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Da Elias Canetti un pensiero per immagini / di Paulo Barone

A cent’anni dalla nascita un ritratto dello scrittore la cui qualità più significativa andrebbe rintracciata nel dolore privo di rassegnazione che si sprigiona dalla sua opera.
di Redazione Antenati - domenica 11 settembre 2005 - 13507 letture

A cent’anni dalla nascita un ritratto dello scrittore la cui qualità più significativa andrebbe rintracciata nel dolore privo di rassegnazione che si sprigiona dalla sua opera. E per conoscere la natura dei suoi aculei si rivela prezioso il saggio dell’iraniano Youssef Ishaghpour, uscito ieri da Bollati Boringhieri con il titolo Canetti. Metamorfosi e identità

PAULO BARONE, Il Manifesto 4 settembre 2005

Il 25 luglio del 1905 nasceva a Ruse in Bulgaria Elias Canetti: personalità complessa, tormentata, struggente ed emblematica di questo secolo (quel `900 che, non a caso, egli si ripromise di «afferrare alla gola»). Figura europea nel vero senso del termine (per l’origine ebraica, per gli svariati paesi di provenienza - dalla Spagna alla Turchia - per quelli altrettanto numerosi di residenza, dall’Inghilterra all’Austria, dalla Germania alla Svizzera, per le molteplici lingue ascoltate, parlate e «salvate»). Autore d’elezione, infine, in cui un’unica linea sembra collegare le precoci frequentazioni con quei giganti di Karl Kraus, Robert Musil, Hermann Broch e il premio Nobel per la letteratura assegnatogli nel 1981. Il centenario della nascita appena trascorso - e le immancabili celebrazioni che ne sono seguite - non ha fatto altro che confermare, in fondo, l’indubbia notorietà di Canetti e il rispetto indiscusso di cui godono i suoi scritti. Parlarne, come spesso capita, pare un atto dovuto, quasi scontato. Eppure si tratta di un autore letteralmente spinoso. A cominciare dalla sua produzione. Egli ha scritto, a ben vedere, un solo romanzo, Auto da fè nell’edizione italiana (significativamente, die Blendung, l’accecamento, in quella originale) a ventisei anni (ma rimasto senza editore per altri quattro). È autore di una sola grande opera dai confini disciplinari indecifrabili, Massa e potere - che lo tenne impegnato, assorbendolo quasi del tutto, per circa trentacinque anni sino al 1960, data della sua pubblicazione - e di una lunga autobiografia, articolata in tre volumi, La lingua salvata, Il frutto del fuoco, Il gioco degli occhi, edita tra il 1977 e il 1985, che comincia dal suo «più lontano ricordo» e si conclude con la morte della madre. Completano il quadro pochi testi teatrali, una serie di Appunti, un diario di viaggio, Le voci di Marrakech, e una mirabile raccolta di saggi tra cui spiccano quelli su Kafka, Büchner, Broch e Kraus. Ebbene, a parte questi ultimi, ciascun lavoro del trittico principale sembra fatto apposta per escludere gli altri due e per dividere in fazioni contrapposte i lettori corrispettivi. Chi amerà Auto da fè, per esempio - storia grottesca, crudele e senza appello di un collezionista di libri che crede di poter identificare il sapere con la verità della realtà e che finisce col rogo della biblioteca - difficilmente potrà conciliarsi con l’atmosfera redentrice e compassionevole che domina invece nell’autobiografia. Chi avrà privilegiato la poderosa struttura di Massa e potere, la diade che passa a contropelo il piumaggio della modernità, difficilmente sarà attratto dall’impianto letterario presente nel romanzo e nell’autobiografia se non allo scopo di rintracciarvi qualche antecedente o qualche tesi travestita e abbellita per l’occasione. È il caso di dire che si scorpora l’opera di Canetti per ridurne l’aspro? Non di rado, poi, simili letture parcellari credono di recuperare un certo equilibrio appoggiandosi alle idee di fondo di Canetti, come se queste assicurassero una base stabile e sicura e dunque una pronta visione d’insieme.

Le sue mirabili ossessioni

Naturalmente i motivi ispiratori di Canetti sono delle autentiche e magnifiche ossessioni dalle quali non ha mai receduto nemmeno di un millimetro, qualunque fosse il costo da pagare. Ne è un esempio il suo sistematico rifiuto della morte, ben custodita invece nel cuore di ogni sopravvivenza. In quell’attimo in cui un uomo sopravvive ad un altro ecco palesarsi l’essenza stessa del potere. Questa miscela infausta di potere e accettazione della morte non permea e infetta paradossalmente ciascuno di noi viventi che sopravviviamo? Non c’è forse un continuum di potere che collega il normale sopravvivere ai propri morti sino al tiranno paranoico che sopravvive a tutti i cadaveri, che impone loro una determinata unità, una certa identità? Dall’altro lato, riscontriamo l’attenzione di Canetti alla «massa», nozione altrettanto ambigua, senz’altro imparentata a quella di potere, sempre più all’ordine del giorno nel momento in cui gli individui sono costretti a vivere, come oggi, difensivamente, da assediati, irrigidendo oltremodo la loro presunta personalità. Ebbene, la massa finisce col rappresentare per Canetti (anche) una liberazione inebriante, un’uscita da sé, un’espansione e un’intensificazione dell’esistenza. È qui che la `fobia del contatto’ si scarica, che la postura incartapecorita e gerarchizzata entra in una benefica indifferenziazione, che l’uno cede il posto al molteplice. Con ciò la massa serba in sé la possibilità di metamorfosi, il solo modo di sfuggire il potere tipico del poeta, del suo quasi impossibile ’mestiere’, la sola alternativa di sopravvivere de-potenziati.

Morte, sopravvivenza, potere, massa e metamorfosi formano così gli ingredienti base del discorso di Canetti. Ma è sufficiente questo peraltro scarno e fisso elenco, anche se ubiquitario, per dire di averne inquadrato il pensiero? Non dovrebbe essere, al contrario, un banco di prova, l’apertura di un varco, o meglio ancora una pura cornice di riferimento, una meridiana, nei cui paraggi accingersi a saggiare direttamente il tenore delle cose? La spinosità di Canetti - il vero e proprio dolore privo di rassegnazione che sovente egli produce alla lettura - andrebbe considerata insomma la sua più importante prerogativa.

L’uscita di uno studio esemplare

Un saggio di Youssef Ishaghpour del 1990, Elias Canetti. Metamorfosi e identità, uscito ieri da Bollati Boringhieri, si rivela davvero prezioso in questa conta e salvaguardia degli aculei. Non si tratta semplicemente di uno studio accurato e diligente. La bella postfazione di Andrea Borsari ci racconta con precisione la sua particolarità. Tanto per cominciare Ishaghpour - che è un iraniano di famiglia ebraica trasferitosi ben presto in Francia dove oggi insegna - si avvicina a Canetti sulla scia di una lunga serie di studi sulla storia e la teoria del cinema (Welles, Godard, Ozu, Kiarostami, Ray ecc.), sulla pittura (Morandi, Rauschenberg, Rothko, de Stael ecc.) e sulla filosofia del `900 (Goldmann, Nizan, ma anche Adorno, Benjamin, Sartre). Lo assilla, manco a dirlo, la questione centrale dell’immagine - il «nostro legame magico-mimetico col mondo e il nostro mezzo per conoscerlo», quel qualcosa `a metà’ tra la sensibilità e il concetto - l’idea che, pur nell’epoca della sua inflazione audiovisiva, essa offra ancora una chance per una diversa forma di comprensione delle cose.

Lo stesso Canetti, a sua volta, compì un piccolo percorso di avvicinamento a Ishaghpour. Oltre a condividere il comune «motivo orientale», Canetti riconobbe esplicitamente la bontà d’impianto del saggio di Ishaghpour che lo riguarda, il linguaggio non specialistico, lo sguardo d’insieme, certe interpretazioni inattese e sorprendenti, la lettura minuziosa. «In futuro - scriverà Canetti nel 1992 a Ishaghpour - per dar conto di queste cose, ci si dovrà richiamare sempre a Lei». Questo saggio, insomma, mentre ne ricostruisce l’opera complessiva, tocca alcune corde profonde del lavoro di Canetti ed esprime una certa loro consonanza di fondo. Una di tali corde è costituita senz’altro, come dicevo, dalla nervatura e dall’ispirazione immaginale della sua scrittura. La mortifera tendenza a ’sopravvivere’ a spese degli altri ha un suo preciso corrispettivo nelle pratiche discorsive che puntano a sistematizzare concettualmente la realtà. Quello che si esercita attraverso i concetti è un uso paranoicale della conoscenza: mentre astrae, universalizza e definisce esso anche smembra, riduce e impoverisce la varietà eterogenea delle cose. Ne teme il `contatto’, il peso, l’assoluta enigmaticità, la refrattarietà all’ordine e all’organizzazione, la sfuggenza dalle identificazioni, la resistenza al potere. Questo timore caratterizza non soltanto la conoscenza scientifica e filosofica in senso stretto, ma molti tratti della cultura in generale e dei suoi funzionari, che spingono a puntare verso il lontano e l’ignoto, sviando dal prossimo e dal concreto, dal pericolo che essi rappresentano. E mirano all’uno, all’identico, alla totalizzazione e al metodo più o meno implicati nella presa concettuale, mentre per amore del molteplice, del contingente e della metamorfosi che in quella presa soccombono Canetti privilegia appunto l’immagine. È chiaro che se l’immagine fosse il semplice contrario del concetto Canetti non avrebbe fatto nemmeno un passo più in là. Ma qui - puntualizza bene Ishaghpour - essa non allude all’imitazione di una realtà data, non ha niente a che spartire con l’empatia, con l’immedesimazione o con un’impressionismo arbitrario. L’immagine possiede una natura rigorosamente intermedia, mediale. Disarticola l’univocità della concatenazione concettuale, ma non per cadere in un’informe dispersività. Per questo - dice Canetti - «quando ci sentiamo sopraffati dal fuggire dell’esperienza ci rivolgiamo a un’immagine»: «ci teniamo stretti a ciò che non muta e così riusciamo a far affiorare ciò che muta perennemente». Per questo «saranno molte»: non «troppe», perché esse devono trattenere la realtà e non dissolverla in mille rivoli; e non un’«unica», perché, se fosse «veritiera», l’immagine schiaccerebbe chiunque nell’orrore e lo soffocherebbe per sempre. Per questo non possono essere un’invenzione puramente soggettiva (o una mera protuberanza oggettiva), ma devono esistere «al di fuori», pronte a ridestarsi per noi, grazie a noi, nel momento del pericolo. «Sono -dunque - molte le immagini di cui abbiamo bisogno, se vogliamo una vita nostra, e se le troviamo presto, non troppo di noi andrà perduto».

Quel che basta a diventare altro da sé

Ad ogni angolo il materialismo immaginale di Canetti batte gli interstizi e privilegia le oscillazioni infinitesimali: per non perdere il molteplice non occorrono né massa né potere, né identità né metamorfosi, ma la loro tremolante e fuggevole coesistenza. Essere se stessi, con una propria identità solo quel tanto che basta per diventare altro. La predilezione accordata all’immagine getta così una certa luce sul perché, prima dell’intervento di Broch, il titolo di Auto da fè (o di die Blendung) fosse Kant prende fuoco. Insieme a Kant, per Canetti, vanno dati al fuoco la Storia, il concetto, il potere, l’individualismo. E chiarisce anche il perché Massa e potere sia «composto di paragrafi all’indicativo e chiusi in se stessi», discontinuamente, e non come un libro di filosofia, antropologia, psicologia o scienza delle religioni: ciascun accadimento è infatti una monade e non «un insieme di relazioni esterne» o un «momento all’interno di un divenire dialettico». L’immagine concepita da Canetti rivela così notevoli affinità con l’immagine-dialettica di Benjamin, con la sintesi disgiuntiva di Deleuze, con la `logica della disgregazione’ di Adorno, con tutte quelle forme di pensiero, cioè, che sanno giungere alla condizione irrunciabilmente contraddittoria e paradossale delle cose e scegliere di istallarsi in essa senza paura, accettando i rischi che questa risicata residenza comporta. Di qui la realtà sembra fatta solo da margini, da `filamenti’ sottili. E infatti, non a caso, il mestiere dello scrittore, se vorrà provare a spendere in modo poetico la sua sopravvivenza, contro il potere in essa stessa contenuto, non potrà avere occhi - come Canetti aveva ben appreso da Kafka - che per le vite marginali, insignificanti, fragili, infinitamente piccole, quasi nulle. Pensare per immagini implica una spasmodica attenzione ai respiri, ai dettagli, alle sfumature delle cose. Ma anche una inflessibile disciplina ascetica: occorre sottrarsi alle onorificenze, alla celebrità, alla tirannia della propria identità, alla servitù di dire e pensare sempre la stessa cosa, alla costrizione di mantenere una propria `coerenza spirituale’. «L’uomo migliore non dovrebbe avere nome».

Proprio l’asprezza e la durezza necessarie a questa disciplina ci permettono di parlare della seconda corda profonda toccata nel saggio di Ishaghpour. Si tratta del `motivo orientale’. Canetti lo cita scrivendo all’autore, probabilmente in riferimento alla comune origine ebraica. Ma non è tanto questo il punto. In base a quel `motivo’ Canetti sente di essere stato compreso e «creduto» da Ishaghpour riguardo a tre nodi essenziali: il significato delle Voci di Marrakech, l’esistenza effetiva del dottor Sonne, il valore dell’autobiografia.

Ebbene, cosa contiene di decisivo il resoconto da Marrakech nella lettura di Ishaghpour? Che il patriarca ebreo marocchino mai visto prima pronunci il nome di Canetti «come se ne conoscesse ciascuna sillaba in virtù di una conoscenza originaria»; che Canetti possa sentirsi coincidere con la piazza del centro di Marrakech. E che cosa rappresenta Sonne? Il poeta che aveva estirpato da sé ogni ambizione poetica, che aveva cessato «di voler essere qualcuno o qualcosa in qualunque ambito possibile» e che `cura’ Canetti togliendogli di dosso la cattiveria e la malvagità di Auto da fè. Sonne gli insegna, nei quattro anni di quotidiana frequentazione, ad accogliere ogni cosa per poterla redimere. «Per lui - dirà Canetti - è importante che in una vita non scompaia niente. Un essere umano porta con sé tutto ciò che ha toccato. Se mai se ne dimentica bisogna ricordarglielo. Non è in gioco l’orgoglio delle origini, che è sempre dubbio. È in gioco la necessità che non sia rinnegato nulla di ciò che si è vissuto». Sonne ’brucia’ la sua `sopravvivenza’, ci rinuncia, ma senza rinnegare nulla, al contrario. L’elemento orientale - una «forma che eccede i dualismi del pensiero occidentale» - finisce con lo sprigionare una serie incrociata di accettazioni, accoglimenti e riconoscimenti decisamente liberatori e distensivi (di cui anche l’autobiografia, con la sua struggente dolcezza, è espressione). Col che non si tratta di alcun recupero di una dimensione arcaica - come temeva, al solito, Adorno, chiamato a parlare di Massa e potere durante una trasmissione radiofonica - dal momento che Canetti non cerca di pacificarsi in alcuna origine sapendo che nessun punto della storia è privo di sopraffazione: egli si sente compreso in quanto esiliato e rimane tale con più determinazione.

Liberare i dettagli

Il motivo orientale assolverebbe dunque al compito di assestare le posizioni di Canetti dotandole di un grado significativo di autonomia e positività. Il pensare per immagini non sarebbe così per sempre vincolato al dispotismo concettuale che combatte, come poteva sembrare, né la disciplina dell’anonimato per sempre inacidita dalla notorietà che rifiuta, né, infine, dettagli e sfumature andrebbero confusi - come spesso capita - con frammenti e particolari, per sempre riconducibili agli ’interi’ da cui provengono. Grazie a quel po’ di pienezza e di felice accoglimento messi in gioco dal motivo orientale, i dettagli delle cose potrebbero andarsene da soli, fuori da quel duello continuo con il loro contrario che, viceversa, li incatenerebbe in eterno. Non è precisamente ciò di cui avremmo assoluto bisogno? Liberare i dettagli dalla battaglia dove sono stati forgiati, ricominciare (a pensare) da loro per combatterla con più efficacia. È così che Canetti ci rimane accanto: «Questa speranza dovrà sgorgare soltanto dalla conoscenza più nera, altrimenti diventerà beffarda superstizione e accelererà la fine, che minaccia sempre più da vicino».


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Da Elias Canetti un pensiero per immagini / di Paulo Barone
4 aprile 2008, di : Benedetta Sofia

Ciao, lo sapevate che Paulo Brone è mio padre? Gli voglio molto bene... Forza papà!!!!!