storia dell’Italia corrotta, Rubbettino editore, 2019 – dove precisa: «la corruzione non è dunque per noi un problema della morale singola del cittadino ma della concezione dello Stato di una parte delle classi dirigenti del paese, che hanno reso l’abuso del loro potere un fatto consuetudinario e diffuso, una normale modalità di esercitare la funzione politica, burocratica e imprenditoriale. Si potrebbe quasi parlare di “banalità” della corruzione in Italia». Di un cancro dalle metastasi diffuse e ramificate parla, poi, un rapporto di Libera e del Gruppo Abele, dal titolo emblematico: “Corruzione sistematica e organizzata. Viaggio nel sistema corruttivo del Paese” (2017, reperibile in Rete). Pure qui, viene evidenziato l’enorme danno sociale, economico, politico e culturale comportato dalla corruzione eretta a sistema: «la corruzione non solo infrange le regole stabilite a tutela del bene pubblico, ma sfascia l’economia, disgrega i legami sociali, rischia di fare a pezzi la nostra stessa democrazia. Perché spezza il legame di fiducia fra i cittadini e le istituzioni. Distrugge l’uguaglianza, che non può esistere dove l’arbitrio e il privilegio si sostituiscono al diritto e ai diritti. Disperde il senso di legalità nel nome di “così fan tutti”».

Proprio di tale reato, nel suo punto di intersezione con gli interessi e l’azione criminale delle mafie, ha parlato il prof. Alberto Vannucci al Liceo artistico statale torinese “Renato Cottini”, in un incontro in streaming, venerdì 24 febbraio, dinanzi ai docenti del corso di formazione sulle mafie. Il prof. Vannucci è docente ordinario di Scienza politica del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa; si è occupato di varie tematiche nel corso della sua attività accademica, dal lavoro nero al declino competitivo alle organizzazioni criminali, ma, in particolare, ha dedicato larga parte dei suoi sforzi analitici al tema della corruzione. Membro dell’ufficio di presidenza di Libera e del Comitato scientifico di Avviso pubblico, il professore pisano dal 2010 coordina, dopo averlo elaborato insieme ai due enti ora citati, un Master universitario in “Analisi, prevenzione e contrasto della criminalità organizzata e della corruzione”.

Forte di questa esperienza, e proprio a partire da una lezione svolta nel Master insieme a Piercamillo Davigo, Vannucci ha provato a sintetizzare gli aspetti più rilevanti del fenomeno corruttivo nel nostro Paese, il primo dei quali è la sua lunga durata. In tal senso, ha rievocato la lontana vicenda di un battagliero garibaldino, Cristiano Lobbia, prima tra i campi di battaglia e, in seguito, nelle aule parlamentari. Il suo nome è legato alla sua forte e intransigente presa di posizione dinanzi allo “scandalo del Monopolio dei tabacchi”, ossia ai fondati sospetti che l’approvazione parlamentare della concessione da parte del neonato Regno d’Italia – siamo nel 1869 – a un gruppo di imprese private del monopolio della coltivazione del tabacco e della manifattura dei prodotti da fumo fosse stata pilotata per mezzo di finanziamenti illeciti a un rilevante numero di deputati, circa una sessantina, da parte di alcuni banchieri interessati all’affare. Lobbia denunciò in Parlamento lo scandalo, dicendo che aveva prove che avrebbero accertato le responsabilità di corrotti e corruttori; un mese dopo fu aggredito, prima di testimoniare presso la Commissione d’inchiesta approntata, di malavoglia, dal Parlamento. Per inciso, come nota di costume, vale la pena ricordare che la bastonata sferratagli sul cappello, prima delle tre coltellate nel petto, piegò il copricapo nel mezzo e ciò fu sfruttato in seguito da un intraprendente cappellaio fiorentino che diede vita al noto cappello, appunto, alla “lobbia”. Il garibaldino si salvò, ma l’inchiesta fu archiviata e lui si trasformò da accusatore in accusato, in virtù del fatto che una parte del ceto dirigente e della stampa filo-governativa intimò il sospettò che l’agguato fosse un’invenzione dello stesso Lobbia.

Partendo dai primi passi della nostra storia nazionale, il prof. Vannucci ha osservato come, nel corso della vicenda plurisecolare della corruzione, si siano consolidati dei meccanismi quasi invariati, ossia una platea ampia e variegata di soggetti interessati all’accordo illecito e la presenza di un sistema di regolazione interna di quegli stessi accordi. Quanto al primo aspetto, il relatore ha enumerato alcuni scandali della fase repubblicana, da quello del 1954 dell’Ingic (Istituto nazionale per la gestione delle imposte di consumo), che vide coinvolte diverse amministrazioni comunali che intascarono mazzette per favorire degli appalti a favore dell’Istituto e che portò a istruire circa 50 procedimenti penali in altrettante sedi giudiziarie, con 1183 indagati, tra i quali numerosi parlamentari, per quali, però, Camera e Senato negarono l’autorizzazione a procedere, allo scandalo Mose, il progetto architettonico per separare la laguna di Venezia dalle acque del Mar Adriatico in vista di possibili allagamenti, che si incardinò attorno a una tangente complessiva pari a un miliardo di euro e che vide i primi arresti nel 2013. Ancora: il prof. Vannucci ha riferito, sulla base delle osservazioni di Davigo, che uno dei filoni di inchiesta di Tangentopoli riguardò l’Anas, la società che si occupa delle infrastrutture stradali, e portò all’incriminazione di 150 imprenditori che si ripartivano la gara secondo un meccanismo ben oleato e a rotazione, dietro il versamento di tangenti a interlocutori pubblici legati all’Anas. Si trattava – ha continuato Vannucci – di un sistema che andava avanti da almeno vent’anni e che non cessò affatto con la sotto-inchiesta di Mani pulite: nel 2015, infatti, emerse come presso l’Anas di Roma le imprese continuassero a versare delle mazzette a un dirigente.

Quest’ultimo episodio, ha spinto il relatore ad avanzare un’osservazione pregnante: «i funzionari socializzano la corruzione», ossia passano, per così dire, la consegna ai loro successori, così come passano loro le mansioni affiancandoli all’inizio dell’attività. E proprio sulla base di tale constatazione, l’ospite del Cottini ha suggerito l’idea della corruzione come di un sistema ampiamente strutturato e caratterizzato da regole interne fatte rispettare anche con delle sanzioni. Le regole interne, ha precisato, hanno a che vedere con un aspetto connaturato al reato stesso. Come ad esempio evidenziano le intercettazioni telefoniche legate alla cosiddetta “cricca della protezione civile”, ossia l’inchiesta legata alle tangenti per i Grandi eventi e il G8, il timore di corrotti e corruttori non è tanto quello del carcere – Vannucci ha parlato, a tale proposito, di “sindrome di impunità” – quanto quello di incontrare nella prassi corruttiva qualcuno di disonesto, qualcuno che non rispetti il pactum sceleris. Come potrebbe, infatti, un corrotto denunciare un corruttore insolvente? In che modo imparano a fidarsi gli uni degli altri, ha domandato e si è domandato il prof. Vannucci? Quanto alla “sindrome di impunità”, converrà osservare che è tutt’altro che infondata: è nel già citato resoconto di Libera che si legge, nero su bianco, che «le reti di corruzione sembrano estendersi negli stessi anni in cui per i suoi protagonisti diventa sempre più remoto sia il rischio penale che quello di incorrere in sanzioni politiche e sociali».

Tornando al problema del delicato e flebile rapporto fiduciario tra corrotti e corruttori, è questo il punto in cui, almeno per certi aspetti, la vicenda plurisecolare della corruzione si incontra con quella altrettanto plurisecolare delle mafie. In un sistema in cui la regola è la corruzione, ossia è inevitabile pagare una tangente per accedere a un appalto, il meccanismo corruttivo si adegua al mutato contesto ambientale: collassato dopo Mani pulite il sistema dei partiti, la corruzione non è affatto cessata, semmai ha mutato modalità e dinamiche. Tuttavia, in alcune aree, quelle nelle quali le mafie esercitano un reale dominio del territorio, i meccanismi di regolazione della corruzione sono rimasti, di fatto, invariati. In che senso? Vannucci ha spiegato che le mafie, in determinate aree, garantiscono la stabilità della corruzione attraverso l’esercizio di un servizio di garanzia del patto delittuoso. A tale proposito, cita il cosiddetto sistema del tavolino (‘u tavolinu), ossia lo spazio di incontro fra politica, impresa e burocrazia che, tra gli anni Ottanta e l’inizio del nuovo secolo, ha portato alla spartizione di tutte le gare d’appalto bandite in Sicilia in quegli anni. Cosa nostra non entrava nella spartizione, ma ricavava una percentuale in relazione al servizio di garanzia della stabilità del sistema: l’1% del profitto complessivo andava alla famiglia mafiosa che aveva sovranità sul territorio in cui avrebbe dovuto prendere forma l’oggetto della gara d’appalto. Una tassa speciale, poi, denominata “tassa Riina” andava ai Corleonesi, in quegli anni al vertice della mafia siciliana.

Il sistema mafioso di regolazione degli equilibri del triangolo corruttivo – politica, imprese e burocrazia - è intuibile e lo spiegò un imprenditore settentrionale che vinse una gara d’appalto a Palermo coinvolta in Mani pulite. Al giudice De Lucia che gli chiedeva come potesse conoscere la somma della tangente da pagare, anche perché era alla sua prima gara, l’imprenditore rispose che in Sicilia era come nel resto d’Italia, solo che c’era più disciplina; «ogni tanto ci scappa il morto e c’è più disciplina». Questo è il servizio di garanzia offerto dalla mafia. E Vannucci ha portato, poi, un altro esempio, stavolta in Emilia Romagna, emerso nel corso dell’inchiesta Aemilia (2015, il più grande processo alla ‘ndrangheta nel Nord Italia). Un imprenditore modenese, desideroso di vincere la gara d’appalto per la ristorazione nelle carceri lombarde, aveva chiesto l’aiuto di un intermediario; a fronte di una tangente di 25 milioni di euro, l’imprenditore aveva pagato all’intermediario circa un milione di euro, ma quello aveva cominciato a negarsi, sfuggiva, insomma non prestava fede al patto corruttivo. L’imprenditore si rivolse allora a un boss calabrese di alta caratura, noto nella zona emiliana, ossia Nicolino Grande Aracri. Una telefonata soltanto e l’intermediario giunse a più miti consigli. L’ospite del Cottini ha citato ancora il caso di “Mafia capitale”, per lui un unicum nella nostra storia. Per quanto i giuristi abbiano cancellato lo stampo mafioso dell’associazione a delinquere di quella vicenda, il professore ritiene, invece, che di mafia si tratti, una mafia, come la definisce, a “chilometro zero”. Una mafia, quella incarnata da Carminati, capace di fungere da valvola regolatrice del mercato corruttivo, fondato sugli appalti pubblici, con un ricavo maggiore di quello del traffico di droga, almeno secondo ciò che è risultato dalle intercettazioni telefoniche, e dal quale Carminati traeva una percentuale proprio in virtù dell’efficace azione svolta per fare rispettare le regole del sistema.

Le mafie, dunque, irrobustiscono il sistema della corruzione, per quanto questi non necessariamente le contempli – ci sono casi in cui, precisa Vannucci, il sodalizio fra corrotti e corruttori ha volutamente fatto a meno delle richieste mafiose – e per quanto l’azione criminale delle consorterie mafiose non si esaurisca certo in tale reato. Tuttavia, per Cosa nostra e le altre organizzazioni criminali la corruzione è vitale, ha suggerito il relatore, sia perché attraverso tale prassi riescono a eludere l’apparato repressivo dello Stato – la corruzione rappresenta una forma di impunità – sia perché attraverso la funzione, per così dire, di guardiania degli equilibri del sistema, Cosa nostra, la ‘ndrangheta o la camorra riescono a trarre ulteriori profitti.

Nelle ultime battute del suo intervento, l’accademico ha osservato ancora come il fenomeno corruttivo reale in Italia sia tutt’altro che in calata, come farebbero pensare i dati di Transparency International che valutano l’indice di percezione della corruzione tra gli esperti nel mondo del business. Da un lato, ha precisato come l’arte della corruzione, in particolare dopo Tangentopoli, sia diventata più sofisticata, e passi anche da gruppi di pressione atti a far cambiare le leggi in senso favorevole alla corruzione sistemica. Dall’altro, ha aggiunto che i soggetti che regolano le dinamiche corruttive si sono ampliati, affiancando quelli canonici (politici e mafie): la vicenda Mose ha visto quale regolatore degli equilibri del sistema corrotto un ingegnere a capo di un consorzio di imprese, con la mafia che ha giocato un ruolo non preponderante. Ha poi ancora rilevato come, a differenza delle dinamiche precedenti e sino a Mani pulite, si stia assistendo a uno slittamento del baricentro della regolazione degli affari illeciti verso i soggetti privati. Detto in altro modo, se in precedenza erano gli imprenditori che cercavano i politici, ora sarebbero questi ultimi a cercare le imprese, in una realtà complessiva che, a partire da una rivisitazione normativa scriteriata del codice degli appalti, rischia di rappresentare una manovra a tenaglia capace di fornire ulteriori spazi di impunità a chi intende muoversi illecitamente nel mercato nazionale. Il riferimento è all’ingente cifra connessa al PNRR.

In tal senso, risultano particolarmente significative le sue indicazioni su come costruire un kit di lavoro con gli studenti. Date loro l’idea concreta dei danni causati dalla corruzione, ha detto agli uditori del suo intervento. Chiedete loro perché in alcune realtà crollino i palazzi e muoiano persone a causa di un terremoto e in altri no; a fronte di due paesi con eguale sviluppo economico ma con un differente livello di corruzione, in quello maggiormente corrotto si muore due volte di più a seguito di un evento tellurico. Chiedete loro perché le strade sono piene di buche pericolose per l’incolumità di un motociclista o per l’assetto di un’auto. Fateli entrare nella concretezza dei danni collettivi e individuali causati dalla corruzione, veda essa o meno la presenza mafiosa. E riprendendo le osservazioni contenute in un’agile pubblicazione a due mani, “Anticorruzione pop. È semplice combattere il malaffare se sai come farlo” (Edizioni Gruppo Abele, 2017, scritto con Leonardo Ferrante), ha invitato a costruire comunità monitoranti, in grado di sorvegliare dal basso l’azione politica locale in funzione di contrasto a un fenomeno nazionale quanto mai diffuso e quanto mai derubricato dall’agendo politica e da quella civile.


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