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Ungheria - Uno Sguardo sul Presente

Disamina della situazione dell’Ungheria, paese che dovrebbe essere preso a modello in molti settori

di Emanuele G. - giovedì 25 ottobre 2007 - 2345 letture

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Ungheria

Il 9 aprile del 2006 non è stato soltanto il giorno delle elezioni politiche in Italia. Negli stessi giorni gli Ungheresi hanno ultimato la prima fase del complesso meccanismo elettorale che caratterizza il loro paese. Sono state le prime elezioni dall’ingresso dell’Ungheria nell’Unione europea: la vittoria del partito socialista ungherese (MSZP), se convalidata dal secondo turno del 23 aprile, sarebbe la prima conferma di uno schieramento uscente in Ungheria dal 1989.

Il MSZP (presieduto dall’attuale primo ministro Ferenc Gyurcsány) ha conquistato il 43,21 percento dei voti contro il 42,03 dello schieramento rivale, il FIDESZ, il partito liberal-populista guidato da Viktor Orbán. I principali contendenti di queste elezioni sono tra i leader politici più giovani d’Europa: entrambi poco più che quarantenni, entrambi già primi ministri, entrambi con una lunga esperienza nella politica e nella finanza ungheresi.

La partita elettorale è ancora aperta. Più di un quarto dei seggi restano da attribuire nel secondo turno: in particolare sarà determinante la posizione che assumeranno i due partiti minori, il SZDSZ (liberale di sinistra) e il MDF (centro destra).

I quattro anni di governo del MSZP hanno portato l’Ungheria più vicina all’Europa: è stato avviato un importante potenziamento delle infrastrutture, i livelli salariali sono notevolmente aumentati e i legami economici con l’Unione europea si sono intensificati. Tuttavia il disavanzo commerciale e della bilancia dei pagamenti è cresciuto, così come il deficit pubblico, che già nel 2002 aveva raggiunto livelli preoccupanti. La capacità del paese di attrarre gli investitori esteri resta forte, ma non ha più la brillantezza di un tempo. Tutto ciò rende più complicato il percorso dell’Ungheria verso l’adozione dell’euro, prevista per il 2010.

Il clima politico ungherese è da diversi anni caratterizzato da una forte dialettica tra i due principali schieramenti, che non ha risparmiato eccessi, scandali e retoriche populiste. Nel 2002, all’indomani della vittoria di misura del partito socialista, l’allora premier Péter Medgyessy venne accusato di essere stato al servizio dell’intelligence sovietica, prima e durante il suo mandato come ministro delle finanze, nell’ultimo governo dell’Ungheria comunista. Tali accuse si rivelarono infondate… o per lo meno così si decise, per evitare di compromettere l’intera classe dirigente ungherese, di ogni partito e di ogni orientamento. Molti personaggi, con posizioni diverse all’interno della struttura economica e politica del paese, sono legati in corda doppia ed in modo ambiguo al loro passato comunista.

Sempre nel 2002, in seguito alla sconfitta di misura del suo partito, Viktor Orbán si ritirò platealmente dalla politica parlamentare, organizzando movimenti di piazza (i cosiddetti “circoli civici”) e fondando un movimento populista dal nome famigliare: Hajra, Magyarorszag!, ovvero Forza Ungheria!.

Il sistema politico ungherese è considerato da molti il migliore in Europa centro orientale, ed uno dei migliori in Europa tout court. Il meccanismo elettorale è molto complesso, ma garantisce l’alternanza tra destra e sinistra senza creare instabilità, il bipolarismo salvaguardando la sopravvivenza dei partiti di medie dimensioni, la rappresentanza locale in un parlamento snello e monocamerale. In tanta perfezione fa piacere sapere che esistono, di tanto in tanto, episodi originali quali quelli verificatisi nel 2002.

Una grande efficacia (tale da generare ammirazione in un osservatore esterno), un meccanismo innovativo e complicato (tale da generare qualche perplessità in un osservatore esterno) e qualche “nota di colore” (tale da far capire ad un osservatore esterno che l’Ungheria non è così diversa da altri paesi dell’Europa centro orientale – o al limite dal nostro) non costituiscono soltanto le caratteristiche peculiari del sistema politico ungherese. Tali proprietà si rispecchiano più in generale nella società ungherese, ed in particolare nell’evoluzione recente del suo sistema economico.

Gli ungheresi hanno vissuto dignitosamente e con appassionati sentimenti di unità nazionale gli anni del comunismo. Hanno sempre offerto ai visitatori del loro paese oppresso da una potenza straniera, l’Unione Sovietica, la loro disponibilità di interlocutori raffinati ma anche combattivi, fiduciosi che i valori della democrazia occidentale avrebbero un giorno prevalso. Gli economisti ungheresi, fin dai tempi del comunismo, erano convinti che non sarebbero stati in grado di raggiungere il livello tecnologico e organizzativo delle imprese occidentali, e quindi la loro competitività. La loro consapevolezza di “non farcela da soli” era assoluta. Da qui la volontà di sviluppare la cooperazione economica con le imprese occidentali. Questo atteggiamento e questa disponibilità facevano pensare che le classi dirigenti ungheresi avrebbero agito in linea con tutte le necessità derivanti dalla creazione di nuove istituzioni mercantili e democratiche. In realtà questo percorso è stato assai meno lineare.

Nella letteratura economica la cosiddetta “via ungherese” alla transizione e alla privatizzazione è diventata un modello da seguire per i paesi che muovono i primi passi verso l’economia di mercato. La ricetta sembra semplice: vendita delle imprese pubbliche al capitale estero, afflusso di investimenti esteri diretti, liberalizzazione veloce e politiche di attrazione per le imprese multinazionali, in grado di portare nel paese capitali e capacità tecniche. In realtà il processo di privatizzazione in Ungheria non è stato né semplice né breve, né ha affidato ai grandi investitori esteri il ruolo di protagonisti indiscussi.

La privatizzazione in Ungheria è formalmente iniziata nei primi anni ’80, con la legalizzazione delle piccole attività private da parte del regime flessibile di János Kádár e la riorganizzazione di molte grandi imprese pubbliche, scorporate e “corporatizzate”, affidate cioè a manager e a “consigli di impresa”. Questa tendenza è proseguita per tutto il decennio ma non ha prodotto risultati sostanziali, per mancanza di capitali e di vere innovazioni gestionali. Tuttavia questa “privatizzazione spontanea” ha creato una classe di piccoli imprenditori e manager che, agendo sia nella legalità che all’interno delle molteplici “zone grigie” esistenti, sono stati in grado di sfruttare le opportunità che si sono presentate dopo il 1989.

La “vera privatizzazione” degli anni ’90 ha seguito molte strade parallele che si sono incrociate, perse e confuse, contribuendo a confondere le acque e a fare di questo processo (pur positivo per l’evoluzione economica del paese) un fenomeno tutt’altro che trasparente. La privatizzazione e la ristrutturazione delle imprese ha dato luogo a una pratica generalizzata di appropriazione illecita di attività produttive già possedute dallo stato. Chi, alcuni anni fa, avesse visitato l’Ungheria in transizione si sarebbe reso conto, con sorpresa e disappunto, che anch’essa non era estranea alla pratica, diffusa in tutti i paesi ex comunisti, di acquisire illegittimamente la ricchezza pubblica.

Per realizzare la privatizzazione sono stati usati strumenti assai semplici e immediatamente operativi, indipendentemente dal grado di sviluppo delle istituzioni mercantili. In tutti i paesi in transizione la “piccola privatizzazione” (di negozi, botteghe artigiane, piccole attività di trasporti) è stata realizzata rapidamente senza particolari difficoltà. La privatizzazione delle grandi imprese è stata invece realizzata attraverso la loro trasformazione in società commerciali, di cui i gruppi più agguerriti della classe dirigente nazionale (insieme a investitori esteri) si sono appropriati in base alla loro posizione all’interno delle imprese, nonché ai loro rapporti privilegiati con il mondo politico. In base a questo schema di divisione del lavoro la società russa, per esempio, è stata definita una “società di clan”, klanovoe obščestvo. I clan comprendono i rappresentanti dei vecchi dirigenti delle imprese, i nuovi manager e alcuni funzionari dello stato ancora influenti. La funzione di questi ultimi è quella di tenere d’occhio i cambiamenti nelle strutture del potere e dei loro protagonisti.

Questo assetto del sistema economico e sociale dei paesi in transizione ha generato una nuova definizione delle modalità operative dell’economia: originariamente il meccanismo regolatore del mercato è stato chiamato la mano invisibile; in seguito esso ha preso il nome di mano visibile della pianificazione sovietica; infine questo meccanismo è stato definito grabbing hand. Anche l’Ungheria, nonostante il suo spirito civile profondamente radicato, non ha potuto resistere al furto organizzato della mano che arraffa.

Per quanto la giustificazione sociale e le basi legali della mano che arraffa restino per definizione difficilmente provate, si tratta di un meccanismo di regolazione dell’economia che ha una sua dignità, che ha sostanzialmente funzionato nell’esperienza ungherese e che ha prodotto effetti (positivi e negativi) apprezzabili ancora oggi. Esso ha garantito un approccio flessibile e pragmatico alla privatizzazione, che ha dato agli operatori effettivamente interessati alla gestione delle imprese la possibilità di acquisirle. I proprietari figli della mano che arraffa sono meno dispersi, più preparati e più dotati di capitali rispetto a quelli che si sarebbero fatti avanti in caso di vendita o distribuzione lineare e trasparente. In virtù della mano che arraffa gli operatori esteri e le multinazionali hanno beneficiato di una relativa facilità nel trattare con gli esponenti del potere politico ed economico ungherese. Tale situazione ha avuto effetti positivi sia sulla gestione d’impresa, sia sulla ristrutturazione delle ex imprese statali.

I figli di questa generazione di imprenditori sono stati a loro volta in grado di sviluppare un nuovo mercato tecnologico e di creare nuove piccole e medie imprese, che oggi formano un secondo tessuto connettivo dell’economia ungherese. Il fenomeno dell’evoluzione e della disciplina della mano che arraffa si è verificato ovunque, anche in Russia, seppure con dimensioni inadeguate rispetto alla dimensione del paese.

Le ricadute negative di questo sistema sono nondimeno rilevanti. La maggior velocità e profittabilità delle privatizzazioni è stato in molti casi il prezzo pagato per l’acquisizione di posizioni di quasi-monopolio sul mercato interno, che a tutt’oggi soffre di eccessiva concentrazione e scarsa concorrenza. La mortalità delle imprese e gli shock occupazionali nel corso della privatizzazione sono stati ingenti. L’Ungheria è più vulnerabile di un tempo all’andamento dei mercati internazionali ed alle decisioni strategiche di pochi operatori, perlopiù esteri. Tuttavia il caso ungherese ha fatto scuola, e questo è stato possibile grazie ad una sapiente miscela di corrette scelte strategiche ed all’insieme di strumenti più o meno ortodossi utilizzati nel portarle avanti.

Ferenc Gyurcsány, primo ministro uscente, nonché candidato premier del MSZP e probabile futuro capo del governo, è l’incarnazione dei particolari accostamenti che esistono nella politica e nell’economia ungheresi. È a capo della coalizione di sinistra, ma proviene dal mondo degli affari e figura tra gli uomini più ricchi dell’Ungheria. È laureato in economia, ha attuato decise politiche di mercato e di attrazione degli investimenti, ma ha militato attivamente nei giovani comunisti ungheresi ed è sposato con la nipote di uno dei dirigenti dell’establishment socialista degli anni ’60. Ha diviso la sua carriera tra politica e mondo degli affari, costruendo le sue ingenti fortune sulle privatizzazioni degli anni ’90: le imprese per le quali ha lavorato sono state responsabili di alcune importanti fasi della privatizzazione ungherese, sulla cui trasparenza molto si è discusso.

Come si è visto, la sua storia è simile a quella di tanti altri imprenditori che costellano l’economia e la politica dell’Ungheria. E anche se non è la storia di un vero Robin Hood, pazienza: del resto, si sa, i personaggi delle leggende raramente irrompono nel mondo reale.

Che il 23 aprile vinca il migliore.

Aprile 2006

Prof. Carlo Boffito

carlo.boffito@unito.it

Dott. Federico Mallone

federico.mallone@unito.it


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