La Germania perde la rabbia di Kuby
GUIDO AMBROSINO, Il Manifesto, 13 settembre 2005
Erich Kuby, giornalista e scrittore tedesco, è morto sabato scorso a Venezia, dove viveva dal 1980. Nato nel 1910 a Baden-Baden, era stato testimone della catastrofe del nazismo. Nel dopoguerra si affermò come una delle voci più lucide e più autorevoli della pubblicistica di sinistra tedesca. Hanno lasciato il segno le sue battaglie contro il riarmo, contro le ipocrite rimozioni del «miracolo economico», contro ogni riemergere di tentazioni autoritarie. Decisiva per Kuby fu l’esperienza della guerra, come soldato. Sul fronte russo fu accusato di disfattismo e sottoposto a un procedimento disciplinare; paradossalmente proprio l’arresto lo salvò da Stalingrado, dove finì la sua compagnia. Trasferito in Francia, fu fatto prigioniero dagli americani, che poi lo incaricarono di riorganizzare su basi antifasciste il sistema della stampa in Germania. «Fu mio padre a dare le licenze a Augstein, Springer, Nannen... Dimenticò solo di concederne una a se stesso», ricorda il figlio Daniel. Di quei nuovi giornali e settimanali, Süddeutsche Zeitung, Spiegel, Stern, fu una firma di punta. Prima ancora aveva lavorato per Der Ruf, la rivista più importante della sinistra radicaldemocratica e pacifista, fondata da Alfred Andersch e Hans Werner Richter. Venuto in conflitto con l’amministrazione americana, che considerava la testata troppo di sinistra, dovette lasciare l’incarico di capo-redattore.
Un dramma radiofonico sull’insensata resistenza tedesca a Brest gli meritò la denuncia per diffamazione del generale Ramcke. Kuby, che come soldato fu testimone della distruzione della città francese, vinse il processo. A renderlo famoso fu la sceneggiatura del film Rosemarie (1958, regia di Rolf Thiele), che ricostruisce un vero fatto di cronaca, l’uccisione a Francoforte della prostituta Rosemarie Nitribitt, mettendo a nudo la doppia morale propria alla cerchia dei suoi clienti, industriali e commercianti, la nuova classe dirigente. «Un film bellissimo - ha ricordato Valentino Parlato. - Per la nostra generazione fu una rivelazione: ci aiutò a capire la Germania del dopoguerra». Kuby rielaborò la vicenda in forma di romanzo, e Einaudi lo tradusse nel 1959.
Nel 1975 pubblicò Mein Krieg (la mia guerra), costruito a partire dal diario che aveva tenuto come soldato: era, tra le tante sue pubblicazioni, quella cui teneva di più e della quale diceva che «forse durerà nel tempo». La sua resa dei conti con la guerra continuò nel 1980 con Il tradimento tedesco. Come il terzo Reich rovinò l’Italia (questo il titolo della traduzione, apparsa nel 1983 da Rizzoli). Tra quelle paginhe Kuby rovescia il diffuso pregiudizio tedesco contro gli italiani «traditori», nella prima guerra mondiale (quando ruppero la precedente alleanza con gli imperi centrali) e poi nel 1943. Il libro rammentò a un largo pubblico tedesco - quello degli ignari turisti che avevano riscoperto l’Italia sulle spiagge di Rimini - un capitolo rimosso dalla Germania democristiana e atlantica: la brutalità dell’occupazione nazista del nostro paese tra il 1943 e il 1945. Kuby fu il primo tedesco a dire che era stata la Germania a pugnalare alle spalle l’Italia, e non viceversa. Forse non fu un caso se, proprio a ridosso della pubblicazione di quel libro, Kuby decise di stabilirsi in Italia, a Venezia.
Sempre controcorrente, mai disposto a tacere per «amor di patria», si meritò da Heinrich Böll il titolo di Nestbeschmutzer von Rang, «insozzatore del proprio nido», e per di più «di rango»: detto da Böll era il miglior complimento che si potesse immaginare. Il rapporto con la Germania «ufficiale» rimase problematico, non a caso titolò «La patria che mi fa arrabbiare» (Mein ärgerliches Vaterland) una raccolta di articoli e reportages.
In questa vigilia di elezioni suona significativo il suo commento alla vittoria di Schröder nel 1998 in cui spiegava che non aveva vinto la «sinistra», ma un «nuovo centro» poco simpatico. I sette anni di governo schröderiano gli hanno dato ragione.
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