Invito alla cerimonia autobiografica di Benjamin Constant / di Ivan Tassi
A quasi due secoli di distanza dalla sua prima stesura viene ripubblicato da Rizzoli nella traduzione di Piero Bianconi l’Adolphe, il capolavoro in forma di confessione scritto nel 1806. A metà strada fra il romanzo dell’io e la finzione, narra in prima persona titubanze, irresoluti progetti d’abbandono e annoiati vuoti d’amore, con un pizzico di mondana gratuità
IVAN TASSI
«Avete mai letto Adolphe, romanzo di Benjamin Constant, che ne ha da poco pubblicato una seconda edizione?» Non è un caso se nel 1825 Stendhal, subito dopo aver rivolto questa domanda ai lettori del London Magazine, si affrettò a specificare che l’opera conteneva una «dichiarazione di odio», ed era da ritenersi - secondo quanto attestava l’opinione «generale» - una sorta di autobiografia camuffata, in cui Constant non aveva fatto altro che «rappresentare se stesso» e i suoi rovinosi rapporti sentimentali. L’avvertimento continua a rivelarsi prezioso per chi si impegna a riaprire l’Adolphe - da poco ripubblicato presso Rizzoli, nella traduzione di Piero Bianconi - a quasi due secoli di distanza dalla data della sua prima stesura (1806): perché il romanzo, a metà strada fra la finzione e l’autobiografia, sembra stato costruito per tendere una trappola a tutti coloro che entrano a contatto con la natura ibrida dei suoi ambigui meccanismi. Quando infatti Constant, nel 1816, decise di pubblicare per la prima volta la storia del singolare «disamore» di Adolphe, sapeva benissimo - come aveva ammesso in un appunto del 1806 - di non aver del tutto «lavorato di immaginazione», e di aver progettato il singolare dissidio del protagonista - ormai privo di passione per l’amante, Ellénore, e tuttavia incapace di abbandonarla una volta per tutte - attingendo a piene mani dal repertorio delle proprie intricate relazioni con Madame de Staël, Anna Lindsay o Charlotte von Hardenberg. E tuttavia Constant sapeva anche che un romanzo non aveva in nessun caso il diritto di limitarsi a mettere in scena un «fatto vero»: più che copiare «servilmente» il «reale» - gli insegnava la stessa Madame de Staël, in un Saggio sulle finzioni del 1795 - doveva impadronirsene e deformarlo, fino a fargli raggiungere una «armonia propria», in linea con le autonome esigenze strutturali di una compagine finzionale, e in grado di «sedurre» il lettore attraverso i piaceri dell’immaginazione.
A scanso di equivoche accuse - e soprattutto per neutralizzare le turbolente scenate di chi, come Madame de Staël, poteva riconoscersi in Ellénore - Constant, si preoccupò allora di tutelare la propria credibilità di romanziere lanciando ai lettori - e proprio sulla soglia della seconda edizione menzionata da Stendhal - una specie di sfida. Era inutile, diceva Constant, che il suo «romanzo» - in cui in effetti mancano precise carte di identità dei personaggi e dettagliate descrizioni degli scenari di fondo - venisse interpretato come un’autobiografia in codice: bisognava semmai prendere il testo come un esercizio di bravura letteraria, che scommette di rappresentare, in un ideale teatro dall’atmosfera rarefatta, un dramma «sempre uguale», senza orpelli e con due soli personaggi, dove un amante menzognero si rivela incapace di dichiarare la morte dei propri sentimenti. Certo, la vicenda poteva dirsi basata su un fatto reale: ma il ripetitivo monologo del protagonista e le sue ingannevoli dichiarazioni «d’amore», piuttosto che dare adito ad inutili allusioni, ci inviterebbero a risolvere gli enigmi morali generati, secondo Constant, da una situazione «senza scampo» e a giustificare l’impasse di un amante alle prese con un’impronunciabile verità.
È a causa di queste stesse dichiarazioni se ancora oggi, davanti a chi cerca di sciogliere gli enigmi di Adolphe, si aprono due distinti cammini: il primo porta a condannare - com’è stato fatto - i sotterfugi di un testo che, in realtà, non riesce ad essere né «romanzo psicologico» né confessione autobiografica; il secondo spinge invece a raccogliere la sfida lanciata dal romanziere: anche solo per smascherarne le mosse e impegnarsi a verificare le conseguenze delle sue manovre.
Basta percorrere fino in fondo quest’ultimo sentiero, e prestare orecchio alla situazione «senza scampo» architettata ad uso e consumo dei lettori, per accorgersi innanzitutto che la sfida è fasulla e svolge, a tutti gli effetti, una funzione di copertura. Risulta quasi impossibile ascoltare le confessioni di Adolphe - che narra, in prima persona, titubanze, irresoluti progetti d’abbandono e annoiati vuoti d’amore - senza percepire nell’ambigua algebra delle sue argomentazioni qualcosa di irrimediabilmente gratuito. Perché Adolphe viene incaricato di raccontare un sentimento di cui non sa comprendere i meccanismi? È il senso di colpa, il desiderio di espiazione, la sotterranea vendetta - o la crudeltà nei confronti di Ellénore - ad animarlo? E ancora, che vantaggio può esserci ad assistere allo spettacolo della sua debolezza morale, per giunta filtrato dal ristretto - e irrimediabilmente parziale - punto di vista dell’io? Se nessuna delle molteplici risposte offerte a questi interrogativi ha saputo liberare il romanzo dall’alone di gratuito compiacimento che gravita attorno alle parole del protagonista, è segno che Constant, al momento di dar vita a una possibile controfigura del proprio io, ha contratto un debito troppo forte con le esperienze personali; e pur non riuscendo a coordinarle con i meccanismi del romanzo, ha continuato a chiederci - col pretesto della sfida letteraria - di prendere parte a una privata cerimonia autobiografica. A deporre a sfavore di Constant, in questo senso, sono proprio i dettagli che il suo romanzo - voltando le spalle a una tradizione inaugurata dai modelli inglesi e poi celebrata in Francia da Diderot, con l’entusiastico Elogio di Richardson - si impegna ad espungere dalla narrazione. Può darsi che la scelta obbedisca ai comandamenti della «letteratura» dell’epoca «dell’Impero», che - dirà più tardi Balzac - andava «dritta al fatto» senza indugiare su inutili particolari. Ma può darsi anche che i dettagli, nell’Adolphe, vengano sottratti al «fatto» - o talvolta rimpiazzati da qualche altro blando effetto di reale - per non lasciar trapelare la matrice inesorabilmente autobiografica dell’intreccio. Anche perché, una volta sbarazzatosi di un ingombrante pedaggio, lo scrittore aveva via libera e poteva dedicarsi, dietro un alibi pressoché inattaccabile, a sperimentare i piaceri di una pratica per lui abituale e persino ossessiva.
Non c’era infatti evento, incontro o relazione intima che Constant non si affrettasse a depositare sulla superficie della pagina scritta: come conferma una serie di testi autobiografici - rinvenuti o pubblicati integralmente solo nella seconda metà del XX secolo - che in ogni caso gravitano attorno alla sfera di composizione dell’Adolphe, lo scrittore era avvezzo a «letteraturizzare» la propria esistenza con grande abilità; e se nel Quaderno rosso - frammento di una vera e propria (ma incompiuta) autobiografia - furono i suoi primi vent’anni di vita a essere affidati al ritmo serrato di un racconto incalzante, alleggerito dei dettagli inessenziali alla caratterizzazione dell’io, nella parte dei Diari intitolata ad Amelie e Germaine, come anche nel racconto Cecile, toccò invece alle amanti dello scrittore - e alla sua futura moglie - di venir chiamate in causa per esser poi scandagliate, in modo del tutto impietoso, dal giudizio di un io tirannicamente protagonista. A tal punto che quello stesso io non ebbe poi alcuna difficoltà ad impadronirsi, in un secondo momento, della forma romanzo e a guadagnarsi, persino a prezzo di forzature, un’ulteriore e vantaggiosa valvola di sfogo: anche se i materiali a suo appannaggio non erano in grado di rivendicare un legittimo diritto di cittadinanza e, trascinati nell’orbita della finzione, erano destinati a scatenare qualche imbarazzante cortocircuito.
Proviamo infatti a sfogliare i Diari - redatti da Constant in maniera discontinua tra il 1804 e il 1816 - e nelle «querimonie» di un io indeciso, incapace di rispettare i progetti di indipendenza amorosa che di giorno in giorno va affidando alla scrittura, ritroveremo le stesse cadenze della situazione «senza scampo» di Adolphe: con l’aggravante che in questa sede Constant, subito dopo aver riletto le proprie annotazioni autobiografiche, non si trattiene dal dichiarare «ridicole» le incoerenze del suo carattere, dal deplorarle - assieme a tutte le indecisioni della sua condotta sentimentale - come una verbosa perdita di tempo; e dunque dal rivelarci, in maniera indiretta ma molto ferma, che le lagnanze, i programmi abortiti e i tentennamenti (quelli di Constant come quelli di Adolphe) non andranno iscritti ad altri progetti se non a quelli di un ostinato Narciso.
«Ci sono in me due persone» - dichiara infatti Constant l’11 Aprile del 1804: una impugna la penna, «osserva l’altra» e sembra obbligata a prendere scrupolosamente nota dei suoi movimenti, dando vita, attraverso la parola, a un necessario duplicato dell’io. Della «specie di storia» raccontata dal Diario - leggiamo ancora il 21 Dicembre dello stesso anno - c’è assoluto «bisogno»: per non dimenticarsi e non ignorare lo spettacolo delle proprie umane debolezze; ma anche per diventare «un altro» ai propri occhi e acquisire, grazie alla provvidenziale epifania di un’ombra narrativa, il diritto illimitato di continuare ad ammirarsi a scadenza periodica, sfruttando i vantaggi connaturati al più deformante degli specchi.
Non ci sono, in ogni caso, da temere eventuali effetti perturbanti sprigionati dalla duplicazione della propria immagine mediante la scrittura: perché in primo luogo l’io - assicura Constant in un’occasione - sottoposto alle indagini del Diario, finisce sempre per mettersi «in posa» davanti a se stesso dissimulando le proprie colpe; e poi perché l’effigie riprodotta sotto gli occhi del diarista resta affidata all’intimità di uno strumento segreto, che mantiene le gratuite debolezze di Narciso al di qua della linea di pubblicazione.
Ma cosa accade quando quella stessa immagine viene prelevata di peso e, dopo aver subito qualche ritocco, viene esposta assieme a tutti i suoi difetti sotto gli occhi di un lettore esterno? Cosa accade in altre parole, quando l’io segreto di Constant si tramuta in quello del suo romanzesco portavoce Adolphe? La conseguenza principale di una simile trasposizione non consiste soltanto nel fatto che il romanzo, come Constant avrà a confidare a Madame Recamier nel 1816, viene indebitamente tramutato in un impulsivo atto «d’amor proprio» e finisce per obbedire - come il Diario - ai cerimoniali di chi scrive solo per ammirare se stesso. L’effetto più allarmante è la «spiacevole impressione» a cui, come ebbe a dire una volta Lord Byron, non riescono a sottrarsi coloro che a questi patti entrano a contatto con l’universo di Adolphe. Se infatti le pratiche del Diario potevano risultare legittimate da un regime di segretezza, in cui il lettore svolge pur sempre il ruolo clandestino dell’intruso, sulla scena pubblica del romanzo il narcisismo, dopo aver celebrato il proprio trionfo dietro una serie di false scommesse, perde ogni giustificazione: col risultato che il lettore - a cui, in un primo momento, erano stati garantiti tutti i piaceri che possono derivare da raffinate operazioni di ingegneria romanzesca - si ritrova ad occupare la posizione dell’involontario voyeur, ingannevolmente invitato a presenziare al dramma dei piaceri - unilaterali e senza meta - inscenato da sua maestà l’io.
Non si tratta però, a questo punto, di biasimare gli stratagemmi con cui Constant è riuscito a contrabbandare la propria immagine sotto mentite spoglie: perché i lettori, pur essendo costretti ad occupare una scomoda posizione, non hanno affatto disdegnato di rivestirla, continuando a rileggere il romanzo e addirittura esaltandolo come uno dei grandi libri della letteratura dell’Ottocento. Si tratta piuttosto di chiedersi se le cose potevano andare diversamente.
«Spero che nel finale della Musa» - scriveva Balzac a Madame Hanska nel 1843 - «si vedrà il soggetto di Adolphe trattato dalla parte del reale». Se infatti è vero che Étienne e Dinah, protagonisti della Musa del dipartimento, possono essere dichiarati eredi di Adolphe ed Ellénore, è vero anche che l’avventura del loro disamore è inserita in una costruzione di ampio respiro, dove il narratore - che parla in terza persona e, grazie alla sua «onniscienza», può svelarci i pensieri segreti di ciascun personaggio - riesce a giustificare sotto i nostri occhi i moventi delle passioni, a spogliarle del senso di egotistica gratuità e a collocarle, a forza di dettagli presi in prestito dal «reale», in uno scenario meravigliosamente verosimile, in grado di coinvolgere le dinamiche sociali della capitale con quelle della vita di provincia.
A queste condizioni, il soggetto di Adolphe continua pur sempre ad essere uno di quei fatti - dirà Bianchon, uno dei personaggi della Musa - «della vita reale» che «si adagiano nei libri», o al più - come ribadirà lo stesso Étienne - una di quelle «tragicommedie» che sul palcoscenico della vita «si recitano a tutte le ore». Eppure, messo di fronte allo stesso spettacolo da un nuovo punto di vista, il lettore non si troverà più a disagio: i suoi contratti col mondo della finzione saranno sostenuti dalle leggi di una Comédie humaine in cui «tout se tient»; e il romanzo, sbarazzatosi dal canto suo - con una mossa liberatoria - delle inutili zavorre dell’io, verrà coinvolto in una nuova entusiasmante missione: potrà addirittura sperare di «far concorrenza allo stato civile».
«Non sono un essere reale»
«Che diverrà mai questo io» - scrive Constant nel Novembre del 1828 alla cugina Rosalie - «e che vi sarà mai in comune fra questo io e ciò che poi lascerò di me?» Per offrire una risposta basterebbe radunare i materiali autobiografici in cui Constant ha ossessivamente disseminato il proprio autoritratto: della sua nutrita corrispondenza sono disponibili, in traduzione italiana, le lettere indirizzate tra il 1814 e il 1816 a Juliette Recamier (nel volume La porta chiusa, Serra e Riva Editori, 1982) e una selezione delle lettere a Madame de Charriere, che accompagna il Quaderno rosso (tradotto sotto il titolo La mia vita, da Laura Este Bellini, per Adelphi, nel 1998); per i Diari si può invece ricorrere alla versione approntata da Paolo Serini, per Einaudi, nel 1969. Affiancare questi scritti e portare a collisione le loro differenti tecniche narrative significa anche provocare ripetuti cortocircuiti fra verità diverse, dettate da una personalità che non esita a mascherarsi dietro le costruzioni artificiali del linguaggio autobiografico: «Ho ottime qualità: fierezza, generosità, devozione» - ci ricorda del resto Constant in un appunto del 1804 - «ma non sono affatto un essere reale».
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