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Amando questo sordido e fedifrago mondo di desuetudini

Intervista a Giada Trebeschi, influencer culturale, autrice, redattrice de La rubrica delle parole desuete e dintorni

di Alessandra Calanchi - giovedì 18 marzo 2021 - 2455 letture

Ho deciso di incontrare e intervistare una giovane e intraprendente storica, letterata, editrice, autrice, attrice e blogger. Il suo nome è Giada Trebeschi, la sua casa editrice si chiama Oakmond e ha sede in Germania, e lei è una influencer culturale. Iniziamo con le domande.

Giada, tu sei italiana (di Bologna se non sbaglio)… ti consideri un cervello in fuga?

Sono italianissima ma non mi considero un cervello in fuga perché non me ne sono andata per dall’Italia per lavoro ma per amore. Mio marito è tedesco. Inoltre, continuo a lavorare e a scrivere in italiano, a fare spettacoli teatrali in giro per l’Italia (e speriamo che si possa ricominciare presto!) e grazie alle nuove tecnologie le distanze si sono ridotte.

Certo, sento nostalgia per l’Italia soprattutto ora che non ci si può muovere come prima, ma non è la nostalgia dell’emigrante, è quella dell’italiano all’estero ed è un sentimento decisamente diverso.

Pur stando all’estero da molti anni e in paesi diversi (Svizzera, Spagna, Germania) non ho mai sentito la necessità di integrarmi completamente o di smussare la mia italianità né di spingere le mie figlie a parlare solo tedesco. La lingua è identità, ricchezza e cultura e, così come non ho mai cambiato il mio accento emiliano (anche se ora si è un po’ diluito) nemmeno negli anni che ho trascorso a Pescara, ho sempre insistito nel parlare solo italiano con le mie figlie che sono cresciute trilingue imparando, attraverso la lingua, non solo le parole ma il modo di pensare e la cultura dei parlanti di quello specifico idioma. Loro sì che sono internazionali per davvero!

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Giada Trebeschi

Io ho avuto modo di apprezzare le tue competenze storiche e anche narratologiche in diversi tuoi romanzi, da La dama rossa (2012) a Il vampiro di Venezia (2017) L’autista di Dio (2018, vincitore del premio Giallogarda 2017) fino a L’amante del diavolo (2019) e La bestia a due schiene (2020)… ma hai anche scritto saggi critici, come Omaggio al Bardo (2016) ed Essere o non essere Shakespeare (2018). Perché questa doppia attività? Sei stata spesso invitata a festival del giallo, ricordo Pescara e Bologna, e anche Urbino in occasione dell’evento annuale Urbinoir, ma credo tu non voglia sentirti limitata in un’ “etichetta” e preferisca invece muoverti in modo indipendente – da qui anche la scelta di pubblicare nella tua stessa casa editrice dove fra l’altro dai spazio ad autori di rilievo anche sul piano accademico, penso ad esempio a Roberta Mullini – o sbaglio?

In effetti, hai colto nel segno. Detesto le etichette e lo dico da storica di professione che, per il mestiere che fa, spesso è costretta a usare delle categorie. Categorie che servono e aiutano la comprensione ma che non ho mai considerato come scatole chiuse.

I miei interessi sono molteplici e spesso si mischiano fra loro perché in fondo sono tutti vasi comunicanti. Il romanzo storico mi permette di raccontare la Storia in modo vivace e interessante, e spesso mi concedo di fare parallelismi fra la società di un tempo e quella di oggi. La Storia non è quella cosa barbosa fatta di soli fatti e date da ricordare ma è ciò su cui si basa quello che siamo oggi e il romanzo, a differenza del saggio mi permette di raggiungere più lettori.

Poi, a volte, sento la necessità di tornare alla saggistica accademica che mi spinge a fare ricerca e a ragionare a un livello diverso, necessario per avanzare nella conoscenza. Forse è per questo che con la Oakmond pubblico volentieri saggi accademici.

E vogliamo parlare di mitologia? Qual è il tuo rapporto col mito, e qual è il rapporto fra mito e istruzione scolastica, un tema che oggi pare riemergere nel discorso culturale e attirare anche altre scrittrici noir, penso ad esempio a Marilù Oliva?

Il mio rapporto con il mito è molto forte, e lo è sia da storica sia da scrittrice perché attraverso la mitologia si racconta non solo l’umanità ma anche la storia del pensiero. Non a caso in psichiatria si usano spesso parallelismi mitologici.

Non dobbiamo però dimenticare che quello che noi chiamiamo mitologia altro non è che un’antica religione e studiando storia delle religioni e delle credenze si capiscono molte cose sul pensiero della società attuale. Per questo ho scritto il saggio divulgativo ironico In principio era Kaos sulla mitologia classica e chissà, forse prima o poi ne scriverò il gemello sulla mitologia norrena che, similmente, spiega molto della mentalità dei popoli del nord. Inevitabile per questo tipo di saggistica scegliere di usare il metodo socratico dell’ironia come via maieutica.

Lo studio della mitologia e dell’epica dovrebbe, a mio avviso, essere fatto in maniera molto più approfondita anche a scuola perché Ettore è un esempio molto migliore da seguire e comprendere di un qualsiasi Youtuber il cui nome sarà dimenticato in pochi anni.

Per quanto riguarda Marilù Oliva, lei è un’insegnante di scuola e, nei suoi ultimi lavori, pur parlando di mito si distacca da un’analisi critico-accademica facendo un’operazione molto diversa dalla mia. Nei suoi testi il mito (o la fiaba) viene un po’ piegato per raccontare da un punto di vista femminile e protofemminista storie di donne che, francamente, con il femminismo moderno hanno poco a che fare. Da storica di professione, non amo molto chi guarda al passato con gli occhi di oggi ma senza contestualizzare.

E il contesto è sena dubbio imprescindibile per una storica… ma la tua identità “multipla” non finisce qui. Anzi, il motivo per cui ho sentito il desiderio di intervistarti è legato proprio a tutto il resto… in particolare a due iniziative che hai lanciato online. La prima è la tua Rubrica delle Parole Desuete… vuoi parlarcene? E non dimenticarti di darci tutte le informazioni e i link per accedervi.

La rubrica delle parole desuete e dintorni ha una pagina dedicata su Facebook e si trova a questo link. È un progetto nato per cercare di combattere la povertà linguistica – e dunque di pensiero – della contemporaneità. Anche qui l’ironia è una chiave fondamentale per descrivere le parole cui dedico i mini-video di spiegazione che non durano mai più di un minuto. Il nome è quello di parole "desuete" in realtà poche delle parole di cui faccio il video sono filologicamente desuete perché l’intento della rubrica è quello di far conoscere o ri-conoscere parole di un linguaggio un po’ più ampio.

Considerando che linguisti come Massimo Arcangeli ci dicono che al primo anno di università di materie letterarie gli studenti non conoscono il significato di parole come sordido, fedifrago, modico o solerte direi che il panorama è desolante.

I ragazzi di terza media hanno oggi un vocabolario di 400 parole, un vocabolario risicatissimo e la cosa ci pone davanti a un grosso problema per il futuro perché, per dirla con Heidegger, riusciamo a pensare limitatamente alle parole che conosciamo. Le parole sono la base del pensiero logico, sono le condizioni per poter pensare, e dunque bisogna fare qualcosa.

Per fortuna, sembra che questo mio modo ironico e giocoso di rinfrescare le parole funzioni perché la rubrica ha quasi 100.000 followers. La cosa mi diverte ma a quanto pare sono quel che si definisce un’influencer culturale.

A questo si lega l’altra iniziativa che hai lanciato insieme a Giorgio Rizzo, con cui già facevi teatro pre-pandemia (e ci auguriamo possiate riprenderlo presto… magari poi parliamo anche di questo in chiusura): mi riferisco a “Il peso delle parole”, una tematica quantomai attuale e spinosa. Che mi dici a questo proposito?

Giorgio Rizzo è uno straordinario e poliedrico artista con il quale lavoro in grande sintonia da un paio d’anni. E’ uno dei più importanti percussionisti etnici italiani, un regista, un attore, uno sceneggiatore e, vivaddio, anche lui ha molti interessi e, come me, è difficile da inscatolare o etichettare. Forse è per questo che lavoriamo bene insieme. Ci pungoliamo costantemente a vicenda ragionando e discutendo sui temi più svariati il cui risultato portiamo poi in scena in spettacoli teatrali.

A proposito del mito di cui sopra è proprio da lì che parte il testo di Sulla pelle del diavolo, uno spettacolo che è un dialogo fra il maschile e il femminile nei secoli e che parte proprio dalla religione primigenia, quella della Grande Madre.

I mesi – che ormai è diventato l’anno – di blocco degli artisti ci ha spinto a non demordere e a reinventarci un modo per continuare a fare quello che sappiamo fare al meglio, e così, lavorando insieme io da Bonn e lui da Catania, abbiamo messo in piedi il programma Il peso delle parole.

Cos’è?

Difficile catalogare e inscatolare l’avanguardia, anche perché nelle parole, così come nel nostro programma, i limiti sono davvero pochi.

Forse potremmo dire che è un varietà culturale, un salotto letterario 2.0 in cui ci si confronta in un dialogo che può essere incontro e scontro e che, grazie a una buona dose di ironia e al potere evocativo delle parole, apre il sipario su argomenti umanistici in un modo del tutto nuovo, a volte - perché no - anche dissacratorio.

Gli argomenti trattati sono sempre intesi come vasi comunicanti, si rinfrescano vecchi collegamenti o se ne creano dei nuovi per riaccendere lo stupore che spinge verso una più approfondita ricerca e conoscenza. Partendo da una parola chiave si racconta e ci si confronta su arte, teatro, musica, storia, letteratura e molto altro in una chiacchierata informale che spinga non solo ad approfondire ma anche a osservare quanto, a differenza di quello che di solito si pensa, la cultura possa essere rock. Insomma, combattiamo il mainstream e l’appiattimento linguistico facendoci partigiani del pensiero critico!

Come tutti sanno siamo fermi da un anno e dunque per sostenere questo progetto e per aver accesso al nostro salotto-teatro letterario le persone possono diventare sostenitori della pagina delle parole desuete su Facebook oppure mecenati su Patreon a questo link seguente. Si tratta di un piccolo contributo di pochi euro che però ci permette di continuare a produrre Il peso delle parole che è composto da due video teatrali e due dirette al mese.

Prima di chiudere, vorrei che tu ci dicessi appunto qualcosa sul teatro, che so tu ami molto… vuoi dire qualcosa sugli spettacoli che avete preparato, sui progetti che appena sarà possibile metterete in scena?

Il teatro è una delle mie grandi passioni perché il teatro ci racconta ciò che siamo, racconta la vita. A teatro tutto è possibile e, così come è sempre stato, è ancora l’ultimo luogo, a differenza di social, giornali o televisione, in cui c’è davvero libertà di pensiero. Da Plauto a Shakespeare, da Pirandello a Dario Fo è a teatro che si faceva e si fa critica sociale e politica e spero davvero che si possa tornare presto a teatro a fare resistenza culturale contro il pensiero main stream, il “politicamente corretto” spinto all’eccesso e la detestabile cancel culture.

Con Giorgio Rizzo abbiamo già preparato un paio di spettacoli che, non appena sarà possibile, porteremo in tournée. Uno nasce dalle suggestioni delle parole desuete, l’altro, guarda caso, parla di mitologia classica. A questo si aggiunge uno straordinario spettacolo musical-letterario in sei lingue diverse e una pièce tratta dal mio Undici passi, un romanzo ambientato in trincea durante la Grande Guerra.

Diciamo che i nostri molti interessi e la nostra arte ci hanno spinto a essere ancor più propositivi e creativi salvandoci dal grigiore della pandemia.

Grazie Giada e quindi un appello a sostenere il teatro, la letteratura, la libertà di espressione.


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