E dopo la provetta toccherà all’aborto / di Eugenio Scalfari

Partirà la campagna contro l’aborto, siatene certi. Con virulenza pari o maggiore di quella attualmente in corso. E poi partirà anche quella contro il divorzio.

di Redazione - domenica 5 giugno 2005 - 5431 letture

SUA Santità Benedetto XVI, nel primo incontro con la Conferenza episcopale italiana dell’altro ieri, è intervenuto sul referendum della procreazione assistita. È intervenuto, come si direbbe in gergo calcistico, a gamba tesa, quando l’arbitro fischia il fallo per gioco pericoloso. Qui da noi l’arbitro non esiste da tempo, anzi non è mai esistito da quando l’Italia si dette una Costituzione repubblicana e costituzionalizzò (all’articolo 7) i Patti lateranensi e il Concordato tra lo Stato e la Chiesa.

Il Concordato, stipulato nel 1929 da Mussolini e da Pio XI, immesso nella nostra Costituzione del 1947 e aggiornato (in peggio) nel 1984, era considerato fino a qualche tempo fa un testo normativo finalizzato principalmente a garantire la Chiesa da possibili inframmettenze dello Stato.

Non a caso, negli anni seguiti alla presa di Roma e alla fine del potere temporale del Papa, lo Stato italiano aveva unilateralmente emanato la cosiddetta legge delle Guarantigie, che mitigava il regime rigidamente separatista e cavouriano della libera Chiesa in libero Stato.

La Santa Sede aveva incassato i benefici di quella legge senza tuttavia dismettere la sua profonda ostilità nei confronti del regio inquilino del Quirinale e dei suoi governi massonico-liberali. I portoni dell’aristocrazia papalina erano rimasti sprangati, il non expedit era ancora operante impedendo ai cattolici ogni partecipazione alla vita politica del paese.

Passarono gli anni e i decenni. Cadde l’impedimento politico, nacque - subito dopo la guerra del 1915 - il Partito popolare di Sturzo. Poi, con l’avvento del fascismo, maturò il clima concordatario che la Santa Sede aveva preparato pagando il prezzo dello scioglimento del Partito popolare e dell’esilio di Sturzo. Con la nascita della Repubblica e dei governi democristiani il Concordato diventò un labile confine, in tutto simile alle parole scritte sulla sabbia; per il pochissimo che esse potevano ancora valere non servirono più a garantire l’autonomia della Chiesa dallo Stato ma, semmai, qualche brandello di autonomia dello Stato rispetto al potere dilagante della Chiesa.

L’Italia fu in quegli anni la sede temporale del potere ecclesiastico, penetrato per delega nei governi, negli enti pubblici, nelle leggi, nella Costituzione materiale.

Senza che ci fosse neppur bisogno d’una indicazione esplicita d’oltre Tevere.

Se di tanto in tanto ci fu qualche marginale resistenza in nome dell’autonomia dei cattolici politicamente impegnati, essa venne da alcuni di loro, De Gasperi e Moro; ma fu una resistenza marginale, dovuta a persone di eccezionale carattere e pagata a caro prezzo. Non tale comunque da modificare lo status sostanziale di uno Stato che era, anche nell’animo dei suoi governanti, una provincia vaticana.

Per mantenere indenne quella provincia e il potere temporale che ne derivava alla Chiesa, il Sacro soglio e le sue propaggini diocesane non misero mai sotto la ferula della morale cristiana (anzi cattolica) le malversazioni e la pubblica corruttela che avveniva sotto gli occhi di tutti fino ad esser diventata sistema di governo e di sottogoverno. Il settimo comandamento mosaico (non rubare) fu come cassato dalla tavola dei cosiddetti valori, ridotto a mera scelta opzionale da parte sia dei privati che dei rappresentanti delle pubbliche istituzioni. Non è mistero per nessuno ed anzi è ormai storicamente accertato che l’episcopato italiano fu cieco e sordo di fronte al sistema della pubblica corruttela del quale era perfettamente consapevole e spesso direttamente beneficiario come accadde, tanto per ricordare un macroscopico esempio, in occasione del vero e proprio "sacco di Roma" che durò dagli anni Cinquanta a tutti i Settanta, nel corso dei quali appalti, piani regolatori, aree verdi o di destinazione estensiva, furono manipolati per favorire ordini religiosi, grandi famiglie papaline, dignitari della Santa Sede, società immobiliari e palazzinare, dentro una rete di compiacenze di marca vaticana che spolparono la città come si spolpano le ossa d’un pollo.

Capisco che si tratta di questioni diverse, unificate però da un relativismo di valori da far invidia al più relativista dei laici e da un esplodere di "tutte le voglie dell’io" di fronte alle quali bisognerebbe almeno arrestarsi a riflettere sul gioco a palla tra i concetti del Bene e del Male.

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Dicevo che Benedetto XVI è entrato a gamba tesa nella questione della procreazione medicalmente assistita. Più ancora di quanto non avesse già fatto il suo predecessore il quale più e più volte aveva parlato della necessità di preservare la vita, dell’embrione come persone, dell’aborto come infanticidio, auspicando buone leggi che incorporassero questi valori; ma non era mai entrato nella loro casistica attuativa lasciando questa bisogna alle autonome scelte dei cattolici politicamente impegnati.

Lo stesso cardinal Ruini, presidente dell’episcopato italiano, le parole "referendum" e "astensione" non le aveva mai pronunciate. Allusioni, sì, e sempre più chiare col passar delle settimane, restando però sul generico e sull’implicito. L’esplicito l’aveva lasciato ai vari comitati per la vita (quasi che i fautori del "sì" fossero portatori di morte come i cavalieri dell’Apocalisse) e al giornale della Cei, al laicato cattolico più integralista e alla nuova categoria dei "laici devoti": i più vocianti e più fondamentalisti in questa come in altre consimili occasioni.

Interrogato poco prima della sua ascesa al pontificato il cardinale Ratzinger, custode della fede, a proposito dei "laici devoti" aveva preso le distanze; così pure le aveva prese da quei "cristiani rinati" di ceppo vetero-presbiteriano che negli Stati Uniti sono stati e sono il nerbo delle truppe scelte sostenitrici della presidenza Bush.

Proprio sulla base di queste caute prese di posizione molti esegeti vaticanisti avevano preconizzato un Papa diverso sia dal cardinale che era stato fino alla vigilia sia del suo predecessore. Né era stato sottovalutato l’apporto arrivato in conclave fin dalla seconda votazione da parte dei cosiddetti "martiniani", al quale Benedetto XVI ha infatti già promesso maggiore collegialità e più frequenti ricorsi ai sinodi e al Sinodo. Forse si è perso di vista il fatto che, una volta caduta in conclave l’ipotesi di un Papa extraeuropeo, tra i papabili in campo era rimasto, oltre che Ratzinger, lo stesso Ruini, con non poche chance di vittoria per l’ampiezza delle amicizie con episcopati e cardinali poveri quanto remoti verso i quali la Cei era stata generosamente vicina valendosi dei cospicui fondi dell’8 per mille.

Sta di fatto che Ruini non affrontò la lotta col suo collega Ratzinger. Ma ora gioca le sue carte come leader ecclesiale della "provincia" italiana. E infatti le sta giocando. I vescovi sono passati, in tema referendario, dall’implicito all’esplicito; Ruini ha compiuto lo stesso salto di qualità. Infine il Papa ha varcato anche lui il Rubicone concordatario dicendo ai vescovi: "Prego per voi e vi ringrazio per quanto state facendo per illuminare le coscienze con riferimento alla prossima consultazione referendaria".

Volete dunque un Papa muto? domandano perentoriamente i giornali neocon.

No, rispondiamo. Vorremmo un Papa che preghi, predichi il messaggio evangelico e lo diffonda con tutti i mezzi e la morale che ne deriva ma lasci agli uomini e alle donne, religiosi o non religiosi, il diritto di decidere in autonomia il loro personale "che fare". Si obietta: la Chiesa suggerisce ma non impone. Certo. In un tempo nemmeno lontanissimo la Chiesa suggeriva e anche imponeva. Poi Wojtyla ha chiesto pubblicamente perdono per quel passato. In tempo non lontanissimo la Chiesa assumeva come verità di dottrina argomenti che poi si svelarono insostenibili. Galileo lo visse sulla propria pelle. Giordano Bruno e Campanella la pelle ce la lasciarono. Poi Wojtyla ha chiesto perdono, almeno per Galileo.

C’è dunque molto relativismo nelle verità dottrinali predicate dalla Chiesa e ciò che sembrò vero ieri e l’altro ieri viene considerato oggi colpevolmente sbagliato. Esiste dunque la possibilità che su fratello embrione la Chiesa cambi opinione tra cinquanta o cent’anni. Ma chi ripagherà coloro che oggi, costretti dall’obbedienza cattolica, anteporranno il suo magistero al proprio libero convincimento? E soprattutto chi ripagherà coloro che, a causa di quelle scelte, vedranno calpestati diritti inviolabili? I massacrati della notte di San Bartolomeo, le streghe bruciati dagli Inquisitori del Sant’Uffizio e tutte le altre migliaia e migliaia di vittime d’una fede armata e persecutoria, sono morti da un pezzo. La richiesta di perdono formulata dopo anni e secoli non può avere risposta perché le vittime ormai sono cenere. Chi le indennizzerà e chi indennizzerà le possibili vittime del futuro?

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È fin troppo ovvio che il prossimo obiettivo dell’episcopato italiano e delle forze politiche arruolate al suo fianco sarà la legge sull’aborto. Sulla base di essa infatti le donne possono decidere e ottenere l’aborto terapeutico non appena si accorgano che il feto che portano nel ventre è affetto da grave malattia o difetto genetico.

Per quanto riguarda la procreazione assistita, di quell’eventuale difetto ci si potrebbe accorgere attraverso l’esame preventivo dell’embrione, che però è vietato dalla legge 40. Il referendum chiede che quello sciagurato articolo sia abolito. Ma se non lo sarà per mancanza di validità del referendum, si dovrà abolire anche l’aborto terapeutico per l’evidente contraddizione tra i due testi.

Se il fratello embrione merita rispetto, non si capirebbe infatti perché il feto, suo fratello maggiore, possa esser trattato come immondizia.

Partirà dunque la campagna contro l’aborto, siatene certi.

Con virulenza pari o maggiore di quella attualmente in corso. E poi partirà anche quella contro il divorzio. Adesso smentiscono queste intenzioni. Per ovvie ragioni.

Concentrano la pressione su fratello embrione. Debbo dire: Marco Pannella, che in molte questioni sostiene tesi da me non condivise, ha dimostrato una stoffa di grande attore nel recente dibattito con Giuliano Ferrara.

Gli ha detto: "Se l’embrione è nostro fratello, avrà pure un padre. Il padre dell’embrione è senza ombra di dubbio lo spermatozoo. Chi si masturba fa strage dei padri dell’embrione. Non si deve dunque vietare e dichiarare punibile chi uccide per suo piacere i padri dell’embrione?".

Si tratta di una battuta, ma serve per capire dove si può arrivare quando i concetti vengono usati come clave.

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La posizione di quanti sostengono il "sì" nel referendum è molto chiara. Si riassume così: l’embrione è un progetto di persona e non una persona; ha diritto a un suo status; la legge deve servire a delineare quello status e i diritti che ne conseguono. Se quei diritti entrano in conflitto con i diritti di persone già esistenti, cedono il passo a questi, specie se si tratta dei diritti della donna che col suo corpo consente all’embrione da lei prodotto insieme all’uomo che le è compagno, di vivere e di svilupparsi. Quanto al partito della vita e a quello della morte, questa divisione di campo tra black and white è vergognosamente falsa. Chi vota "sì" al referendum vota per accrescere il numero dei nascituri sani e liberamente voluti e anche per consentire più ampia e fruttifera ricerca in favore dei malati di oggi e di domani.

Se questo è un partito di morte lo giudichino i lettori e tutte le persone di retto sentire, non disposte a portare i cervelli all’ammasso.

(1 giugno 2005, repubblica.it)


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