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Quel pasticciaccio brutto del processo a Julia

12 ottobre 2011 di matteotacconi

Per gentile concessione di Radio Europa Unita

di Emanuele G. - giovedì 13 ottobre 2011 - 1433 letture

Pubblicato da Europa il 12 ottobre 2011

Politica, potere, soldi, gas, Europa e Russia. Tutti i fattori e tutti i nodi del processo Tymoshenko. Ieri la sentenza in primo grado, pesante. All’ex premier sono stati comminati sette anni di carcere.

Sette anni di carcere. Tanti quanti ne aveva chiesti l’accusa. Si conclude così, senza sconti e senza attenutati, il processo più famoso della storia post-sovietica dell’Ucraina: quello a carico di Julia Tymoshenko. La guida carismatica della “rivoluzione arancione”, ex primo ministro e oggi numero uno dell’opposizione, finisce dentro.

Ieri il giudice Rodion Kirejev, snocciolando la sentenza, ha ribadito l’accusa alla base di questo procedimento giudiziario, di natura penale. Tymoshenko, in qualità di primo ministro, abusò «deliberatamente e in flagranza» dei suoi poteri, «per scopi criminali», quando nel 2009 siglò con l’omologo russo Vladimir Putin i nuovi termini decennali delle importazioni di gas russo, infliggendo a Naftogaz, la compagnia statale del metano, un danno calcolato in 1,5 miliardi di hrivna. Calcolatrice alla mano, si tratta di circa a 135 milioni di euro. Tymoshenko, questa cifra, è tenuta a ripagarla. Così ha stabilito la corte, che ha peraltro comminato alla “pasionaria di Kiev” il divieto di ricoprire cariche pubbliche per tre anni. Messa in altri termini, significa che quando in Ucraina si tornerà a votare – a ottobre 2012 si rinnova il parlamento monocamerale (Rada) – la nostra non potrà candidarsi.

Se la corte ha confermato e ribadito le accuse (la tesi è che Julia abbia agito senza l’approvazione del gabinetto dei ministri), Tymoshenko ha ripetuto ancora una volta, dopo la lettura della sentenza, ascoltata senza staccare gli occhi dal suo iPad, che questo processo è stato politicamente motivato, affermando che l’Ucraina è tornata alle purghe staliniane e annunciando che ricorrerà in appello.

Fuori dal tribunale si sono radunati i suoi sostenitori, come i suoi detrattori. C’è stata qualche schermaglia e qualche arresto, riporta il sito della Bbc. Mentre Mikola Tomenko, esponente di Batkivshchina (Patria), il partito della Tymoshenko, ha spiegato al sito di Radio Free Europe che è forte la tentazione di boicottare le prossime parlamentari, a meno che Julia e Jurij Lutsenko, ex ministro degli interni nel governo Tymoshenko, anch’egli accusato (e processato) per abuso d’ufficio, non vengano ammessi alla competizione.

Durissima la reazione di Bruxelles. La baronessa Cathy Ashton, ministra degli esteri dell’Ue, ha diffuso un comunicato dai toni perentori. «Il verdetto non ha rispettato gli standard internazionali di equità, trasparenza e indipendenza […] e ha confermato che la giustizia è stata applicata in maniera selettiva». Ashton ha chiuso il comunicato riferendo – linguaggio agguerrito e lontano da ogni morbidezza diplomatica – che la condanna di Tymoshenko rischia di avere profonde conseguenze nei rapporti euroucraini, nonché sui negoziati riguardanti il Deep and Comprehensive Free Trade Agreement (Dcfta), un’intesa volta a integrare maggiormente l’Ucraina ai mercati comunitari, la cui firma è stata vincolata dall’Ue alla soluzione positiva dell’affaire Tymoshenko. In caso di condanna, niente Dcfta, hanno più volte detto i grandi d’Europa al presidente ucraino Viktor Yanukovich. È lui, secondo Tymoshenko, che ha scritto la sentenza. È lui, a detta dei più, che ha ordinato il processo.

Ma qui bisogna fare un passo indietro, all’inizio di tutta questa storia. Il 7 febbraio del 2010 Viktor Yanukovich, capo del Partito delle Regioni, vince le presidenziali, sconfiggendo al ballottaggio la Tymoshenko e succedendo a Viktor Yushchenko. Cambia il fuso orario politico dell’Ucraina. Termina definitivamente la stagione segnata dal binomio filo occidentale Yushchenko-Tymoshenko, nata dalla “rivoluzione arancione”; torna al potere la cosiddetta fazione filorussa.

Il primo provvedimento di Yanukovich è abbastanza indicativo. Il capo dello stato rinnova fino al 2042, con un’opzione al 2045, la concessione della base navale di Sebastopoli, in scadenza nel 2017, dov’è ormeggiata la flotta russa sul Mar Nero. Tymoshenko, se eletta, avrebbe dato il benservito agli ammiragli di Mosca. Qualche settimana dopo, inizia l’operazione giudiziaria contro la pasionaria. In molti ritengono che Yanukovich voglia eliminare dal campo di battaglia il suo unico vero rivale (Yushchenko, 5 per cento alle elezioni, è politicamente “bollito”).

Forse è davvero così. Ma la questione va oltre la rivalità politica. C’entrano anche i soldi e c’entra soprattutto il gas, che negli anni ha dato vita a diverse contese tra Mosca e Kiev, con la prima che ha usato l’energia come clava nei confronti del campo arancione. Yanukovich sa che il prezzo della materia prima importata dalla Russia è molto, troppo alto, quasi “europeo”. Il paese, prostrato duramente dalla crisi globale e soccorso dal Fondo monetario, non può permettersi di spendere così tanto. Quindi – non è da escludere che abbia pensato così – fa i suoi conti: se condanniamo la Tymoshenko per via di quegli accordi sul gas, delegittimandoli, in sostanza, possiamo ottenerne la revisione al ribasso. E scatta il processo.

Però i russi, che peraltro sostengono la legalità degli accordi del 2009, non si mostrano così accondiscendenti sull’argomento e pongono condizioni pesanti per lo sconto: adesione all’unione doganale russo-khazako-bielorussa (istituita l’anno scorso) e cessione del 50 per cento delle quote di Naftogaz a Gazprom. È troppo, anche per un filorusso.

È così che Yanukovich volge lo sguardo verso Bruxelles. Prendono quota le trattative sul Dcfta, peraltro durante la presidenza polacca, sensibile al tema dell’Est e al contenimento della Russia. Bruxelles, tuttavia, chiede di farla finita con la giustizia selettiva. Yanukovich s’infila in un vicolo cieco. Si ritrova tirato per la giacca, da una parte e dall’altra.

Il resto è storia di ieri. La fine del processo, la condanna di Tymoshenko, le proteste di Ashton. Come andrà a finire? Da qui all’appello, sostiene il giornalista Stefano Grazioli, autore di Gazprom. Il nuovo impero e attento osservatore dell’universo energetico e politico post-sovietico, «c’è ancora qualche spazio di manovra. La condanna è stata necessaria, per Yanukovich. Può infatti ancora sperare in un arbitrato internazionale che annulli i precedenti accordi sul gas con i russi». Anche se Putin, proprio ieri, ha affermato che non ha capito il motivo della condanna di Tymoshenko e che reputa «controproducente» e «pericoloso» mettere in discussione l’intesa di due anni fa sul gas.

«Dall’altra parte – è ancora Grazioli che parla – è possibile che il capo dello stato ucraino provi a salvare la faccia con gli europei, magari depenalizzando l’articolo del codice penale in base al quale la Tymoshenko è stata condannata». L’ipotesi è in discussione alla Rada, dove ultimamente è stato licenziato un progetto di legge che va in questa direzione. Se venisse approvato Tymoshenko potrebbe evitare il carcere e Yanukovich recuperare, chissà, il dialogo con Bruxelles. Comunque sia tutto questo pasticciaccio ribadisce il paradosso dell’Ucraina, sempre a metà strada, a prescindere dalle oscillazioni verso l’una o l’altra, tra Europa e Russia. Limbo, lo chiama qualcuno.

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