Nel merito. Il no in 10 punti. Di Roberta Calvano

Roberta Calvano, è professore ordinario di Diritto costituzionale nell’Università degli studi di Roma Unitelma Sapienza

di Redazione - domenica 23 ottobre 2016 - 8756 letture

La riforma del bicameralismo paritario, da tempo auspicata, così come disegnata – appare irrazionale. Da un lato essa produrrebbe come primo assurdo effetto la presenza di due rami del Parlamento con maggioranze diverse e contrapposte; inoltre ridurre i soli componenti del Senato senza prevedere una contemporanea riduzione dei componenti della Camera produrrebbe un eccessivo squilibrio dimensionale tra le due camere che si riverbererebbe tra l’altro sull’elezione del Presidente della Repubblica e dei componenti del CSM.

Il ddl disciplina la composizione del Senato in maniera confusa e poco chiara, non consentendo una chiara rappresentazione del pluralismo territoriale, sociale e politico delle Regioni e degli enti locali; otto regioni si vedrebbero attribuire solo due senatori ciascuna, mentre altre verrebbero sovrarappresentate irragionevolmente pur avendo una popolazione inferiore (Liguria con 1.500.000 abitanti avrà due senatori, Trentino con 1.250.000 ne avrà quattro), mentre si approfondirebbe il divario tra Regioni del nord e Regioni del sud.

Il ddl disegna per il Senato un insieme di compiti per cui, se da un lato esso sarebbe privo di poteri significativi, dall’altro esso verrebbe gravato di compiti ad alto tasso di tecnicismo inadatti ad essere svolti dai senatori-sindaci e senatori-consiglieri regionali, rischiando in definitiva di avere soltanto una funzione di blocco e rallentamento a causa della complessità delle procedure. Il mantenimento del divieto di mandato imperativo per i senatori impedirebbe al Senato di essere la sede di rappresentanza degli enti territoriali e la Camera delle autonomie da tempo auspicata. Al di fuori di esso, la reale sede di incontro delle istanze della periferia e del centro risiederebbe ancora nel sistema delle conferenze Stato regioni, non menzionato nel testo costituzionale.

Le procedure legislative disegnate nel ddl sono barocche e farraginose e non realizzerebbero l’intento di produrre snellimento e semplificazione; persino il voto a data certa prevede una disciplina che sacrificherebbe al massimo la democraticità a vantaggio di una esigua riduzione dei tempi (75gg); in questo quadro, affidare al Senato l’attuazione dei numerosissimi atti adottati dall’Ue smentisce poi la proclamata velocizzazione e snellimento delle procedure. Considerando poi che il Senato sarà estromesso dal circuito fiduciario, esso non potrà essere “riportato all’ordine” tramite lo strumento della questione di fiducia.

Il ddl produrrebbe il risultato paradossale per cui, mentre alle Regioni verrebbe garantita finalmente una loro (più nominale che reale) rappresentanza in Parlamento, esse verrebbero private di larga parte dei loro poteri normativi; le Regioni a statuto speciale conserverebbero invece le loro prerogative, non si capisce perché, rimanendo per esse valido il vecchio titolo V. Altrettanto singolarmente, le province autonome di Trento e Bolzano conserverebbero notevoli privilegi mentre tutte le altre province verrebbero cancellate dal testo costituzionale.

La disciplina del decreto legge nel ddl, nonostante la previsione di limiti all’abuso di questo strumento (cui si è assistito per decenni), non riuscirebbe ad incidere su una prassi che deriva non dall’assenza di limiti, ma dalla debolezza estrema dell’istituzione parlamentare collegata al sistema elettorale e alla crisi dei partiti; pensare di risolvere un problema annoso come quello dell’abuso del decreto legge senza guardare alle cause appare illusorio.

Per quanto concerne gli strumenti di democrazia diretta, il ddl introduce la possibilità di Referendum propositivi senza indicare potere di iniziativa, limiti, procedure: una norma in bianco che rischia di essere pericolosa; si prevede poi l’abbassamento del quorum per i soli referendum abrogativi proposti da forze politiche che riescano a raccogliere 800.000 firme, collegandolo all’affluenza al voto delle precedenti elezioni politiche. Si avvantaggerebbe così impropriamente chi ha già una diffusa presenza sul territorio e mezzi economici necessari per le (oggi molto costose) operazioni di raccolta delle firme. Presidente della Repubblica e Corte costituzionale, quali organi di massima garanzia della Costituzione pur essendo toccati marginalmente dal ddl appaiono a rischio di indebolimento; il primo per una norma che ne consentirebbe l’elezione a maggioranza dei presenti (dal settimo scrutinio maggioranza dei 3/5) e non dei componenti l’organo; la seconda per la nomina di due componenti da parte del Senato, che non potrebbe che connotarli come “giudici delle regioni”, finendo col minare l’unitarietà e la legittimazione del collegio di massima garanzia della Costituzione.

Gli effetti complessivi sulla forma di Stato e di governo possono sinteticamente essere descritti come di accentramento di troppi poteri dalla periferia al centro e dagli altri organi in capo al governo, e più grave ancora, di una costruzione barocca e complicata che potrebbe portare a molti problemi applicativi.


Fonte: Centro Riforma dello Stato.



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