Il processo di formazione del Pci / Camilla Ravera

La nascita del Partito Comunista d’Italia (che diverrà poi PCI), a Livorno, il 21 gennaio 1921.
di Redazione Antenati - domenica 24 gennaio 2021 - 2764 letture

Il processo di formazione del Pci / Camilla Ravera [1]

Io vorrei soltanto aggiungere qualche considerazione su alcuni punti della introduzione fatta dal compagno Gruppi, per me ottima sotto tutti gli aspetti. Per prima cosa vorrei ricordare in quale situazione si sono trovati l’Ordine Nuovo e Gramsci a Livorno, e dopo Livorno.

Bisogna risalire un po’ più lontano, al momento in cui la rivista dell’Ordine Nuovo nasce. Se si leggono, per esempio, con un po’ di attenzione i primi numeri della rivista si trova un articolo di Gramsci - che fu allora oggetto di lunghe discussioni - in cui Gramsci fa un quadro del Partito Socialista Italiano con piena fiducia; illumina il valore storico di questo partito, l’opera compiuta dai socialisti nella formazione delle leghe di braccianti, dei sindacati operai, delle cooperative, delle migliaia di sezioni socialiste, di circoli operai; circoli del tipo di quelli di cui vi ha parlato Massola, che erano numerosissimi allora in Italia.

E Gramsci conclude: “questo Partito ha dietro di sé delle forze immense, ha conquistato attorno ad alcune delle sue personalità la fiducia di masse intere di popolazioni”.

Di queste personalità vorrei ricordarne una: Serrati, quella contro cui noi dell’Ordine Nuovo ad un certo momento facemmo una lotta serrata, una polemica aspra, qualche volta amara anche; e che pure amavamo profondamente nel ’19.

Perché Serrati durante la guerra era stato un socialista che aveva rappresentato veramente lo spirito di lotta contro la guerra - non soltanto di neutralismo passivo - che era negli operai, nella popolazione italiana. Serrati, facendo una beffa alla censura, era riuscito a pubblicare il Manifesto di Zimmerwald contro la guerra imperialista, a farlo circolare in tutte le fabbriche d’Italia, particolarmente del nord.

Era molto amato dagli operai Serrati; dopo Caporetto aveva levato la voce in nome dei soldati che uscivano dalle trincee stanchi di quella inutile strage; ed era stato arrestato, condannato e rimasto in carcere fino alla fine della guerra.

Per questo era amato; ed era stimato anche da Lenin, il quale quando lo vide crollare a Livorno, disse: “proprio colui che aveva raccolto sul suo capo la gloria di essere il vero rappresentante del proletariato italiano durante la guerra, è scivolato nel modo più doloroso, nel modo più disastroso; nella massima confusione; portando anche la confusione tra gli operai che gli sono, gli erano fedeli”.

Tutto questo vi dico perché vorrei che aveste un quadro un più esatto di quella situazione.

Un Partito che aveva tutte quelle forze, che otteneva più del 30% dei voti alle elezioni, che aveva anche nelle campagne, soprattutto dell’Emilia - e un compagno qui l’ha ricordato - delle forze notevoli ed un fiorire di istituzioni proletarie, un Partito così non era facile pensarlo spaccato, diviso, abbandonato come una cosa senza valore.

Difatti, a conclusione di quell’articolo - a cui io accennavo - Gramsci dice: “Rompere l’unità di un simile Partito sarebbe un delitto, sarebbe un danno per la classe operaia e per tutta la popolazione lavoratrice italiana”.

Questo il concetto da cui Gramsci parte, nel ‘19, il 1° maggio del ‘19, quando crea “L’Ordine Nuovo”: il Partito Socialista è il Partito dei lavoratori italiani; non il vero partito della classe operaia inteso in senso marxista: chiaro, preciso, colto e ben indirizzato, ma rappresenta i lavoratori italiani. Si tratta, diceva Gramsci, di rinnovarlo. Rinnovarlo. in relazione alla situazione nuova che la stessa, guerra ha creato, che ha dato slancio. a tutta la produzione industriale, a tutta la parte operativa, laboriosa della nazione; che ha portato una coscienza nuova nella classe operaia, costruita nelle nuove fabbriche con la nuova organizzazione, col nuovo modo di lavoro, all’interno stesso delle fabbriche.

Bisogna rinnovare il Partito riportando nel Partito il marxismo, la nostra dottrina; e dando al Partito una meta ben chiara, che sia il Socialismo. Questo si era preposto Gramsci e per lungo tempo insiste su questa esigenza di rinnovare, direi, più che il Partite la Direzione del Partito. La Direzione del Partito era costituita in modo un po’ strano: c’era il Comitato Centrale, il Comitato Esecutivo; ma c’erano poi mescolati insieme con la stessa autorità la Direzione della Confederazione Generale del Lavoro, il Gruppo Parlamentare, la Direzione complessiva delle Cooperative. Ora il Gruppo Parlamentare era costituite di tutti elementi di destra a partire da Turati, Treves, ecc.; quelli che già durante la guerra avevano perduto molto della loro popolarità e autorità.

Le Cooperative avevano anche elementi di destra; ma soprattutto nella Direzione chi prevaleva era il gruppo di destra; e lo strano era che la Direzione di fatto non dirigeva il Partito: diviso in gruppi, in frazioni ognuna delle quali aveva la sua stampa, la sua disciplina e i suoi capi.

Ora, diceva Gramsci, questo non è un Partito: è una disgregazione; non è l’unità che può dirigere verso una meta; nemmeno può aver una meta. La destra tendeva ad inserirsi nel Governo per attuarvi qualche riforma senza modificare il sistema; parlava chiaro in tal senso, aveva la sua stampa, la sua direzione. Il centro massimalista proclamava sempre la rivoluzione in modo rumoroso, in modo molto estremista rispetto a noi ordinovisti e rispetto anche allo stesso Bordiga; era estremista nelle formulazioni; ma concepiva la rivoluzione come “il sol dell’avvenire”, molto lontana e molto indefinita. E c’era la sinistra; la quale non era unita, perché formata da elementi eterogenei, intorno a Bordiga. Anche Bordiga, bisogna inquadrarlo nel suo tempo e nella sua situazione; viveva a Napoli, il socialismo a Napoli era malto diverso dal socialismo di Torino; l’organizzazione stessa era fatta in modo diverso, A Napoli era soprattutto diretta e influenzata da elementi intellettuali; come è in generale nel Mezzogiorno. Un contatto con la classe operaia, diretto, Bordiga non l’aveva mai avuto, né conosciuto; era entrato nel Partito partendo dalla conoscenza teorica del marxismo, innamorato del marxismo; delle sue formule .matematicamente ordinate nella sua mente e dogmaticamente impresse nel suo spirito, tan to che per lui la rivoluzione e a intesa in modo rigidamente deterministico: Bordiga non era un rivoluzionario estremista nel senso di oggi; cioè che avesse fretta di fare la rivoluzione; secondo lui la rivoluzione maturava negli eventi, nello sviluppo della situazione. Ciò che occorreva - pensava - era l’esistenza di un Partito non maggioritario, ma un partito di quadri, centralizzato, basato su una disciplina ferrea, con un’organizzazione di tipo militare; preparato spiritualmente e materialmente al momento della lotta violenta per la conquista del potere.

Questa era la definizione che Bordiga dava del Partito. Egli non vedeva nella rivoluzione un processo che si compie - come diceva Gramsci - quotidianamente, in modo continuo, attraverso la lotta di ogni giorno, in ogni situazione, e che ha alla sua testa la classe operaia con la sua avanguardia, ma al suo seguito l’insieme della popolazione che lavora nelle città e nelle campagne.

Diverso era il concetto di Partito per Gramsci: il partito socialista è il partito della classe operaia; un partito - diceva Gramsci - che ha autorità non perché ha una gerarchia stabilita, ma perché ogni operaio, nel momento .in cui sostiene una lotta sa che quella lotta avviene in quanto risponde al pensiero che è il pensiero del suo Partito. Cioè il partito diventava, - per Gramsci - la sintesi di tutte le aspirazioni della classe operaia, del suo avvenire, della sua lotta di oggi, di domani; verso una meta che è la meta del socialismo.

Erano due concezioni fondamentalmente diverse, ma Gramsci sapeva che Bordiga aveva concezioni diverse dalle sue.

Chi legge attentamente la rivista “l’Ordine Nuovo”, vede da Gramsci - contro Bordiga – le sue concezioni. Il suo concetto di egemonia ha le radici già là; quando Gramsci spiega come la classe operaia debba avere il consenso di tutta la popolazione, e come se lo guadagni, lo consegua; e come il Partito conquisti la grande vittoria di ottenere questo consenso, già là è in radice il concetto di egemonia, che Gramsci sviluppa poi continuamente. Dopo la guerra avvengono movimenti non da poco: i reduci sono smobilitati - e questo fu il primo errore - con una rapidità esagerata; molte classi in pochi mesi. E i reduci hanno bisogno di lavorare di ritrovare un’occupazione. Contemporaneamente le grandi aziende che avevano lavorato - per la guerra si trovano in un momento di necessaria conversione; questo per l’industria rappresenta sempre un costo. L’industria, la grande industria soprattutto, reclama aiuti da parte del governo, il quale non è in grado di darli. C’era una forte svalutazione della lira, e quindi un rincaro rapidissimo dei prezzi, che coincideva con la disoccupazione crescente: prodotta dal rientro dei reduci e dai licenziamenti nelle fabbriche, dove la riconversione non si attuava con rapidità.

Tutto questo il primo grande moto del dopoguerra, quello che Gramsci definì “I moti della fame”. Furono masse di popolazioni che si riversarono nelle strade; che a Torino, per esempio, invasero negozi, buttarono per aria magazzini; reclamando viveri a minori prezzi, e salari maggiori. Fu il primo moto popolare esteso; e ciò che avvenne a Torino dà l’idea della situazione; situazione da quasi tutti giudicata non rivoluzionaria nel momento, ma con possibili sviluppi rivoluzionari.

A Torino i negozianti portarono le chiavi dei negozi alla Camera del Lavoro, affidarono alla Camera del Lavoro l’incarico di ristabilire l’ordine: non al Prefetto, non al Sindaco, alla Camera del Lavoro. E fu la Camera del Lavoro di Torino a stabilire i limiti dei prezzi, a richiamare la popolazione a non distruggere, perché il distruggere e il saccheggiare peggiorava la situazione di tutti.

Ebbe nelle mani l’ordine della città, la Camera del Lavoro; questo era evidentemente un fatto non molto pacifico, non molto “legale”.

Quasi contemporaneamente nel Mezzogiorno i soldati rientravano nei l ro paesi. Quando stavano nelle trincee era stata loro promessa la terra; rientrando credevano legittimo andarsi ad occupare le terre.; soprattutto quelle mal coltivate dai latifondi; e facevano le “occupazioni di terre”. Si ebbero delle occupazioni di terre, con contadini in armi. Era un fenomeno abbastanza rivoluzionario per la situazione italiana.

Che cosa cerca Gramsci e che cosa cerca “L’Ordine Nuovo”?

Nei compagni dell’Ordine Nuovo ci fu sempre l’accordo: anche in quel breve momento in cui si formò quel Comitato di educazione - di cui io feci parte – e che non significò un disaccordo. Un contrasto nacque solo con Tasca; sulla ricerca da fare in quel momento: per trovare nelle città industriali il punto di partenza di un’organizzazione che rispondesse alla esigenza espressa da quei moti: che li incanalasse, che desse loro una direzione. Si può domandare: non c’era il Partito? Ma quell’idea venne appunto perché il Partito non funzionava.

Non funzionò nel momento dei moti per la fame e Gramsci invitò il Partito ad intervenire con una direzione generale; non funzionò durante l’occupazione delle terre. Ci fu allora anche un errore di Serrati il quale riteneva che l’occupazione delle terre da parte di contadini armati non fosse un fatto rivoluzionario, perché i contadini volevano la proprietà privata mentre i socialisti non debbono dare la terra in proprietà, ma socializzarla. Anzi, Serrati polemizzava con Lenin che aveva fatto la distribuzione delle terre, invece della collettivizzazione generale, senza differenzia- zione tra le situazioni varie.

Di mano in mano che la Direzione del Partito dava prove di inefficienza, maturava in Gramsci, l’idea che il Partito mancava al suo comito. A un dato momento lo scrive chiaramente: “La rivoluzione in Italia non si farà se il Partito Socialista rimane quello che è”. Non dice nemmeno allora: bisogna dividerlo, dice “se rimane quello che è” [2].

Suggerisce come dovrebbe essere; dice: partiamo dalle fabbriche se vogliamo essere dei marxisti, incominciamo a creare nella fabbrica un primo momento di potere; il primo momento di espressione della sovranità del lavoro.

Questo insegna il marxismo: alla classe operaia spetta il potere; la sovranità del lavoro bisogna dunque crearla - dice Gramsci - partendo dal luogo di lavoro. A Torino, partendo dalle fabbriche.

Questo non escludeva - e Gramsci lo diceva - che nella Valle Padana si dovesse partire dalle campagne, e in altre località da altri centri. Comunque dal luogo di lavoro; e soprattutto dalla fabbrica dove c’è la classe operaia caratterizzata.

Sorge così l’idea di cercare nella fabbrica l’organo da cui può nascere questo principio di potere: la Commissione interna.

Ma la Commissione interna - osservava Gramsci - non è l’espressione di tutta la classe operaia di una fabbrica; è l’espressione di coloro che sono nei sindacati; ed era un po’ burocratizzata, dato il modo come allora erano burocratizzati i sindacati: ogni corrente aveva il suo rappresentante; le elezioni venivano fatte su liste che riflettevano lo stato del Partito Socialista diviso in riformisti, massimalisti, bordighiani astensionisti, “L’Ordine Nuovo” con il suo gruppo torinese.

La Commissione interna non era una rappresentanza unitaria. Ecco perché sorge l’idea di un organismo che rappresenti tutta la classe operaia della fabbrica, reparto per reparto; cioè partendo dalla struttura interna della fabbrica moderna.

Questo diceva Gramsci; e mi pare abbia oggi anche valore di attualità; in quanto indica la strada da seguire nei paesi dove la struttura industriale è sviluppata, le fabbriche hanno una data divisione di lavoro e razionalizzazione interna che crea reparti, linee di produzione e così via. Nasce così il Consiglio di fabbrica; e nasce il dissenso con Tasca; il quale, invece, legato alle vecchie forme, vedeva in quegli organismi nuovi un po’ come un’avventura; o li vedeva come Soviet.

Gramsci non li vede mai come Soviet, Gramsci sapeva molto bene che il Soviet si costruisce quando il potere è conquistato; ma il Consiglio di fabbrica, - diceva - crea e matura nell’operaio quella coscienza di produttore che lo porta a diventare capace di dirigere e di gestire il lavoro nella fabbrica.

In questo senso è preparazione del potere che si esprimerà soltanto quando la dittatura del proletariato sarà conquistata; cioè quando i Soviet veramente si potranno fare.

Voi sapete come si svolsero le lotte degli operai di Torino; quando gli industriali videro nascere i Consigli di fabbrica, e ne capirono - molto più dei socialisti – la natura, e lo sviluppo possibile e previsto da Gramsci e dal suo gruppo, si riunirono; pro clamarono la Confederazione Generale dell’Industria; e il discorso che vi fece Olivetti fu tutto su questo tema: il primo compito che dobbiamo proporci distruggere’ i Consigli di fabbrica prima che da Torino dilaghino in Italia. Perché effettivamente i Consigli di fabbrica - così concepiti, così congegnati e compresi dagli operai – esistevano solo a Torino.

E la Confindustria attaccò la classe operaia con il pretesto delle “lancette” – a Torino: dove avvenne il grande sciopero contro l’abolizione dei Consigli di fabbrica; contro la nuova pretesa regolamentazione dei rapporti interni nella fabbrica che distruggeva questi organismi.

Proprio nei giorni precede ti quello sciopero, Gramsci aveva redatto - per incarico del Comitato esecutivo della sezione socialista di Torino - una relazione indirizzata al Consiglio Nazionale del Partito Socialista convocato a Torino per la fine di aprile; quel documento - che forse voi conoscete - apparve su “L’Ordine Nuovo” e fu diffuso in tutte le fabbriche torinesi, con il titolo: Per il rinnovamento del Partito Socialista Italiano.

Tale era ancora il titolo; c’era ancora in Gramsci la speranza di poter trasformare - attraverso la diffusione dell’esperienza torinese - la direzione del Partito Socialista, sul terreno marxista, e in modo che rispondesse meglio alla situazione. E “L’Ordine Nuovo” pubblicò un proclama, un manifesto, che non ebbe poi seguito, rivolto dai Consigli di fabbrica di Torino a tutti gli operai e contadini d’Italia perché creassero questi organismi, in modo da poter riunire un congresso nazionale capace di portare avanti la situazione.

A pensarci oggi - dopo che i fatti sono avvenuti - è sempre più facile giudicare, la storia si giudica meglio quando diventa “il passato” che non nel momento in cui si fa, tutti eravamo allora impegnatissimi in quelle battaglie; e c’era forse qualche forzatura in quella visione di un programma nazionale che partiva da un gruppo torinese, e da una direzione organica di partito; c’era un difetto, generato però dal fatto che il Partito non rispondeva mai al suo compito.

A Torino - con il movimento dei Consigli - dominavamo il movimento operaio, dirigevamo la Camera del Lavoro, la FIOM; moltissimi sindacati, tutti i circoli operai, eravamo veramente i dirigenti socialisti. E pensavamo che qualche cosa di simile potesse svilupparsi, come era detto in quel manifesto: che non ebbe - e non poteva avere - alcun risultato. Avvenne invece l’attacco degli industriali; Il Partito Socialista abbandonò la lotta degli operai di Torino; la sconfessò, anzi la condannò; la presentò al Partito come un atto di indisciplina di un gruppo di torinesi - avventurosi, intellettuali, presuntuosi - che avevano indirizzato male gli operai di Torino. Fu una grande sconfitta che ebbe un effetto deprimente sulla classe operaia; e diede baldanza all’avversario.

L’avversario con quella lotta aveva iniziato l’attacco. Tutti i moti a cui ho accennato erano ormai caduti nel vuoto: il movimento dei contadini era finito. Lenin diceva: Se almeno il Partito Socialista fosse riuscito ad indicare qualche meta intermedia; liquidare nel Mezzogiorno il latifondo, sarebbe già stato un passo avanti.

Il Partito Socialista aveva lasciato cadere nel vuoto tan to il movimento dei contadini come i grandi moti popolari contro il caro-vita, contro i pescicani, i profittatori della guerra, per la confisca dei profitti esagerati che i produttori per la guerra avevano accumulato.

C’erano stati moti spontanei, lotte di popolo veramente esplose in tutti i campi: e senza frutto.

La Confindustria passa all’attacco quando questi moti seno crollati; quando ha al Governo il suo più intelligente rappresentante, Giolitti, il quale con molta arte aveva lasciato che si spegnesse il “sommovimento naturale”, del dopoguerra; la situazione di scontento e di fermento che inevitabilmente sarebbe esplosa fra la gente, ma che - a suo giudizio - avrebbe avuto carattere temporaneo, provvisorio; poi il tutto sarebbe rientrato nella normalità.

Giolitti era sicuro di questi suoi giudizi perché era in rapporto costante e diretto con la destra socialista, la quale tendeva ad un proprio inserimento nel Governo, che avrebbe potuto produrre qualche concessione, qualche riforma; che eliminasse gli inconvenienti più vistosi del sistema, ma senza rotture nel sistema.

Turati, Treves, ecc. davano, infatti, stranissime definizioni dello Stato dei Soviet; prevedevano imminente la catastrofe dello Stato dei Soviet; dicevano che forse sarebbe sopravvissuto, di quel fenomeno sovietico, qualche cosa di utile per i popoli dell’Asia, della Cina o dell’Africa, per le razze più arretrate; non per i popoli civili dell’Europa. E consideravano tutto quel “sommovimento” come una burrasca presto passata.

Dopo la prima grave sconfitta dell’aprile 1920, Gramsci giudicò chiuso il momento di possibile sviluppo rivoluzionario; l’ondata - diceva - è crollata; la fiducia degli operai è spezzata.

La Confindustria, tutto il mondo avversario è diventato più forte, più saldo.

E proprio in quel momento i dirigenti confederali scatenano il movimento più rivoluzionario: l’occupazione delle fabbriche.

Gramsci accolse la notizia dell’ordine di occupare le fabbriche, data dalla FIOM, con allarme e sfiducia; pensò che era ad dirittura irresponsabile un ordine dì quella natura, in quella situazione, con lo stato d’animo esistente nelle fabbriche: un ordine che avrebbe potuto dar luogo ad un ritorno dì speranza, dì fiducia, e ad un movimento insurrezionale, privo dì ogni preparazione politica e materiale.

Infatti a Torino l’occupazione delle fabbriche ebbe senz’altro un carattere rivoluzionario.

Le fabbriche furono presidiate con operai armati, ebbero alle porte le “guardie rosse” armate, continuarono il lavoro regolarmente come se ci fosse la produzione regolare secondo il piano prestabilito: anche alla FIAT, Parodi diresse la Fiat; c’erano molti tecnici presenti nell’occupazione; e si diresse la FIAT continuando il piano di produzione predisposto. Parodi era molto capace esperto anche come tecnico.

In quasi tutte le fabbriche torinesi sì continuò a produrre; e ci costruirono anche armi pensando ad un eventuale attacco dei fascisti o del padronato. A Torino fino a quel momento i fascisti si erano visti poco.

La sera quando io passeggiavo lungo le fabbriche occupate, vedevo sulle colline di Torino la truppa schierata; dì tanto in tanto si sentiva qualche mitragliatrice: davano segno della loro presenza. Però non furono mai attaccate le fabbriche.

Giolitti fu prudentissimo, salvaguardò così gli apparati produttivi della grande industria torinese.

Voi sapete che l’occupazione finì in una resa; che fu una sconfitta dolorosissima per gli operai” di Torino, una sconfitta generale. Ci fu un accordo tra i capi confederali e Giolitti; e Giolitti ottenne l’accordo degli industriali, promettendo qualche concessione protezionista; e facendo considerare agli industriali i pericoli inevitabili per le loro fabbriche in un eventuale scontro con gli operai, soprattutto a Torino.

La sconfitta fu dura. E in quel momento negli operai di Torino nacque un tale sdegno contro la direzione del Partito, che un gruppo di operai chiamò nella fabbrica Gramsci per proporgli l’uscita dal Partito. e la formazione di un nuovo Partito.

Naturalmente Gramsci, Togliatti, Terracini, spiegarono che non era cosa utile spezzare così il partito; bisognava aprire una lotta per conquistare la maggioranza degli operai socialisti, sinceramente socialisti, al nuovo partito. Con questo obiettivo Gramsci pensò alla costituzione della frazione Comunista che, di fatto, si costituì prima ancora che a Imola, nella riunione di Milano in cui si incontrarono Bordiga, Gramsci, Graziadei, alcuni elementi della sinistra massimalista; e avvenne una discussione generale e programmatica.

Fu proprio a Milano che Gramsci si rese conto della- situa zione in cui. sarebbe venuto a trovarsi “L’Ordine Nuovo” nel nuovo partito. Che si dovesse costruire un altro partito era una realtà che Gramsci ora accettava come necessaria. Ma, a Milano, Gramsci comprese - come ebbe poi a raccontarmi - in quale situazione veniva a trovarsi, “L’Ordine Nuovo”. Non si trattava di un puro problema organizzativo, compagni; c’era il fatto che, mentre in tutti qu i due anni il gruppo dell’“Ordine Nuovo” aveva lavorato nella direzione di cui vi ho detto, Bordiga - fin dal primo momento - si era posto come obiettivo la creazione di un partito quale egli si configurava; aveva lavorato a crearsi nel Partito stesso questo nuovo partito, in una frazione saldamente organizzata, fatta di compagni che avevano accettato e fatte proprie le formule da lui indicate, semplici ed elementari; e tali da essere, in quella situazione, facilmente accettate dai compagni, soprattutto nei luoghi lontani dall’opera di educazione marxista e comunista avvenuta a Torino.

Neppure a Milano il movimento dei Consigli di fabbrica era stato inteso, capito come a Torino; e nemmeno a Genova; c’erano elementi singoli venuti a contatto con quel movimento, di varie località.

“L’Ordine Nuovo” aveva una sua forza, di prestigio; rappresentava un gruppo di giovani intellettuali che scriveva una rivista intelligente, diceva cose nuove e serie; dirigeva gli operai di Torino.

Torino era detta, da qualcuno, la Leningrado d’Italia; ma era una definizione un po’ avanzata, in quella generale situazione.

In realtà “L’Ordine Nuovo” non era a fondo conosciuto in tutta la nazione; nel Mezzogiorno era pressocché ignorato; soprattutto non aveva mai lavorato per costruirsi una forza nel Partito, da far valere nel Partito; anche perché Gramsci aveva del Partito una altra concezione e un’altra prospettiva.

A Milano egli capì che “L’Ordine Nuovo” nella frazione comunista sarebbe stato un gruppo ristretto rispetto alla forza che era già un partito nel partito: la frazione di Bordiga.

Gramsci non ruppe con Bordiga, né si oppose al programma proposto da Bordiga - che sarà il programma della frazione; e dove del pensiero di Gramsci non c’è quasi niente. C’è il pensiero di Bordiga, che ha soltanto rinunciato al suo astensionismo elettorale respinto da Lenin. Correggere in senso gramsciano quel Programma non era possibile. Si trattava di un’impostazione fondamentalmente diversa, Come era apparso chiaramente anche nei fatti. Durante l’occupazione delle fabbriche - un movimento di quella natura, di quel valore, di quella forza - Bordiga non ne aveva dato neppure notizia sul suo giornale “Il Soviet”, diffuso nazionalmente in tutta la sua frazione.

Né lo aveva poi commentato; e quando gli si era chiesto come avesse potuto ignorarlo, aveva risposto: “Era uno dei tanti momenti in cui si vede che ad un certo punto la rivoluzione può apparire possibile; ma adesso bisogna fare il Partito”. Nel riferirmi questo commento - qualche tempo dopo
- Gramsci osservava che Bordiga non era astensionista soltanto in senso elettorale, parlamentare o comunale; era astensionista nell’azione politica: nell’azione politica che risponde ai fatti, alle lotte che si presentano oggi, domani, o che noi stessi possiamo suscitare in una data situazione. Per Bordiga esisteva soltanto la lotta violenta per la conquista del potere nel momento in cui la società capitalistica e arrivata al suo crollo, alla catastrofe; allora l’avanguardia - se così, nel suo senso, può chiamarsi - il partito armato e preparato, conquista il potere ed instaura il Socialismo.

Ora con due impostazioni così opposte, con Gramsci che si proponeva di partire dalla fabbrica per creare i primi germi della sovranità del lavoro, e Bordiga che aveva quell’altra visione era difficile concordare un programma; o correggerlo. Bisognava o accettare di lavorare con Bordiga o rinunciare a formare il nuovo partito.

Era un programma di grande responsabilità in quel momento; e Gramsci lo risolvette decidendo che bisognava fare il partito, fare il partito con Bordiga. Bordiga aveva già l’impianto del partito nelle mani; era un impianto che aveva una sua impronta, rivoluzionaria, di questo non c’era dubbio; e un costume rivoluzionario, cosa altrettanto vera: quella stessa disciplina, quella fermezza, quella combattività anche solo predisposta nello spiritò, creava una mentalità e un costume rivoluzionario.

Ora, Gramsci valutava tutto questo nella situazione che ormai si prospettava; cioè di sconfitta del grande moto popolare del dopo-guerra; di avanzata dell’offensiva industriale, la quale faceva le “liste nere” degli operai membri dei Consigli di fabbrica, delle Commissioni interne, dei gruppi sindacali e comunicava a tutte le aziende queste “liste nere”; così che gli operai licenziati non trovavano più lavoro in nessuna fabbrica; dovevano o emigrare o trovare altro modo di vivere.

Era, inoltre, in atto l’offensiva sostenuta dall’industria, e da tempo scatenata dagli agrari, i quali per salvaguardare direttamente i loro interessi armavano e finanziavano le squadre fasciste.

In quella situazione, diceva Gramsci, dovendo formare a nuovo un partito, anche la forza di Bordiga, la forza già da lui costruita con severo costume e rigida disciplina, era un elemento positivo.

Quale era l’illusione di Gramsci? Che nel lavoro comune, nell’azione politica concreta, Bordiga sarebbe uscito dal suo astratto e chiuso schema politico e sarebbe stata possibile con lui una collaborazione.

Infatti né a Milano né a Imola, Gramsci fece obiezioni tali da portare a rotture; ad Imola si differenziò soltanto sostenendo una opinione diversa, a proposito della prospettiva politica: Bordiga prospettava come soluzione della crisi un governo socialdemocratico, Gramsci invece sostenne l’alternativa da lui espressa già da tempo: o la vittoria della classe operaia o una reazione feroce quale mai la classe operaia italiana aveva provato [3]. E purtroppo si avvererà questa sua seconda alternativa.

Ma ad Imola quando Marabini, molto giustamente, cercò di attenuare la rigida posizione di Bordiga, di riaffermare il valore della tradizione socialista e l’esigenza di portare nel nuovo parti to quanti più operai fosse possibile, e Bordiga inflessibilmente dichiarò che non ammetteva nemmeno una virgola di mutamente nella sua linea, nella sua impostazione, e che esigeva il massimo di disciplina della frazione; e si produsse un momento di scontro, Gramsci intervenne dicendo: “Compagni, siamo venuti qui con l’animo di chi viene ad una costituente di partito e non per fare una lotta di frazioni fra di noi”. E riportò l’unità nella frazione.

Una situazione difficile si sarebbe però prodotta anche nel nuovo partito; e Gramsci lo ammise quando arrivò a Torino, da Livorno.

Bisognava tener conto del rapporto di forze esistenti. Inoltre, coloro che avevano costituito la frazione di Bordiga non erano dei numeri, erano degli uomini, erano dei compagni, dei la voratori entrati in quella frazione con convinzione, con fede, con attaccamento a Bordiga; e anche di questo bisognava tener conto.

Era una realtà: così come a Torino, gli aderenti a “L’Ordine Nuovo” erano legatissimi a Gramsci, e con convinzione aderivano al suo gruppo. Bisognava accettare quella situazione, sempre con la prospettiva che nel lavoro comune, nell’azione concreta, dirigendo politicamente le masse, si sarebbero superate le posizioni dogmatiche e settarie di Bordiga.

Purtroppo non fu così. Massola ha accennato al problema degli Arditi del popolo, il primo che si presentò.

Non è vero che dal Partito fosse ignorato il problema del fascismo; basta leggere “L’Ordine Nuovo” quotidiano; nel mese di marzo, due mesi dopo la formazione del Partito. Togliatti scriveva già un articolo in cui spiegava come le prime formazioni fasciste della Val Padana si stessero organizzando in accordo con la forza pubblica, per le loro “azioni punitive” - cosi le chiamavano - e faceva un quadro preciso del tipo di queste formazioni, della loro composizione.

Gramsci stesso sviluppa l’argomento quando dice, per esempio, che a Torino il reclutamento di fascisti non era facile; e scorge i primi germi del fascismo nella guerra mondiale: di là - egli spiega - nasce il fascismo. Un compagno poco fa ha confermato che effettivamente nei nazionalisti favorevoli alla guerra si ritrovano germi di fascismo: sviluppati poi soprattutto in coloro che - diventati ufficiali o sottufficiali durante la guerra
- non avevano, trovato la gloria e l’onore che si aspettavano, ma molte delusioni in tutti i campi. Ed era nato in loro malcontento, avvilimento e anche rancore; rancore contro gli operai che non erano andati in guerra, che erano stati “imboscati”. In realtà gli operai erano stati militarizzati, obbligati a lavorare nelle fabbriche come militari.

Da un nazionalismo distorto da quel malcontento, da quella irritazione, e insieme dalla illusione di intravedere confusamente nelle formazioni armate fasciste la possibilità di una via aperta verso il potere derivarono molte adesioni al primo fascismo, specialmente nella piccola borghesia. A Torino questo fenomeno non si verificò subito; si ebbero però a Torino le notizie dello squadrismo che operava nell’Emilia, che dall’Emilia passava in Toscana, dalla Toscana si allargava al Veneto e man mano si avvicinava; tanto che, subito, a Torino, organizzammo le squadre di difesa proletaria. Gramsci scriverà poi: “Nell’atto stesso della nostra costituzione, dovemmo trasformare i nostri primi gruppi di compagni in formazioni-per la guerriglia contro i fascisti”.

Fu una guerriglia organizzata; le nostre squadre, formate di sette, otto, dieci operai, e collegate fra di loro, ebbero come dirigente un giovane compagno che era stato ufficiale, un ingegnere, Somaré. Io fui incaricata di essere la depositaria dei suoi ruolini, perciò ne sono informata.

Erano i “ruolini” delle varie formazioni; ogni tanto Samoré veniva, li rivedeva, li aggiornava, li ingrandiva; se ne serviva; attraverso elementi di collegamento, giovani operai; a Torino servì molto l’esperienza fatta con l’occupazione delle fabbriche.

Le “guardie rosse” che avevano presidiato le fabbriche divennero quadri magnifici per quelle squadre di difesa. “L’Ordine Nuovo”, per esempio, fu molto assicurato.

La sede de “L’Ordine Nuovo” era modesta: una casetta nel centro di Torino, con un piccolo cortile. Al pianterreno c’era la tipografia, al primo piano c’erano la redazione e l’amministrazione: in stanzette separate da tramezzi di legno. In una di quelle stanzette lavorava Gramsci.

Nel cortile si stabili una guardia permanente di operai che si alternavano a turno di giorno e di notte. C’era uno sbarramento di filo spinato, di cavalli di frisia; a nostro vantaggio s’era anche sparsa la voce che quel cortile fosse minato, Le squadre fasciste passavano schiamazzando, ma correvano via senza fermarsi.

Quando diviene chiaro che il dissenso fra Gramsci e Bordiga e insuperabile? Nell’azione politica: prima sul problema degli “Arditi del popolo”, poi, quando nel Terzo congresso l’Internazionale Comunista dice che è compito dei Partiti comunisti conquistare la maggioranza dei lavoratori; e Bordiga non accetta quella indicazione. Bastano le minoranze armate e ardite – dice -la maggioranza ci seguirà quando avremo il potere. Anche sul problema dei rapporti con i socialisti nasce un dissenso; ma soprattutto il dissenso diventa decisivo e porterà alla rottura, quando in Italia si instaura il fascismo.

Il fascismo si instaura in Italia mentre Gramsci è a Mosca, da alcuni mesi a rappresentare il Partito nel Comitato esecutivo dell’Internazionale. Anch’io ero a Mosca in quei giorni: ero delegata al Quarto Congresso dell’Internazionale Comunista che doveva avvenire a novembre. Bordiga era ancora a Roma.

A Mosca ci raggiunse la notizia che Mussolini aveva avuto dal Re l’incarico di formare il governo.

Intorno a Gramsci si discuteva di che cosa sarebbe avvenuto in Italia; quale nuova situazione, quali nuovi problemi, quale nuova politica, quale nuova tattica si sarebbero presentate al Partito.

Arrivò Bordiga. Tutti l’aspettavamo per avere da lui notizie dirette dei fatti. Ci guardò sorpreso: “ma perché discutete tanto su queste cose?”. Ripeteva le sue categoriche affermazioni: “Che cos’è il governo di Mussolini? È un governo borghese, è la dittatura della borghesia, come il governo Giolitti, come il governo di Bonomi, o di Facta, che l’hanno preceduto; non pone nessun problema nuovo al Partito Comunista, né alla sua politica, né alla sua tattica”.

La discussione di Gramsci con Bordiga fu lunga e approfondita, io ne fui quasi sempre testimone.

Era uno scontro fra due posizioni inconciliabili: l’una, negazione di ogni azione politica concreta; l’altra, il seguire le situazioni, la realtà delle situazioni per adeguarvi la politica, la tattica e l’azione. Non era possibile un accordo fra quelle due posizioni.

Io ebbi anche un breve incontro con Lenin insieme con Bordiga. Bordiga a Lenin fece la stessa esposizione - con lo stesso commento, che aveva fatto a noi – dell’avvento del governo fascista in Italia; Lenin ne fu - mi parve - molto meravigliato; quando ci salutò ci disse: “Cari compagni, voi avrete una situazione molto difficile, che durerà un tempo lungo e duro; bisognerà non perdere mai il contatto con la realtà”.

Io pensai che Lenin, da Mosca, malato com’era, si rendeva conto come Bordiga non fosse riuscito a rimanere in contatto con la nuova realtà. Lenin ci disse ancora: “Non perdete mai il contatto con gli operai, con i contadini italiani, qualunque sia la situazione”.

Da quel momento, e in seguito, quanto più in Italia la situazione diventava tale da richiedere la lotta in modi nuovi, con forme e metodi anche organizzativamente nuovi, con parole d’ordine che rispondessero alle possibilità, e alla giusta valutazione delle forze dell’avversario e nostre, tanto più cresceva il divario tra le posizioni di Bordiga e quelle di Gramsci.

Fu soprattutto durante la crisi Matteotti, quando Gramsci prese la direzione del Partito; e nel cosiddetto “Aventino” ebbe quella parte che lo fece riconoscere come dirigente politico eccezionale dai lavoratori - e persino dagli avversari - che i compagni - fino a quel momento ancora legati a Bordiga - si spostarono e con convinzione riconobbero gli errori di Bordiga, e accolsero e attuarono la politica di Gramsci e del nuovo gruppo dirigente del Partito.

Gramsci aveva sempre affermato - anche a Mosca, durante il Quarto Congresso -: “La lotta contro Bordiga non si può fare né a Mosca, né in una riunione di noi dieci o dodici; la lotta contro Bordiga si deve fare nel Partito, nelle discussioni delle sezioni, delle federazioni, delle cellule, tra i compagni. Bisogna che il Partito sia conquistato ad altre posizioni politiche, che il Partito respinga le posizioni di Bordiga”: e senza attacchi personali.

Fu una lotta politica rigorosa e fermissima; ma non ci fu mai inimicizia tra Gramsci e Bordiga. Gramsci attaccò a fondo le posizioni di Bordiga.

Bordiga le difese con testardaggine, ma non si scese mai all’attacco personale che crea astio o rancore.

Io ne ebbi la prova quando dopo le leggi eccezionali Gramsci e Bordiga si incontrarono confinati ad Ustica. Io mi ero trovata quasi sola dopo gli arresti

avvenuti nell’Ufficio politico e nella Segreteria del Partito, Togliatti era a Mosca; e altri compagni erano all’estero dove li avevano rapidamente messi al riparo dai fascisti e dalla polizia fascista.

Da Ustica ricevetti un messaggio di Bordiga. C’era ancora Grieco con me, ricevemmo insieme quel messaggio che ci commosse: era brevissimo, un messaggio cifrato; diceva: “Non bisogna lasciare Gramsci nelle mani dei fascisti, bisogna liberare Gramsci da Ustica, io sono a vostra disposizione per l’aiuto di qua, se vi sentite fare qualcosa”.

E noi ci mettemmo subito all’opera. Ma purtroppo i fascisti sapevano che bisognava metter Gramsci più al sicuro che non a Ustica; a Ustica Gramsci rimase poche settimane dopo quel messaggio di Bordiga. Avemmo appena il tempo di iniziare il lavoro che ci eravamo proposto e di cui Grieco – al suo arrivo a Mosca – informò Togliatti.

In una mia lettera a Togliatti di quelle settimane; scrivevo: “Tu devi rimanere a Mosca: non devi venire in Italia almeno fino a quando “l’estasi non sia compiuta”, e cioè - riferendomi a parole convenute con Grieco - fino a quando Gramsci rimaneva nelle mani dei fascisti, Togliatti doveva essere salvaguardato e, per il momento rimanere a Mosca.


Il testo di Camilla Ravera è stato pubblicato in: Storia del PCI e storia d’Italia / Angelo Tasca ; seguito da testi di Giorgio Amendola, Camilla Ravera, Giacinto Menotti Serrati ; a cura di David Bidussa. - Milano : Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2021. - (Utopie : 103). - ISBN 978-88-6835-416-9. - pp. 197-219.


[1] Testo dell’intervento tenuto al seminario “Momenti e problemi di storia di storia del P.C.I.”, svoltosi tra il 25 e il 28 gennaio 1971 a cura della Sezione Scuole di Partito del Comitato centrale. Questo intervento è tenuto all’interno del ciclo di lezioni pubbliche che nelle stesse settimane (tra febbraio e marzo 1971) l’Istituto Gramsci tiene al Teatro delle Arti di Roma, poi radunate nel volume Problemi di storia del Partito comunista italiano, Editori Riuniti, Roma 1971 nella collana “Biblioteca del movimento operaio” diretta da Ernesto Ragionieri (con interventi di Paolo Spriano, Ernesto Ragionieri, Alessandro Natta, Gian Carlo Pajetta, Giorgio Amendola, Pietro Ingrao). Il testo di Camilla Ravera è “in dialogo”, soprattutto con il testo di Paolo Spriano (Significato storico della formazione del nuovo gruppo dirigente del PCI, pp. 9-32), ma anche con quello di Ragionieri (Il giudizio sul fascismo. La lotta contro il fascismo. I rapporti con l’Internazionale comunista, pp. 33-55), dove il tema della riflessione sul fascismo è affrontato a partire dal 1924, tralasciando il confronto, su cui Ravera si sofferma dettagliatamente nella seconda parte di questo suo intervento, già a partire dal 1921. Nel testo di Ragionieri trovo significativo che la ricostruzione della discussione sul fascismo all’interno del gruppo dirigente del Pci non affronti il periodo 1926-1928, coincidente con l’impegno e il ruolo essenziale di Angelo Tasca alla direzione del partito. Il testo dell’intervento, con il titolo “Intervento della compagna Camilla Ravera”, è conservato in FLB, S. Cronologico, b. 31 [1971-1972], cc. 20, datt. Scritti sul recto. David Bidussa, curatore del volume e di queste note da cui Girodivite/Antenati ha tratto le pagine di testimonianza di Camilla Ravera, ringrazia Vittore Armanni, responsabile del patrimonio di Fondazione Feltrinelli, per la segnalazione di questo documento - e noi con lui.

[2] Qui Ravera cita indirettamente quanto Gramsci scrive all’indomani del fallimento dello “sciopero delle lancette”. Cfr. Antonio Gramsci, Per un rinnovamento del Partito Socialista e Id., Al potere, in “L’Ordine Nuovo”, rispettivamente II, n. 1, 8 maggio 1920 e II, n. 2, 15 maggio 1920.

[3] Cfr. Antonio Gramsci, Per un rinnovamento del Partito socialista, in “L’Ordine Nuovo”, II, n. 1, 8 maggio 1920.


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