Paestum, o della gratitudine

Intervento di Emma Baeri

di Redazione Sherazade - venerdì 12 ottobre 2012 - 3655 letture

Paestum, o della gratitudine

Trascrivo gli appunti del mio intervento al gruppo 3. Avrei voluto parlarne anche alla plenaria di domenica, ma ha prevalso in me la stanchezza, la timidezza, la curiosità per le parole delle altre, o forse anche quel sentimento godurioso di insularità che mi prende tutte le volte che varco la Stretto.

Ho settant’anni, il mio femminismo è nato nel 1975, quando già la prima generazione aveva inventato pratiche politiche dirompenti: l’autocoscienza, la pratica dell’inconscio, il self-help. Alcune stavano per abbandonarle, altre le ritenevano ancora preziose, io cominciavo appena.

Appartengo quindi a quella generazione politica dei secondi anni Settanta che ha scelto di intrecciare emancipazione e liberazione, il dentro dell’autocoscienza con il fuori del conflitto istituzionale, sessualità e diritti. Resto fedele a questo nesso.

Perché ne parlo? Perché il dibattito di Paestum ha messo in luce la presenza di entrambe queste esigenze, in forma nuova, ma non tanto.

Penso che la questione 50/50, ripetutamente sollevata, si collochi tutta dentro la tradizione dell’emancipazionismo, della conquista dei diritti, dall’Ottocento in avanti, fino a noi. Forse le donne di SNOQ avrebbero dovuto pagare questo debito di memoria, e se le lotte per il suffragio sembrano lontane, occorreva e occorre ricordare che negli anni Settanta il Movimento di Liberazione della Donna aveva posto la questione in termini di 50/50 posti di lavoro, e più recentemente l’Udi l’ha riproposta rispetto a tutti i luoghi dove si decide. Purtroppo ( e tutte forse dovremmo reciprocamente tirarci le orecchie) il riconoscimento del lavoro politico delle altre fatica spesso a diventare pratica acquisita: ma anche su questo Paestum ha finalmente aperto orizzonti di libertà, di generosità, di gratitudine.

La proposta 50/50, che ha certamente una forte carica simbolica, è quindi una scelta di emancipazione, come altre fatte dal movimento delle donne, scelte utili tutte, che hanno reso la nostra vita più comoda, di cui il movimento femminista ha ripetutamente segnalato piaceri e inganni, prezzi e medaglie. Ma se una donna ci vuole provare, noi sosterremo il suo desiderio – si è detto; purché – io aggiungo – il suo desiderio si collochi in un contesto in cui sia possibile parlare di autodeterminazione, almeno di questo (legge 194, legge 40).

Chi vive in Sicilia, e voterà il 28 ottobre, fatica a riconoscere questa possibilità in alleanze tra partiti di cui alcuni assolutamente contrari all’autodeterminazione delle donne. Non è una questione marginale questa, ce la ritroveremo alle elezioni nazionali l’anno prossimo. Insomma, se è vero che noi donne siamo antropologicamente “uguali”, è altrettanto vero che siamo tutte politicamente diverse, e questo fa molta differenza. Per questo il trasversalismo mi mortifica, perché mi sembra che cancelli la diversità delle nostre storie, perché non è una categoria politica, perché ci colloca tutte sotto il comune denominatore di un’oppressione irrisolta: non mi sembra questa la via maestra per uscirne. Che il movimento delle donne si misuri con il tema della rappresentanza è quindi nella sua storia; che il movimento femminista ritenga questo un tema su cui lavorare non è però scontato, anche se negli anni Settanta ci abbiamo provato con alcuni esiti utili: alcune leggi, e, soprattutto, un gran dibattito prima, durante e dopo.

La questione è quindi problematica. Si è parlato a Paestum di relazioni tra donne dentro e fuori le istituzioni, di una sorta di vigilanza femminista sull’operato delle elette: non è facile ( il “Vota donna” dell’87 non mi pare funzionò, come pure non ha funzionato il “sogno” delle tre ministre nel governo Monti). Tuttavia, nessuna porta chiusa: 50/50 è un obbiettivo civile “naturale” – è stato detto – quindi ben venga.

Il lavoro del femminismo è un altro, è la liberazione. Un lavoro che scava, che si sottrae agli avvenimenti, un lavoro di lunga durata. Il lavoro del femminismo è stato quello di inventare pratiche che ponevano al centro il corpo, i suoi linguaggi ereditati, le sue nuove significazioni a partire da sé, da noi; è stato l’evento della soggettività femminile, un imprevisto – è stato detto – che ha rivoluzionato tutti gli ordini, sociali, politici, simbolici, economici.

Paestum ha riformulato questa domanda: oggi, cosa significa liberazione? Le ragazze hanno gridato “precariato”! Una di loro ha detto una frase geniale: “ Il precariato è la forma attuale del patriarcato”. Ha messo insieme corpo e lavoro, desiderio di essere e desiderio di avere, ha pensato alto, cogliendo i nessi tra la precarizzazione-femminilizzazione di tutti i lavori e il dominio di una gerontocrazia patriarcale finanziaria, “dematerializzata”. Il nesso sessualità-lavoro è al centro della liberazione oggi, è questo il lavoro del femminismo, questo io penso.

Che fare? A questa domanda storica mi viene da rispondere:”Ragazze di ieri e di oggi, ritessiamo la trama del coraggio: formiamo ovunque collettivi di autocoscienza, rimettiamo in scena il nostro corpo o-sceno, fuori scena, perché solo una parola pubblica che abbia questa sostanza può muovere, cambiare, rivoluzionare. Gli anni Ottanta, per ragioni che non voglio qui richiamare, hanno segnato una riprivatizzazione del discorso femminista sulla sessualità, un vuoto riempito di corsa, rovinosamente, dalle nuove immagini esposte di corpi di donna che si dicevano “liberati”: storia nota, che è stata accompagnata da una accelerazione della violenza sulle donne, in tutte le sue forme. Pretendiamo quindi educazione sentimentale in tutte le scuole, a partire dalla scuola per l’infanzia: è il solo modo per sconfiggere nel lungo periodo la violenza sessuata. Occorrerà stabilire alleanze con alcuni uomini, sollecitarli a un’autocoscienza contro il patriarcato, poiché la questione è, soprattutto, una questione maschile. Potranno le donne elette farsi carico di una legge siffatta? Potranno denunciare lo scandalo della legge 40, la vergogna dell’obiezione di coscienza alla 194, il ritorno all’aborto clandestino delle minorenni? Lo spero ( lo pretendo).

Infine la cura. Cura di noi, innanzi tutto: self-help di ritorno, nuova alfabetizzazione per tutte le “età della donna”: aprire il blog selfhelpriparliamone mi ha dato una carica di energia che non avvertivo da…quarant’anni! Cura, degli altri, del mondo – è la proposta. Ma da tempo mi chiedo: estenderla fuori dagli spazi interni e dai luoghi interiori è la cosa giusta? O sarebbe meglio giocare a sospenderla dentro e fuori? Creare vuoti, non farsi trovare là dove tutti si aspettano che noi stiamo “naturalmente”, potrebbe essere un suggerimento, un esperimento, soprattutto per le donne che lavorano nei partiti, nelle istituzioni, gravate – immagino – da “naturali” deleghe di mediazione, di tessitura, di pazienza, ovviamente nei tempi e nei modi decisi altrove. Sottrarre cura potrebbe essere una forma nuova del conflitto, ove necessario.

Basta così.

Negli anni Venti – più o meno – Charlotte Perkins Gilman, femminista radicale, economista, scrittrice americana, scrisse da qualche parte:

“Il potere che le donne sapranno esercitare consiste nel non entrare in un sistema partitico maschile. Il sistema di partiti dell’attuale politica è un trucco degli uomini per nascondere i veri obbiettivi. Le donne dovrebbero lavorare per i provvedimenti che vogliono al di fuori della politica dei partiti. E’ proprio perché i vecchi partiti politici si rendono conto che l’influsso delle donne all’interno sarà così trascurabile che sono così ansiosi di convincere le donne a entrarvi.”*

*In Shulamith Firestone, La dialettica dei sessi. Autoritarismo maschile e società tardo-capitalistica. Guaraldi, 1971, p.34.

Magari, cento anni dopo, non è più così… o magari sì…

Grazie di tutto.

Emma Baeri – Catania

http://paestum2012.wordpress.com/2012/10/09/paestum-o-della-gratitudine/


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