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Un ponte tibetano che ci porta alle origini della città di New York

Da New Amsterdam a New York: Il passato della Grande Mela nei documenti delle sue origini / A cura di Clara Bartocci ; Traduzione e Osservazioni del Traduttore di Emilio Gianotti. - Perugia : Morlacchi Editore UP, 2022. - 412 p. - (Il nuovo mondo : Testi e studi di americanistica). - ISBN 978-88-9392-347-7.

di Alessandra Calanchi - mercoledì 8 febbraio 2023 - 3009 letture

Chiariamo innanzitutto che in questo volume (il più recente della splendida collana Il Nuovo Mondo, Morlacchi Editore) non c’è un autore, bensì molti autori (tradotti con testo a fronte); una curatrice e autrice dell’Introduzione; e, infine, un traduttore (che fra l’altro è anche l’autore di un’ottima Postfazione). Un lavoro, dunque, che si configura come plurimo e pluriautoriale, costruito con intelligenza e professionalità, senza che alcuna parte prevalga sulle altre. Non potendo congratularmi con gli autori dei saggi qui raccolti, poiché sono vissuti secoli fa, mi limiterò a fare i miei complimenti a Clara Bartocci, illustre americanista nonché direttrice della suddetta collana, e a Emilio Gianotti, giovane traduttore e dottorando di Letteratura Angloamericana. Entrambi dimostrano con questo libro - frutto di un’intensa collaborazione che non potrebbe essere tale senza una profonda affinità ed empatia, nonostante la disparità di expertise - la capacità di rivolgersi a un pubblico di oggi (e italiano, per giunta) con il giusto bilanciamento tra aspetti eruditi e avvicinamenti al noi-ora.

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Copertina Da New Amsterdam a New York

L’intreccio della Storia e delle sue rappresentazioni, a partire dal celebre Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, ma citando anche Washington Irving senza dimenticare il film di Tim Burton a lui ispirato (Il mistero di Sleepy Hollow), predispongono il lettore fin dall’Introduzione a un suggestivo viaggio mentale nella storia e geografia americana, ne sollecitano la curiosità e allo stesso tempo lo conducono entro un perimetro dai confini tenui e porosi – appunto, la Letteratura che si mescola alla Storia, il documento che si ibrida con lo storytelling. Tutto questo per parlarci con dovizia di particolari e aneddoti della quasi mitica New York delle origini, del primo seme di quella Grande Mela che oggi conosciamo come un’icona intramontabile, come un’araba fenice che ci regala sempre nuovi lati del suo perimetro cangiante, ora vittima di traumi irreparabili, ora gioiosa protagonista dell’ultimo musical.

L’Introduzione, firmata da Clara Bartocci, è in realtà un saggio vero e proprio, tanto che mi pare riduttivo chiamarla Introduzione: rivela una ricerca estesa, uno spessore e un approfondimento ineccepibili. Certamente è un “prodotto di nicchia”, per palati esigenti, ma anche di piacevole lettura per i possibili neofiti, e con qualche inaspettata quanto legittima incursione nella cultura pop (wikipedia, la Coca Cola…) e nelle contronarrazioni di certa produzione italiana d.o.c. (l’immancabile Manituana dei Wu Ming).

Di Clara Bartocci conosciamo tutti libri importanti come Gli inglesi e l’indiano, i saggi sulla narrativa di John Barth, Il secolo americano, e in questa collana La nascita del Mayland e Brevi scritti per la Pennsylvania. I suoi libri testimoniano l’importanza di scrivere monografie e curatele, un’attività che stiamo perdendo davanti all’assurda pratica consolidata negli ultimi anni per cui ci viene valutato più un articolo in rivista che un libro. Certamente gli articoli sono importanti ma sono i libri come quelli di Clara Bartocci anche quelli scritti anni fa (Gli inglesi e l’indiano ha 30 anni ma non li dimostra … è del 1992) che rimarranno nelle biblioteche e nella nostra memoria di studiosi. Il lavoro che abbiamo davanti è un’opera che unisce come un ponte tibetano il presente e un passato lontano, sì, ma che resiste nell’ideologia e nella società, nella cultura urbana e non degli Stati Uniti e nei riti della sua politica.

Quanto alle traduzioni, mi sembra raggiungano un ottimo equilibrio fra l’inevitabile (e peraltro affascinante) stile secentesco degli originali e le aspettative/il gusto di un lettore di oggi. Non deve essere stato facile. I documenti sono infatti molto antichi, risalgono al periodo coloniale e quindi siamo anche in un’area dove è facile urtare la sensibilità del politically correct. Ma proprio questo “grande salto” dal 600 a oggi, dalle origini del “Sogno” alla nostra attualità spesso malata di revisionismo, ciò che più affascina di questi scritti. Ritrovare da un lato una ricostruzione rigorosa degli eventi e dall’altro il gusto e lo stile di un’appartenenza sociale e culturale desueta, che ammicca allo stereotipo, conduce il lettore e la lettrice a un vero viaggio nel tempo e nello spazio. Con alcune sorprese. Per es. a p. 161 i nativi sono descritti secondo il cliché occidentale, ma sono chiamati Americans – sono loro gli Americani. Sarà Crévecoeur, oltre un secolo dopo, in pieno illuminismo post-coloniale, a definire Americani non i nativi, ma “la nuova razza di europei che si sono stabiliti nell’Alma mater americana”.

Mi ha colpita molto leggere che nel 600 Amsterdam era il posto migliore per sapere quello che avveniva di là dall’Atlantico: com’è possibile che in un’epoca antecedente non solo a internet e alla televisione o alla radio, ma anche ai giornali, potesse essere contraddistinta da un passaggio di informazioni, energie, idee, tale da spostare il focus – almeno in questo caso – dall’asse anglo-americano all’Olanda, un piccolo stato con un’altra lingua e una cultura spesso liquidata come local color?

Troverete le risposte in questo libro davvero straordinario, che – ricordiamolo – è il frutto di un lavoro di squadra che a molti purtroppo potrebbe sfuggire. Vorrei spendere due parole sul ruolo del traduttore. Attualmente nel nostro campo di studi una curatela e una traduzione valgono meno di una monografia o di un articolo su rivista di fascia A. Per libri come questo ovviamente la cosa è inaccettabile e mi auguro che riceva la valutazione che merita: penso soprattutto a chi si affaccia ora nell’arena della comunità scientifica – e arena è il termine giusto, sotto vari punti di vista. Mi dispiace dunque che Piero Boitani, nella sua comunque bellissima recensione apparsa il 4 febbraio sul Sole 24 ore, abbia omesso di citare il traduttore – lui che è stato ottimo traduttore di Shakespeare, e che sa bene quant’è importante il lavoro di un traduttore, quant’è giusto che non rimanga manodopera invisibile nel discorso critico. Ma non gliene vogliamo – l’importante è far conoscere questo affascinante volume, dargli lo spazio che merita, valorizzare il passato per meglio comprendere il presente.


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