Ultimo canto di Saffo (1822), di G. Leopardi

di Redazione Antenati - martedì 27 maggio 2003 - 7019 letture

Placida notte, e verecondo raggio

della cadente luna; e tu che spunti

fra la tacita selva in su la rupe,

nunzio del giorno; oh dilettose e care

mentre ignote mi fur l’erinni e il fato,

sembianze agli occhi miei; già non arride

spettacol molle ai disperati affetti.

Noi l’insueto allor gaudio ravviva

quando per l’etra liquido si volve

e per li campi trepidanti il flutto

polveroso de’ Noti, e quando il carro,

grave carro di Giove a noi sul capo,

tonando, il tenebroso aere divide.

Noi per le balze e le profonde valli

natar giova tra’ nembi, e noi la vasta

fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto

fiume alla dubbia sponda

il suono e la vittrice ira dell’onda.

Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella

sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta

infinita beltà parte nessuna

alla misera Saffo i numi e l’empia

sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni

vile, o natura, e grave ospite addetta,

e dispregiata amante, alle vezzose

tue forme il core e le pupille invano

supplichevole intendo. A me non ride

l’aprico margo, e dall’eterea porta

il mattutino albor; me non il canto

de’ colorati augelli, e non de’ faggi

il murmure saluta: e dove all’ombra

degl’inchinati salici dispiega

candido rivo il puro seno, al mio

lubrico piè le flessuose linfe

disdegnando sottragge,

e preme in fuga l’odorate spiagge.

Qual fallo mai, qual sí nefando eccesso

macchiommi anzi il natale, onde sí torvo

il ciel mi fosse e di fortuna il volto?

in che peccai bambina, allor che ignara

di misfatto è la vita, onde poi scemo

di giovanezza, e disfiorato, al fuso

dell’indomita Parca si volvesse

il ferrigno mio stame? Incaute voci

spande il tuo labbro: i destinati eventi

move arcano consiglio. Arcano è tutto,

fuor che il nostro dolor. Negletta prole

nascemmo al pianto, e la ragione in grembo

de’ celesti si posa. Oh cure, oh speme

de’ piú verd’anni! Alle sembianze il Padre,

alle amene sembianze eterno regno

diè nelle genti; e per virili imprese,

per dotta lira o canto,

virtú non luce in disadorno ammanto.

Morremo. Il velo indegno a terra sparto,

rifuggirà l’ignudo animo a Dite,

e il crudo fallo emenderà del cieco

dispensator de’ casi. E tu cui lungo

amore indarno, e lunga fede, e vano

d’implacato desio furor mi strinse,

vivi felice, se felice in terra

visse nato mortal. Me non asperse

del soave licor del doglio avaro

Giove, poi che perír gl’inganni e il sogno

della mia fanciullezza. Ogni piú lieto

giorno di nostra età primo s’invola.

Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra

della gelida morte. Ecco di tante

sperate palme e dilettosi errori,

il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno

han la tenaria Diva,

e l’atra notte, e la silente riva.

(G. Leopardi, Canti, Newton Compton, Roma, l996, pagg. 67-73)


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