Un paese diviso in corporazioni, fazioni e localismi

Persiste nel nostro paese la sindrome della cura del proprio orto a discapito dell’interesse collettivo

di Emanuele G. - lunedì 10 ottobre 2011 - 2048 letture

Gli anni che l’Italia sta passando non sono certo dei migliori. Non bisogna essere un luminare di sociologia per accorgersi di siffatta realtà. Diamo l’impressione di essere un coro polifonico piuttosto di una corale. Facciamo “insieme” mediante l’esaltazione di tutte le nostre caratteristiche parziali. Può essere un vantaggio. Non lo nego. Tuttavia a forza di puntare su ciò che ci differenzia abbiamo perso l’obiettivo centrale. L’interesse collettivo. Dimenticanza da cui discendono i nostri problemi. Che è bene ricordarlo non traggono origine dal passato recente. Il nostro paese è sempre stato pervaso da dinamiche sociali tendenti alla predominanza di interessi di pochi sui molti. Semmai il periodo storico denominato “Seconda Repubblica” ha ulteriormente amplificato il nostro sentire parziale mettendo in quantunque la stessa tenuta dell’Italia.

Che visione traiamo dalla diuturna osservazione delle sue vicende? Quella di un paese diviso in corporazioni, fazioni e localismi. Di tale realtà erano a conoscenza diversi secoli fa Guicciardini e Macchiavelli che rifletterono con sublime maestria sui mali dell’Italia. La situazione non è cambiata nel seguito. Ai giorni d’oggi sembra che si stiamo assistendo a un peggioramento generalizzato. Il crinale che ha accelerato le dinamiche a dividere lo individuo nella famosa protesta dei colletti bianchi della Fiat oramai trent’anni fa. Quale messaggio evidenziò tale evento storico? Una parte della forza lavoro del nostro paese non aveva più una visione generale della realtà. Bensì parziale e tesa al soddisfacimento degli interessi del proprio gruppo di appartenenza sugli altri. Le dinamiche sindacali classiche, al contrario, tendevano a trovare sempre un momento di sintesi. Con sullo sfondo l’interesse del paese nella sua interezza.

Da allora molti equilibri si frantumarono. Andarono in crisi. Si sfaldarono. La società italiana – in breve – assumeva l’aspetto poco gradevole di un insieme di parzialità e non di un insieme. Inizio, dunque, un terremoto carsico che colpì ad uno ad uno le architravi portanti del nostro paese. La politica, ad esempio, pur nella diversità ideologica era sempre riuscita a mantenere un “idem de re sentire”. Un sentire comune. Un sentire comune rivolto al paese preso nel suo insieme e al tutela dell’interesse generale. Non fu più così. I partiti tradizionali cominciarono un lento processo di disfacimento. Disfacimento accelerato anche per via dell’esplosione di inquietanti fenomeni delinquenziali a loro opera. Disfacimento non soltanto dei partiti. Mi riferisco all’insorgere di divisioni nei sindacati e nelle associazione di categoria. Oppure al venir meno della centralità della famiglia e della scuola in qualità di principali agenzie formative del paese. Od ancora un sordo crepitio di rivendicazioni territoriali rivolto all’egoismo localistico.

Gli anni del regno di Berlusconi hanno in modo drammatico acuito quel terremoto carsico i cui momenti iniziali vanno ricercati nella protesta dei colletti bianchi di Torino. Berlusconi ha incarnato una naturale tendenza delle genti italiche al corporativismo, al frazionismo e al localismo. Si è assistito ad un’impressionante mutazione storica. Si sono considerati inutili i valori emersi a seguito della guerra di liberazione contro il Fascismo. Ha avuto inizio un processo tendente alla loro rimozione. L’importante – è il messaggio che è stato fatto passare – è l’interesse personale o di un gruppo. Pertanto, i valori universalistici o le persone responsabili sono state sottoposte a un pubblico ludibrio additandole come esempi negativi. Il messaggio, al contrario, significava che l’interesse di uno, o di pochi, è superiore. E’ l’esempio da seguire. Tutto, allora, diventa lecito. Anzi i comportamenti leciti diventano illeciti nel nuovo credo dell’Italia berlusconiana. E quelli illeciti ci manca poco che siano codificati dalla normativa vigente! L’interesse parziale è finito ad essere il vangelo su cui si è strutturata la storia recente del nostro paese.

La conseguenza più devastante di tutto questo è la demoltiplicazione di tanti credi personalistici o di gruppi. Il cui interesse non è quello di noi tutti, bensì la sua sopravvivenza sic et simpliciter. Tutti questi credi a sé stanti non sono dialoganti fra di loro. Tendono alla prevaricazione dell’uno sull’altro. Sono delle monadi leibniziane non comunicative. Molti gli esempi che la realtà di tutti i giorni ci offre con particolare facondia. Gli ordini professionali, invece, di permettere a quelli che esercitano una professione di esercitarla in piena libertà sono diventati con il passare del tempo strutture gerarchiche poco permeabili al cambiamento. Di fatto ostacolano l’ingresso di nuovi professionisti perché essi – gli ordini professionali – sono più tesi al mantenimento dello status quo. Ciò spiega il fatto che l’ascensore sociale in Italia sia di fatto bloccato. Un altro esempio ci è offerto dalla c.d. “società civile”. Essa dovrebbe essere il luogo del dialogo dove si formano quelle idee di governo di un paese. Non è così. La “società civile” da di sé uno spettacolo miserrimo. Grottesco. Tutti questi associazionismi rassomigliano a tenti credi religiosi che si basano sulla convinzione di detenere la verità assoluta. Quindi, notiamo associazioni che si credono elette. Hanno la pozione magica che risolverà definitivamente i nostri problemi rappresentati dalle Mafie, dalle criticità ambientali e dall’affievolimento dello Stato. Si credono così grandi che non tollerano il dialogo e la critica. Anche loro contribuiscono a rendere l’Italia un paese statico privo di quelle dinamiche che i tempi moderni impongono. Per non parlare del localismo imperante. E’ un localismo che si basa su pseudo conoscenze storiche prive di qualsiasi plausibilità. Tali pseudo conoscenze vengono costruite ad arte per creare una presunta superiorità di una porzione dell’Italia sulle altre. I risultati sono, al dir poco, risibili. Si ammanta un territorio di un particolare valore storico per nascondere una concezione razziale dell’Italia. Concezione che è utile a un disegno di suddivisione dell’integrità territoriale del nostro paese. Il Federalismo immaginato dal Cattaneo – assurto a guida spirituale del neolocalismo razziale italiano (sic!) – si basava, invece, su una concezione storica effettuale. Ossia da una visione storica delle vicende italiane. Visione che rielaborava un concetto di patria non da modelli univoci, ma dalle differenze territoriali che non dovevano entrare in tensione fra di loro. In sintesi, per il Cattaneo i vari territori costituenti l’Italia dovevano dialogare e non ergere valli.

In questi giorni molti parlano di “Terza Repubblica”. Sono d’accordo. La “Seconda” ha rischiato di portare l’Italia alla definitiva rovina. E presumo che gli enormi danni provocati li pagheremo per generazioni. Tuttavia, vorrei fare un’osservazione. Se questa benedetta “Novella Repubblica” non nasce da una visione di sintesi degli interessi di tutti riprodurrà i mali di quella che l’ha preceduta. L’interesse generale, di tutti e collettivo è l’unica vera panacea contro i corporativismi, le faziosità e i localismi. La discussione deve iniziare da questo punto. Se no si eseguiranno cambiamenti “gattopardeschi” all’insegna dell’ipocrisia e della malafede.


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