Gli affari di Ciancio, di C. Fava e R. Orioles (1984)

di Salvatore Mica - martedì 1 marzo 2005 - 7622 letture

Da http://www.claudiofava.it/siciliani/memoria/info/info02.htm

da "I Siciliani", maggio 1984

’"Se quanto detto è vero, gli interpellanti chiedono di sapere quali provvedimenti il Governo intende adottare al fine di fare piena luce sulla incresciosa situazione, salvaguardare la libertà di stampa in Sicilia da condizionamenti mafiosi, acclarare la condizione patrimoniale dei predetti personaggi...".

L’interpellanza - quello che vi abbiamo proposto è uno dei momenti di sintesi conclusiva - è datata 23 marzo 1984 e porta la firma di due senatori socialisti (demartiniani), il calabrese Salvatore Frasca ed il siciliano Franco Greco. Il testo, sul quale la Presidenza del Consiglio dei Ministri (a cui è stata indirizzata l’interpellanza) deve ancora pronunciarsi, è un’analisi puntuale e particolareggiata della stampa siciliana. O meglio, dei gruppi di potere editoriali che si sono aggregati attorno alle principali testate siciliane e che, dalla Sicilia, stanno muovendo alla conquista di spazi sempre più ampi. I dati che emergono da questa interpellanza, e che prima ancora si coglievano in alcune spericolate manovre editoriali che non potevano passare inosservate, sono inquietanti. Soprattutto se letti nello spirito della recente legge sull’editoria: una normativa che mira ad evitare concentrazioni editoriali di tipo oligopolistico nella gestione dei massmedia ma che vuole garantire soprattutto un’assoluta, inequivocabile trasparenza nella proprietà dei giornali.

E proprio sulla composizione dei pacchetti azionari dei maggiori quotidiani siciliani esiste oggi un clima di pericolosa incertezza. In Sicilia i tre quotidiani del mattino, gli unici rimasti sulla piazza dopo le sfortunate vicende del Diario e del Giornale del Sud, si trovano a gestire l’informazione su nove provincie - senza alcuna concorrenza "esterna" e con una precisa delimitazione delle rispettive aree di influenza - in una situazione di oggettivo monopolio. E’ chiaro che l’ipotesi di ritrovarsi, fra qualche anno (o fra poche settimane) un trust editoriale ancora più compatto ed omogeneo, cioè una diversità solo apparente (dal punto di vista editoriale) fra le tre testate, è un’ipotesi di estremo rischio per la sopravvivenza di un autentico pluralismo dell’informazione in Sicilia.

L’interrogazione al Senato, in questo senso, fornisce lo spunto per approfondire l’argomento. I quesiti di fondo - a cui cercheremo di rispondere nel corso del servizio - sono essenzialmente due: chi controlla oggi la stampa in Sicilia? E che ruolo svolge questo gioco di partecipazioni editoriali incrociate sulla qualità del prodotto giornalistico?

Anzitutto il Giornale di Sicilia, principale quotidiano del mattino in Sicilia per antiche tradizioni (fu fondato nel 1860 da Girolamo Ardizzone) e per diffusione. In redazione una cinquantina di giornalisti, dieci capi-servizio ed un gruppetto di praticanti freschi d’assunzione; molti professionisti, soprattutto in cronaca, provengono da una militanza più o meno lunga nell’Ora, il quotidiano palermitano della sera. La testata appartiene da sempre alla famiglia Ardizzone-Pirri, ed è lo stesso Antonio Ardizzone che dal dicembre di due anni fa - conformandosi ad una singolare consuetudine in voga nei giornali siciliani - ha deciso di assumere personalmente la direzione del Giornale di Sicilia, mettendo fine alla breve parentesi di Fausto De Luca. Un direttore, De Luca, che si era dimostrato poco malleabile e troppo irriverente. E non solo nei confronti dell’editore; e, cosa ancor più grave, proprio nel delicatissimo periodo seguito all’assassinio del generale Dalla Chiesa.

Da alcuni anni, comunque, la supremazia della famiglia Ardizzone all’interno del Giornale di Sicilia non è più così indiscussa: l’editore-direttore possiede ancora il 68% delle azioni ed un altro sedici per cento è rimasto saldamente in mano ad un’altra famiglia palermitana tradizionalmente legata agli Ardizzone, ma un buon 16% è approdato - per la prima volta nella storia del quotidiano palermitano - a Catania. Se lo sono aggiudicato, nel 1981, l’editore Mario Ciancio, proprietario de La Sicilia, ed il costruttore Carmelo Costanzo (che, insieme al proprio otto per cento, ha ottenuto anche un posto in Consiglio di Amministrazione). Costo dell’operazione, circa un miliardo e mezzo; un prezzo equo per un investimento redditizio, visto che il Giornale di Sicilia è uno dei pochi quotidiani italiani a chiudere i propri bilanci in attivo ogni anno.

Se le motivazioni dell’investimento possono apparire sufficientemente chiare per Mario Ciancio, editore per mestiere, non altrettanto immediatamente intuibili sono quelle del cavaliere Costanzo. Almeno in apparenza. In realtà, una presenza economicamente determinante (ed in significativa compagnia) nella proprietà dell’unico quotidiano del mattino della Sicilia Occidentale è un’importante carta di credito che un imprenditore "d’assalto" come Costanzo sapeva di poter utilizzare in più d’una occasione.

Non a caso proprio nella primavera del 1981 (quando il cavaliere entra nel Giornale di Sicilia) prende corpo il progetto di un consorzio fra i quattro maggiori costruttori catanesi (Costanzo, Rendo, Graci e Finocchiaro) e le famiglie dei Cassina e dei D’Agostino, i più facoltosi imprenditori palermitani. Costanzo e gli altri cavalieri coltivano ambiziosi progetti nel palermitano e nel trapanese, mirano ad alcune lucrose commesse pubbliche, e per qualcuno di loro poter contare - nella scalata agli appalti del comune e della Regione sull’appoggio (o comunque sul cauto silenzio) della stampa locale diventa un fatto determinante.

Una ricerca universitaria ("Economia e potere mafioso in Sicilia") curata da Mario Centorrino ed Emanuele Sgroi, due docenti della facoltà di scienze politiche dell’Università di Messina, suggerisce un’analisi più articolata: "Decidendo di mettere radici a Palermo, il Cavaliere ha certamente valutato le circostanze. Sa bene che un imprenditore edile a Palermo deve fare i conti anche con la mafia che controlla i cantieri, con le guardianie e con le bombe, con chi controlla i trasporti, i sub-appalti e le forniture, impone il "pizzo", interviene nell’assegnazione degli appalti sostenendo una concorrenza violenta e illegale, condiziona ambienti politici e burocratici. A tutto questo, Costanzo oppone la sua filosofia, un pragmatismo spregiudicato fino al cinismo: "La mafia c’è e tutti gli imprenditori siciliani sono costretti a sopportarla, a fare i conti con lei. Saltano le ruspe, bruciano i cantieri, non possiamo negarlo. Ma gli imprenditori cosa debbono fare? Gli eroi? La lotta antimafia per conto loro? (cfr. Panorama, 4 ottobre 1982, a pag.213)" .

Ed ancora: "Costanzo non si fa scrupoli nel mischiare politica ed affari. "Oggi tutti i partiti - dice il costruttore - trattano di affari, di appalti pubblici, di commesse: questo vuol dire che tutti i partiti sono mafiosi? Diciamo che questo è il sistema, e che l’imprenditore non può certo cambiarlo".

E’ in questo clima, e con questi presupposti, che matura l’operazione editoriale che vede significativamente affiancati Costanzo e Ciancio. "Sorretto da queste convinzioni - si sottolinea nella ricerca universitaria - Costanzo concorre ai più appetitosi appalti, aspira ai lavori di risanamento dei quattro mandamenti (una torta di oltre mille miliardi tutta ancora da dividere), si destreggia nei contatti politici, entra in una combinazione che dovrebbe legittimare ed esaltare la sua presenza a Palermo". E questa "combinazione", probabilmente, passa anche per il consiglio d’amministrazione del Giornale di Sicilia.

Se la presenza di Costanzo nel Giornale di Sicilia è palese, meno evidente - ma piuttosto probabile - è l’ingresso, in tempi recenti, di altri cospicui capitali nel quotidiano palermitano. E le ipotesi che sull’origine di questi capitali si avanzano conducono tutte, inevitabilmente, ai Salvo, i potenti esattori di Salemi. Sono in molti, anche all’interno della redazione del Giornale di Sicilia, a ritenere certa la presenza dei Salvo - sia pure abilmente filtrata - fra gli azionisti del quotidiano. Anzitutto, si fa notare, la linea del giornale nei confronti dei tre cugini è decisamente più morbida rispetto alla breve gestione di De Luca: oggi si privilegiano titoli contenuti e aggettivi misurati. Ma più ancora che le circospezioni nei confronti dei Salvo, tradizionali nella storia della testata palermitana, l’ingresso degli esattori nel pacchetto azionario del Giornale di Sicilia viene collegato ad una politica di rilancio in cui sembra siano stati investiti capitali piuttosto considerevoli. Anzitutto il rimodernamento della tipografia: messe da parte linotype e piombo, oggi il giornale si stampa "a freddo", interamente in offset. Ed ancora, l’area di diffusione del Giornale di Sicilia è stata allargata a sette province siciliane su nove, sono raddoppiate le pagine dedicate alle province di Agrigento, Trapani e Caltanissetta ed è in cantiere il raddoppio anche per le altre due edizioni, quelle di Messina e di Ragusa-Enna. Le assunzioni, infine. Molte, concentrate soprattutto negli ultimi mesi, un discreto pacchetto di praticanti iscritti all’Albo a cavallo fra l’83 e l’84. Sintomo di vitalità.

Le vicende editoriali ed il traumatico cambiamento di direttore hanno finito per pesare sul rapporto fra proprietà e redazione. Gli ultimi mesi sono stati contraddistinti da un confronto serrato, spesso vissuto sul filo di mozioni ed assemblee. Una delle ultime ha sortito un documento approvato all’unanimità (lo pubblichiamo più avanti) con cui l’assemblea esprimeva "il proprio disagio ed il proprio malessere" per le eccessive "cautele" nella fattura del giornale e per alcuni "perversi circuiti di autocensura" che si rischia di innescare.

La reazione del direttore-editore è immediata. Ardizzone convoca, uno per uno, i dieci capi-servizio: se il documento è approvato da tutti, dice ad ognuno di loro, c’è anche la tua personale adesione; ed allora, poiché è un documento di aperta sfiducia nei confronti della direzione, o ti dissoci dall’assemblea oppure ti dimetti. Nuova assemblea di redazione, ma la reazione di Ardizzone - troppo violenta per poter essere prevista - ha colto tutti impreparati. Si vota un nuovo documento con il quale si chiariscono le intenzioni del precedente, si spiega che il rapporto fiduciario con la direzione non è in discussione, si auspica... etc. etc. Laconica risposta del direttore: volevo querelarvi, per stavolta lasciamo perdere.

E veniamo alla Sicilia di Catania, il quotidiano edito (e diretto) da Mario Ciancio, una diffusione dichiarata di 60.000 copie giornaliere per sei edizioni (il giornale ha cinque ribattute per le provincie di Siracusa, Ragusa, Enna, Agrigento e Caltanissetta). "Se è vero che il signor Mario Ciancio, noto come persona di fiducia del Costanzo è proprietario del giornale "La Sicilia " di Catania..." chiedono al Presidente del Consiglio dei Ministri, nella loro interpellanza, i due senatori; il riferimento più immediato è all’operazione Giornale di Sicilia che l’editore ed il cavaliere hanno condotto assieme, ma il tono della domanda tradisce altri dubbi. Dubbi sull’autentica paternità dell’altra clamorosa operazione editoriale avviata da Mario Ciancio nel 1981: l’acquisto del 3% delle azioni dell’Editoriale Espresso-La Repubblica, per un valore - si afferma nell’interpellanza - di trecento milioni di lire. Il contratto, si sottolinea, risale allo stesso periodo in cui Costanzo e Ciancio acquistarono il 16% del Giornale di Sicilia: è probabile che questo binomio si sia riproposto anche nella scalata ad uno dei più prestigiosi gruppi editoriali italiani.

Un investimento particolarmente significativo anche perché proietta autorevolmente l’editore catanese fuori dai suoi tradizionali confini - se poi, a queste due operazioni (Giornale di Sicilia ed Espresso) si aggiungono il recente ingresso di Ciancio nel pacchetto azionario dell’altro quotidiano siciliano, la Gazzetta del Sud (di cui parleremo più avanti), la proprietà dell’Espresso Sera, l’unico quotidiano del pomeriggio nella Sicilia Orientale, e di Antenna Sicilia, l’emittente televisiva siciliana con i più alti indici di ascolto, si ha l’esatta misura dei livelli di concentrazione editoriale raggiunti dal gruppo Ciancio in Sicilia.

La nascita di questo trust dell’editoria ha provocato notevole turbamento anche nell’ambiente politico siciliano: una eccessiva concentrazione di potere attorno all’editore catanese (ed all’imprenditoria catanese che in questo editore perfettamente si riconosce) non è gradita a tutti, minaccia gli equilibri politici ed economici faticosamente ricomposti, crea un pericoloso trampolino di lancio a disposizione di alcuni gruppi di potere verso l’altra parte dell’Isola. Tra le reazioni più dure che registrano le cronache, c’è anche una denunzia presentata da un parlamentare siciliano alla Commissione Antimafia. L’esposto, che trae lo spunto dall’interpellanza al Senato, suggerisce una "rilettura" dei redditi dichiarati al fisco e degli investimenti fatti da Mario Ciancio negli anni immediatamente precedenti all’operazione Giornale di Sicilia-Espresso: "Ciancio - è scritto nell’esposto - denuncia, negli anni che vanno dal 1974 al 1980, redditi che sono irrisori rispetto alla sua consistenza patrimoniale ed agli acquisti che va facendo proprio negli anni stessi. Nel 1974 il suo reddito netto dichiarato è di 28.039.000 lire. Ma già nel 1951 egli acquista a Lentini otto ettari di agrumeto per un valore di 300 milioni. Nel periodo 1957-1963, sempre a Lentini, acquista ventidue ettari di agrumeto per un valore di 800 milioni. Altri 300 milioni valgono dieci ettari di agrumeto acquistati nel 1965 a Centuripe, in provincia di Enna; 150 per cinque ettari di pistacchio, acquistati sempre nel 1965 ad Adrano (Catania) Il 1965 è senza dubbio un anno di pochi redditi ma di grandi investimenti, perché altri 120 milioni valgono dodici ettari di castagneto acquistato a Biancavilla. Nel 1971 acquista a Lentini ventuno ettari di agrumeto del valore di 800 milioni e nel 1972, a Catania, acquista quasi quattordici ettari di agrumeto il cui valore è di 600 milioni).

"I redditi dichiarati da Ciancio - si legge ancora nella Memoria presentata all’Antimafia - nel 1975 scendono, però, a 18.192.000, per risalire a 36.913.000 nel ’76. Vien fatto solo di chiedersi come egli nello stesso anno 1976 abbia potuto acquistare ad Adrano tre ettari di agrumeto il cui valore è di 120 milioni. E’ da notare inoltre che nel 1974 è in corso di trasformazione in agrumeto una estensione di trenta ettari situati in contrada Bonaccorso di Catania, di cui Ciancio è comproprietario per un terzo ed il cui valore, prima della trasformazione, era di 750 milioni. Il 1976 è senza dubbio un anno fortunato per Ciancio che, nonostante la modestia dei suoi redditi dichiarati, può acquistare ventuno ettari di terreno seminativo a Biancavilla, terreno che ha un valore di 100 milioni e tre ettari di agrumeto a Centuripe del valore di 120 milioni. Il reddito netto dichiarato, nel 1977, è di 92.580.000; nel ’78 di 68.957.000; nel ’79 di 50.364.000; nell’80 di 89.751.000...".

Il terzo quotidiano del mattino siciliano è la Gazzetta del Sud di Messina, unica testata locale non solo del messinese ma anche della Calabria; quasi assente al di fuori di queste quattro province, all’interno di esse è praticamente l’unico quotidiano venduto. Da un anno circa il giornale si è ammodernato tecnologicamente passando dalla stampa a piombo alla fotocomposizione e ciò gli ha permesso, riducendo i tempi di produzione, di sfruttare ancor meglio la capillare rete di distribuzione di cui dispone nelle quattro provincie in cui è diffuso.

Principale azionista, e per circa trent’anni unico proprietario, ne è l’industriale della molitoria Umberto Bonino, un ex-ufficiale di marina datosi poi all’imprenditoria nel dopoguerra: cavaliere del lavoro ma - in Sicilia la precisazione va fatta...- non sfiorato da sospetti di collegamenti mafiosi. Gestita con criteri paternalistici (la prima assemblea di redazione si è avuta l’anno scorso; in compenso le ricorrenze aziendali vengono festeggiate convivialmente insieme da editore, giornalisti a maestranze) la testata ha seguito nel tempo gli spostamenti politici - dai monarchici all’area liberale, dalla destra alla Democrazia Cristiana - dell’editore, saldamente legato agli interessi e alla cultura del notabilato moderato locale. Il direttore, l’ex-senatore democristiano Nino Calarco, è da oltre vent’anni nel giornale ed è considerato un fedelissimo dell’editore. Difficile immaginare un giornale locale più "tipico", nel bene e nel male, della Gazzetta. Anche qui, peraltro, sono arrivati i tempi nuovi. Da una decina di anni, infatti, il quindici per cento del pacchetto azionario della società editrice del giornale, la S.E.S., è al di fuori del controllo di Bonino. Negli anni Settanta socio di minoranza è stato l’industriale petrolifero (nel messinese ha sede una delle principali raffinerie europee) Rovelli, prima attraverso la società "Messapia" e poi mediante la holding svizzera "Malachia". Caduto Rovelli, una legge dello Stato istituisce, nel 1980, un comitato di liquidazione col compito di chiudere le attività delle varie società del gruppo, fra cui quelle editoriali; alcune società di Rovelli riescono tuttavia, in maniera ancora non chiara, a rimanere in funzione. Si giunge così al 1983: improvvisamente, si viene a sapere, quel quindici per cento della S.E.S. che apparteneva a Rovelli è stato appena acquistato, per ottocentocinquanta milioni, dall’editore catanese Mario Ciancio.

Il fatto suscita durissime reazioni di Bonino che, come socio di maggioranza della S.E.S., si era a suo tempo riservato il diritto di opzione sul pacchetto di minoranza; il messinese porta immediatamente il caso davanti alla magistratura, cercando di far invalidare l’acquisto da parte di Ciancio, e nel frattempo cerca in tutti i modi di limitare al massimo l’influenza del nuovo acquirente nella gestione della società: la notizia dell’arresto del catanese Antonino Santapaola, esponente di una Famiglia mafiosa molto bene introdotta negli ambienti industriali catanesi viene data - per esempio - con puntualità dal quotidiano messinese, unico fra le grandi testate isolane; più di recente, Bonino dà ampio risalto sulla Guzzetta alla notizia dell’accordo intervenuto fra i gruppi editoriali catanesi (Ciancio, Costanzo e Rendo) con quelli che fanno capo ad alcune grandi testate nazionali. Insomma, la Gazzetta si trova a rappresentare - più o meno spontaneamente - l’ultima sacca di resistenza, fra i grandi quotidiani siciliani, all’"invasione" dei chiacchierati editori catanesi: in un momento fra l’altro, in cui a Messina si prepara il decennio degli appalti multimiliardari del Ponte.

Il Ponte, gli appalti di Palermo e quelli della Regione, i contributi degli assessorati... I movimenti negli assetti proprietari della stampa siciliana si svolgono sullo sfondo di un giro di centinaia, anzi di migliaia, di miliardi assegnati e da assegnare. Difficile pensare che la scalata al "quarto potere", in Sicilia come altrove, possa prescindere da essi. Perché scandalizzarsene, in fondo? "Comprati e venduti" è stata, ed è tuttora, la sorte di giornali ben più importanti dei nostri, e nessuno se n’è meravigliato eccessivamente: sono "le regole del mercato".

Solo che in Sicilia c’è anche la mafia’.

Claudio Fava Riccardo Orioles


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