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Lunga nota politica da parte del Sen. Fernando Rossi

Nell’ultimo periodo il Governo Prodi ha avuto parecchi problemi di comunicatività interna. Il caso più clamoroso riguarda la posizione del Sen. Fernando Rossi che ha subito un autentico linciaggio morale in pubblica via...

di Emanuele G. - martedì 20 marzo 2007 - 2614 letture

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Sen. Fernando Rossi

Riceviamo e pubblichiamo volentieri una lunga nota politica da parte del Sen. Fernando Rossi in merito alle ultime vicende culminate nella crisi lampo del Governo Prodi.

"Dopo aver subito l’efficace, quanto falsa, campagna mediatica sui due senatori della “sinistra radicale che hanno fatto cadere Prodi”, ho cercato di capirne le ragioni e, al fine di sviluppare un più ampio confronto, penso sia utile esporre alcuni elementi di riflessione.

E’ vero che l’attuale Governo è spostato a sinistra?

Davvero la finanziaria avrebbe “fatto piangere i ricchi”?

Ogni persona sufficientemente informata, per quanto timorata dalle ancor vive “ansie di giustizia sociale”, può ammettere che così non è stato e che così non è.

Ma allora perché forti gruppi finanziari, Banca d’Italia in primis, forze politiche non marginali e autorevoli cariche pubbliche lavorano da tempo ad una sostanziale modifica moderata del quadro politico di cui sono già oggi i principali gestori e/o beneficiari ?

Non certo per tornare a Berlusconi, di cui non hanno gradito l’eccessivo rafforzamento finanziario, politico ed industriale (avvenuto anche a loro spese, durante la sua permanenza al governo), e di cui hanno concorso a decretare la fine, spostandosi con il centro sinistra, durante la campagna elettorale.

Negli anni ’90, si è sviluppato un duro scontro strategico-culturale tra Brezinsky e Wolfowitz, da un lato, che teorizzavano la centralità degli strumenti bellico-militari per conservare ed estendere il dominio degli USA sulle fonti energetiche e sull’economia del pianeta e contenere la crescita economico-politica dell’India e della Cina, e Kissinger, unitamente a numerosi personaggi della politica e della cultura americana, dall’altro, che, prendendo atto della ormai consumata vittoria, mediatico-militare (compreso il “cul de sac” afghano) sull’URSS, indicavano la necessità di aprire una nuova fase dove l’America avrebbe potuto primeggiare come principale fattore di sviluppo e globalizzazione dei diritti sociali, civili e democratici.

Quanto è avvenuto in seguito: Indonesia, Africa, Palestina, Yugoslavia, Nicaragua, Iraq, 11 settembre, Afghanistan, ecc., è la riprova del netto prevalere della prima opzione strategica, materializzatasi sotto l’aberrante teoria delle “guerre preventive”.

L’ONU, con il “siamo tutti americani “ del dopo 11 settembre, ha accentuato la propria crisi cedendo agli Stati Uniti ed ai loro interessi economico-strategici, gran parte della propria autorità sovranazionale. La stessa Europa, ed è qui la sua profonda crisi attuale (attivamente preparata su input USA da Inghilterra, Italia, Polonia e Ungheria e sancita dai fallimenti dei referendum costituzionali e dall’ approvazione della direttiva Bolkesten), ha avviato un processo di generale regresso rispetto all’idea di poter assumere un grande ruolo internazionale (in una visione multilaterale) in ragione dei suoi livelli di progresso sociale, scientifico e culturale, della sua forza economica, demografica e, persino, militare.

Dopo l’11 settembre anche la grande finanza e la grande industria europea si piegano agli interessi ed agli intrecci finanziari gestiti, nei vari scacchieri mondiali, dalla Banca Mondiale e dalle grandi Corporations americane.

Anche in Italia, e molto più della Francia e della Germania, la “classe imprenditoriale e/o dirigente” rinuncia ad arditi progetti e si acconcia a salire sulla locomotiva statunitense, trainata dagli enormi profitti del settore degli armamenti e delle guerre (con le sue attività produttive e commerciali collaterali: soldi pubblici per distruggere, poi soldi pubblici per ricostruire), dal controllo sull’approvvigionamento energetico, da quello sulle informazioni e sui servizi segreti di tantissimi stati (accentuatosi con il pretesto dell’antiterrorismo).

Anche i saperi, la scienza, l’arte e la cultura, sono stati piegati al businnes ed alle strategie delle grandi Corporations, in grado di finanziare in proprio o di farsi finanziare dai singoli Stati gran parte dei progetti di ricerca, attraendo a sé gran parte della ricerca scientifica e dei ricercatori delle più importanti università del pianeta.

I partiti, per scelta o per debolezza, si sono lasciati trainare (anche in Italia) dalle scelte della finanza e dalla grande industria; riservandosi, sempre più debolmente il ruolo, a decrescere, del “noi non siamo d’accordo”, del “non sapevo” o del “sono le regole del mercato”; da noi l’ultima ridotta è “Berlusconi avrebbe fatto peggio”.

Mi sono così ricordato che già sei mesi fa, in occasione del voto sulle missioni militari all’estero, la grande stampa italiana (si fa per dire visto che siamo il paese economicamente sviluppato con meno lettori di giornali) enfatizzò, ed a più riprese distorse, le prese di posizione del gruppo dei senatori contro la Guerra, non nascondendo la delusione per la non sopraggiunta “crisi di governo”.

L’operazione allora fu sventata con due strumenti: il voto di fiducia, e l’incontro tra il Governo, nella persona del Ministro per i rapporti con il parlamento, i senatori “contro la guerra” ed i rispettivi capigruppo in Senato, che si concluse con l’accordo che il Governo avrebbe accolto, quasi in toto, i 9 ordini del Giorno da noi proposti, facendo proprie le valutazioni e gli impegni in essi contenute; va qui rimarcando il fatto, non certamente di dettaglio, che da allora, nessuno di quegli impegni è stato mantenuto e che si è giunti al voto sulla politica estera con tre nuovi e peggiorativi elementi: la nuova base militare USA di Vicenza; la fabbrica di Cameri (Novara) dove, sulla base di un accordo firmato da D’Alema nel Natale ’98, verranno assemblati i nuovi aerei F35 (l’Italia si è già impegnata ad ad acquistarne 131, ad un costo indicativo di 200 milioni di €, l’uno); l’accordo militare con Israele, mentre al confine tra Libano ed Israele i nostri militari dovrebbero essere arbitri neutrali.

Ma è proprio ragionando sull’esperienza di sei mesi fa che bisogna chiedersi perché il Governo non ha posto la fiducia; e chiedersi anche perché, dopo aver rinunciato a porre la fiducia, non si è cercata una libera maggioranza in Senato.

D’Alema nella replica dice sostanzialmente: non voglio il voto di chi pensa (CDL) che ci sia continuità in politica estera con il precedente governo e non voglio nemmeno il voto di chi non è d’accordo con le mie proposte di politica estera (senatori “contro la guerra” e, teoricamente, partiti dichiaratisi contrari alla base di Vicenza, alla guerra afgana ed alla costruzione-acquisto degli F35); può essere stato tanto ingenuo da non aver pensato che senza gli uni e senza gli altri, in Senato, non si sarebbe raggiunta la necessaria maggioranza dei votanti?

Il fatto, politico-matematico, è che se anche io e Turigliatto avessimo votato a favore, il Governo sarebbe ugualmente andato in minoranza.

Che si sia trattato di un casus belli per aprire una nuova fase politica è ora dimostrato da altri due elementi:

- Nelle ore successive mancano autorevoli dichiarazioni e prese di posizione sulla conferma di Prodi, anzi, si legge di ipotesi di incarico ad Amato, Dini o altra personalità (richiesta “stranamente” fatta da Casini); io e il Segretario del Partito Consumatori Italiani siamo i primi a chiedere il rapido ritorno di Prodi alle Camere, con impegno a sostenerlo con la Fiducia;

- Il Governo ha ora dichiarato che non metterà la fiducia sul rinnovo della nostra partecipazione alla guerra afgana, e che si augura un’ampia convergenza in parlamento aprendo ai voti dei parlamentari della CDL, notoriamente meno sensibile al ripudio della guerra e attento nel guadagnarsi la riconoscenza ed il gradimento dell’attuale amministrazione americana.

Ciò è “normale” in una democrazia parlamentare (forse qualcuno non sa che anche in Inghilterra, Blair fa passare la sua politica di guerra con la contrarietà di una significativa parte di laburisti ed il consenso dei conservatori). Perché non lo si è fatto il 21 febbraio?

I “partigiani del 26 Aprile” scrivono e mi dicono che loro, hanno votato a favore perché avevano già subodorato che si cercava il pretesto per spostare a destra (gli irriducibili dicono ancora al centro) l’asse del Governo; bisognava votare a favore così tutti avrebbero capito cosa c’era sotto e non avrebbero potuto accusare la sinistra “pacifista” di aver fatto cadere Prodi.

Tra questi ho anche dei cari amici, ma ciò non mi impedisce di partire da tali sconcertanti argomentazioni (Bugio ed altri) per riproporre il problema del ruolo dei comunisti e della sinistra, in parlamento e nel paese.

Quale cedimento culturale, si apre allorché passa l’idea che per contrastare scelte conservatrici ed antipopolari …bisogna approvarle e sostenerle?

Agli appelli “spintanei” che vengono a go-go dagli organismi europei ed ai disegni politici delle componenti moderate dell’Unione, tesi ad ottenere una violazione del diritto costituzionale ad una pensione dignitosa, a ridurre i diritti dei lavoratori, i servizi sociali ed il carattere pubblico e universale di scuola e sanità, la sinistra come dovrebbe rispondere? Approvandole e sostenendole?

Il rispetto del compromesso raggiunto con il programma comune è un conto, applicarne solo le parti moderate e accettare sistematici arretramenti sulle questioni messe in agenda dalle componenti più moderate, è un altro!

La rotta monetarista, segnata dalla finanziaria, è sbagliata.

Se questo è il percorso, la sorte elettorale dell’Unione è segnata; come segnata sarebbe la sorte di una sinistra che si lasciasse coinvolgere nel naufragio annunciato.

In questi giorni ho avuto tantissimi contatti e incontri da cui emergono aspetti ancor più inquietanti: su sinistra e lavoro, sinistra e ambiente, sinistra e giustizia sociale, sinistra e diritti, sinistra e informazione, sinistra e amministrazione locale, esce un mosaico desolante (pur facendovi la necessaria tara, e cioè considerandole informazioni influenzate dalla tensione del momento).

La questione è molto seria.

Sulla NATO siamo dietro ad Andreotti, sulle pensioni contro i sindacati, sull’ambiente siamo spesso al fianco di chi lo depreda (dagli inceneritori, alle turbogas, dai grandi costruttori che stanno dietro a tanti sindaci “nostri”, grandi e piccoli, alla scomparsa della partecipazione popolare alle scelte). Report, Travaglio e tanti altri giornalisti che onorano il loro mestiere denunciano ingiustizie e ruberie di denaro pubblico da ogni parte, e la sinistra che fa? Si stringe nelle spalle !?

Se possono impunemente raccontarci che una guerra è una pace, cosa ci stanno raccontato sulle pensioni, sui salari, sulla scuola, sulla sanità, sull’ambiente, sui diritti dei consumatori…….

E invece eccolo lì il nostro ceto politico, a pensare a come unirsi tra ex DC ed ex PCI per fare un “partito democratico all’americana”, che abbia tanti voti da essere sicuro di prendere tutto il potere, o a discutere di nuove formazioni postcomuniste o neosocialiste però “aperte ai movimenti”, mentre approvano un dodecalogo che è, punto per punto, teso a delegittimare ed a tagliare alla radice gli obiettivi su cui i movimenti stanno lavorando.

Nel teatrino della politica, con le famiglie indebitate dalla truffa del “tasso 0”, e con il popolo della terza settimana sempre più in ambasce, va in scena la riforma elettorale, ovvero come proteggere l’attuale sistema socio-economico, non avendo tra i piedi chi vuole cambiarlo o rappresenta forze sociali minoritarie (ben sapendo, che ciò moltiplicherebbe la rabbia sociale e gli scontri nel paese, ma confidando in un eventuale salvifico e più efficace abuso delle forze dell’ordine).

Siamo giunti (come scrisse Pintor) alla fine della autonomia politica e culturale della sinistra?

Quand’anche non fossimo al capolinea, prima di arrivarci, bisognerebbe porsi con forza il compito di cambiare la politica, cominciando, da un ultimo, corale ma fermissimo, tentativo di cambiare dall’interno i nostri partiti della sinistra, battendoci per tirarli fuori dal “teatrino della politica” e dalle mani del ristretto ceto politico che ora li usa come “cosa sua” e rimetterli al loro posto, tra il popolo.

I nuovi dirigenti siano persone che hanno dato battaglia rispetto al degrado lobbistico, che dicano ciò che fanno e facciano ciò che dicono, che pratichino la democrazia interna ed il confronto delle idee, lasciando prevalere quelle utili ad una positiva soluzione dei problemi. Non sarà per nulla facile, ma prima di gettare i bambini con l’acqua sporca, bisognerà provarci.

Nando Rossi"

Nelle prossime settimane contiamo di pubblicare un sua intervista.

Officina Comunista


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