Le storie di Maysoon Majidi e Marjan Jamali
Il prossimo 18 settembre presso il Tribunale di Crotone si terrà la seconda udienza del processo contro Maysoon Majidi, accusata di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare ai sensi dell’art. 12 del Testo Unico sull’Immigrazione.
Maysoon Majidi è una regista e attrice curda-iraniana di 27 anni. Attiva nel proprio paese con un impegno sociale, politico e culturale a promozione dei diritti, per cui è stata licenziata dall’Università in cui lavorava, nel 2023 ha lasciato l’Iran, cercando di fuggire dal regime oppressivo che vige nel paese e sulla vita delle persone che lo abitano. Un regime diventato ancora più soffocante dopo le rivolte nate a seguito dell’uccisione di Mahsa Jina Amini e conosciuta in tutto il mondo con lo slogan “Donna Vita Libertà”. I giovani e le donne sono diventati il bersaglio principale della repressione, che ha portato ad arresti e detenzioni arbitrarie, sparizioni forzate, torture, violenze, assassinii. È di fronte a tutto questo che Maysoon Majidi è scappata in cerca di protezione, arrivando sulle coste calabresi il 31 dicembre 2023.
Ora Maysoon Majidi si trova nel carcere di Reggio Calabria, in cui è stata trasferita il 5 luglio, dopo sei mesi di detenzione nel carcere di Castrovillari. L’accusa con cui è detenuta è favoreggiamento dell’immigrazione irregolare ai sensi dell’art. 12 del Testo Unico sull’immigrazione. Nello specifico, è accusata di essere una scafista. Le accuse contro Maysoon sarebbero arrivate da due compagni di traversata, che in seguito si sarebbero messi in contatto con il difensore di Maysoon Majidi, spiegando di essere stati non trafficati, bensì aiutati dalla ventisettenne, che non avrebbero mai accusato di essere la capitana dell’imbarcazione su cui viaggiavano.
In una situazione molto simile si trova Marjan Jamali. Marjan è una donna iraniana di ventinove anni, attualmente ospitata insieme al figlio di otto anni dalla cooperativa “Jungi Mundu” a Camini, così come deciso dal Tribunale del Riesame di Reggio Calabria. È in attesa del processo, che è in corso al Tribunale di Locri. Secondo l’accusa, Marjam Jamali faceva parte di un gruppo di circa cento persone, soccorse dalle autorità italiane a fine ottobre mentre si trovavano a bordo di una barca a vela al largo delle coste calabresi. Insieme al figlio è fuggita dalla violenza del compagno e del regime iraniano. A due giorni dallo sbarco nel porto di Roccella Jonica, Marjan viene arrestata con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, a seguito delle dichiarazioni rese da tre uomini iracheni – poi spariti – che si trovavano con lei sulla barca. Altri testimoni avrebbero dichiarato il contrario, mentre lei denuncia un tentativo di violenza sessuale da parte dei tre, contro cui Marjan avrebbe resistito.
La questione legislativa
L’accusa con cui Maysoon e Marjan sono state arrestate e tradotte in carcere poggia sull’articolo 12 del Testo Unico Immigrazione (TUI), che punisce le condotte volte a facilitare l’ingresso irregolare di un cittadino straniero. Affinché si configuri il reato, l’articolo 12 richiede l’intenzione di svolgere la condotta descritta nell’offesa, indipendentemente dal motivo e dal raggiungimento dell’obiettivo. Il profitto finanziario o materiale derivante dal favoreggiamento dell’ingresso irregolare è una circostanza aggravante, ma non un elemento costitutivo del crimine.
La legge italiana non si allinea alla definizione internazionale di “traffico di esseri umani” così come presente nel Protocollo delle Nazioni Unite adottato nel 2000 e ratificato dall’Italia, in cui “il traffico di migranti” viene definito come “il procurare – al fine di ricavare, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o materiale – l’ingresso irregolare di una persona in uno Stato di cui la persona non è cittadina o residente permanente” (articolo 3). Secondo il Protocollo delle Nazioni Unite sul traffico di esseri umani, dunque, perché una condotta possa essere considerata traffico di esseri umani e possa quindi essere soggetta a criminalizzazione, deve esserci l’intenzione “di ottenere, direttamente o indirettamente, un vantaggio economico o materiale di altro genere” (articolo 6). In linea con lo scopo espresso di proteggere i diritti dei migranti oggetto del traffico, il Protocollo delle Nazioni Unite proibisce la criminalizzazione delle stesse persone oggetto del traffico (articolo 5). All’interno del Protocollo delle Nazioni Unite sul traffico di esseri umani, il riferimento esplicito alla necessità che vi sia l’elemento del beneficio finanziario o materiale di altro genere affinché una persona possa essere perseguita penalmente è volto a tutelare familiari e gruppi di supporto quali le Ong dalla responsabilità penale.
La normativa italiana in tema di favoreggiamento dell’ingresso irregolare non comprende il vantaggio materiale quale elemento fondamentale nel reato. Inoltre, nonostante l’articolo 12 presenti una specifica sulle attività di assistenza umanitaria, richiamando il Codice penale (art. 54) laddove prevede che azioni compiute per “salvare sé od altri dal pericolo attuale di un grave danno” non siano sanzionabili, di fatto risulta essere molto spesso un ostacolo ad azioni in solidarietà a persone in movimento, e ha l’effetto di paralizzare o comunque compromettere attività umanitarie di difensori dei diritti umani, come dimostrano numerose indagini avviate – e mai chiuse con un rinvio a giudizio – contro ong e difensori dei diritti.
Per questo, da tempo ne chiediamo una necessaria e urgente riforma. Eppure, l’attuale governo italiano è andato nella direzione contraria, rafforzando la retorica contro trafficanti e scafisti, indicati come unici responsabili della morte e della sofferenza delle persone migranti e rifugiate che attraversano il Mar Mediterraneo – tuttora la rotta più pericolosa al mondo – a fronte della pressoché totale assenza di canali di ingresso regolari e sicuri. Dietro quanto enunciato dalla presidente Meloni il 9 marzo 2023, all’indomani della morte di oltre 90 persone a pochi metri dalle coste calabresi in quella che è nota come la strage di Cutro – “Andremo a cercare gli scafisti lungo tutto il globo terracqueo” – l’esecutivo italiano, con il DL 20/23, ha inasprito le pene per chi è accusato di essere uno scafista, affiancandosi dunque a quanto già contenuto nell’art. 12 del d.lgs. 286/1998.
L’accusa a Maysoon e Marjan si inserisce in questa retorica, all’interno della quale il governo sembra voler sostanziare quanto dichiarato, a scapito dei diritti e della tutela di persone in fuga da contesti di crisi e da violazioni e abusi.
Nelle udienze preliminari tenutesi finora nel procedimento che accusa Maysoon non è stato garantito un corretto interpretariato, in violazione di fatto del diritto a un giusto processo. L’articolo 111 della Costituzione italiana prevede che una persona imputata sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo, per rispettate le sue garanzie difensive. Tali garanzie ad oggi risultano disattese.
Maysoon Majidi e Marjan Jamali sono fuggite da un regime oppressivo che silenzia le proteste con abusi e violenze, ulteriormente inasprite a seguito dell’uccisione di Mahsa Jina Amini, come documentato da Amnesty International in numerose denunce durante gli ultimi due anni. L’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare basata sull’articolo 12 del Testo Unico sull’Immigrazione le perseguita come se fossero scafiste, negando loro qualsiasi forma di protezione e sottoponendole a un regime detentivo che nel caso di Marjan l’ha allontanata dal figlio minorenne prima del permesso accordato verso i domiciliari, mentre nel caso di Maysoon la sta portando a una deprivazione fisica e psicologica particolarmente preoccupante: Maysoon Majidi oggi pesa meno di 40 chili, e in carcere le è stata negata la visita di una psicologa da lei indicata.
Le nostre richieste
La legge non deve diventare uno strumento per colpire familiari, amici, difensori dei diritti umani e altre persone che agiscono per solidarietà e umanità o per mettere in salvo la propria vita. Allo stato attuale, il reato di ‘favoreggiamento dell’immigrazione irregolare’ viene utilizzato per punire persone che stanno semplicemente salvando vite umane senza trarne alcun vantaggio economico, o persone accusate sommariamente di essere scafiste perché in viaggio su imbarcazioni di fortuna, a rischio della propria vita, pur di cercare protezione fuori dal proprio paese. Tutto ciò è in contrasto con i principi di necessità e proporzionalità della Costituzione italiana e del diritto internazionale sui diritti umani, compreso il diritto dell’Unione europea.
L’art. 12, per come è configurato e per la sua applicazione, si inserisce in una visione criminalizzante della migrazione di per sé, esplicitata all’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, che prevede i reati di ingresso e soggiorno illegali: una norma in contrasto con le disposizioni del diritto internazionale, dove si riconosce che l’ingresso irregolare può essere spesso l’unica opzione per molte persone in cerca di protezione, in mancanza di canali di ingresso regolari e sicuri.
È urgente attuare una riforma del reato di ingresso e soggiorno irregolari e del loro favoreggiamento. Pertanto, chiediamo al governo e al legislatore di:
rivedere la legislazione nazionale per garantire che sia necessaria la presenza di un vantaggio finanziario o materiale per criminalizzare il favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno di un cittadino straniero in situazione irregolare;
ampliare la clausola di esenzione umanitaria obbligatoria che impedisca di perseguire individui e gruppi che agiscono pacificamente per proteggere i diritti umani e la dignità di persone rifugiate e migranti;
depenalizzare l’ingresso irregolare di un/una cittadino/a straniero/a, e assicurare che qualsiasi sanzione amministrativa sia proporzionata e coerente con le leggi e gli standard internazionali sui diritti umani.
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