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Ferraris ci scuote dai nostri sogni

di Redazione Zerobook - mercoledì 17 dicembre 2008 - 4797 letture

La Fidanzata Automatica di Maurizio Ferraris (Bompiani 2007) si chiude con l’opportuno e sotto certi aspetti provvidenziale invito a non considerare le opere d’arte come amiche o sostituti di persone vive: esse “sono cose che fingono di essere persone, ma fingono soltanto” (p. 201), visto che “non pretendono né offrono reciprocità” (p. 196) alcuna. E “triste e patetico” - scrive l’autore - “ci sembra chi pensa che le cose stiano altrimenti” (p. 200). Pensare diversamente è davvero triste e patetico, e, aggiungerei, anche imprudente, ed è bene che qualcuno - e chi meglio di un filosofo? - ci induca a una revisione di quelle convinzioni che senza riflettere continuiamo ad avvertire come ovvietà saldamente costituite e incontestabili, e, di conseguenza, a ricercare le ragioni profonde delle nostre insensate reificazioni, troppo spesso vissute in maniera del tutto inconscia o comunque inconsapevole.

Diceva il “malpensante” Gesualdo Bufalino: “con la letteratura ho rapporti tempestosi, come con Dio. Non ci credo, ma la bestemmio e la prego”, e che “coi personaggi dei libri che amo il mio rapporto è coniugale” (Il malpensante. Lunario dell’anno che fu (1987), ora in G. Bufalino, Opere. 1981-1988, Milano, Bompiani 1992, p. 1032 e 1057). Ma Bufalino era uno scrittore, e in quanto tale poteva permettersi il “vizio” della letteratura o quantomeno una visione religiosa dell’arte. In effetti alcune opere, e in particolare quelle emblematiche parti di esse quali sono i personaggi dei romanzi, potrebbero sembrarci qualcosa più di “cose che fingono di essere persone”. Basti pensare alla esagerata considerazione che siamo spinti ad accordare a figure come Hans Castorp, Raskòl’nikov, Evgenij Onegin, Stavrògin, Des Esseintes, Filippo Rubè - ma l’elencazione potrebbe essere lunghissima -, ognuno testimone della propria - disillusa, forte, crudele, insostenibile, delirante, nevrotica - verità, figure potenti che potrebbero alimentare oscure forme di feticismo, di idolatria, o costituire l’inveramento di una sorta di snobismo letterario o indecifrabili oggetti di attrazione e venerazione. Tutti segni - o sintomi - di un pericoloso attaccamento a una realtà illusoria e di sogno, la cui qualità astrattiva alla lunga finirebbe per soppiantare quella vera, o per differire nel tempo il nostro ingresso in un mondo adulto. Frequentare gli elusivi luoghi dell’invisibile, eletti a immagine della vita, e inabissarsi in essi o - come ci avvertiva Kafka - vivere una vita traslata, significa perdere irrimediabilmente la nostra, illudersi di esistere al di fuori di noi.

L’affezione eccessiva a un singolo personaggio romanzesco rispetto all’insieme della ben più complessa struttura della realtà testuale (La montagna incantata non è solo Hans Castorp, ci ricorda pressappoco Ferraris) potrebbe derivare dal fatto che spesso si tende illegittimamente - ma inevitabilmente - a isolarlo dal resto dell’opera, che difficilmente, negli anni, riusciremo a ricordare nella sua totalità. Diversamente, l’esistenza di un personaggio singolare si prolunga nelle nostre forme del tempo e sopravvive all’oblio dell’opera alla quale appartiene, anche soltanto per un suo gesto significativo o una sua espressione memorabile. Valutare quelle dei personaggi dei romanzi come esistenze parallele alle nostre equivale indubbiamente a confondere la vita con l’arte senza riuscire ad avvertirne lo scarto, ad attribuire una presenza a una parvenza, la quale tuttavia, pur essendo inammissibile e inaudita, è ormai implicata in maniera inestricabile con la nostra vita per quella lunga e solo unilaterale condivisione - con gli eroi e gli antieroi della letteratura - di impressioni, di Stimmungen, atmosfere, o, come talvolta accade, di soli sguardi. Come in La jalousie di Alain Robbe-Grillet, un romanzo che Giovanni Macchia - peraltro in uno dei suoi bellissimi libri su Proust - stigmatizza per la maniera antiproustiana di affrontare il tema della gelosia, centrale nella Recherche, e per l’abbassamento del soggetto al livello di un epifenomeno.

Un simile approccio - si diceva sopra - è profondamente negativo perché rischia di far insorgere o di incrementare una patologica inclinazione al sogno e alla astrazione dalla vita da vivere, a morire al mondo vero, e di trascinarci verso una morbosa, orfica, ossessiva - e alla fine quasi esclusiva - frequentazione della morte e del sensus finis, trasformarci, in altre parole, in cultori del nulla. Perché l’arte, nella maggior parte dei casi, ha “a che fare con la morte” e “l’effetto delle opere è spesso quello delle persone morte” (La Fidanzata Automatica, pp. 165-166).

Il tunnel delle multe di Ferraris (uscito lo scorso marzo con Einaudi) comprende anche il lemma “Fidanzata Automatica”. Nelle righe conclusive di questo scritto - che costituiscono una specie di chiarificazione aggiuntiva, o blow up estremo, al contenuto del precedente libro nel quale Ferraris, attraverso una delle sue iperboliche trasposizioni, trasferiva all’opera d’arte un esperimento mentale del filosofo William James volto a esemplificare il ruolo di Dio - l’autore sembrerebbe rispondere a una obiezione eventuale o forse esibita da qualche lettore alle conclusioni di La Fidanzata Automatica, obiezione che a suo parere potrebbe essere: “le opere d’arte sono cose che noi fingiamo siano persone”. No, scrive giustamente Ferraris, cose di questo tipo sono “le bambole o gli orsi di pezza nei giochi dei bambini”, mentre le vere opere d’arte “hanno una qualche magia interna, sono feticci potenti e ben fatti, e dunque sono davvero delle cose che fingono di essere persone” (p. 86). Nulla da eccepire, dunque, su questo ulteriore riconoscimento di tale decisiva distinzione.

In seguito alla lettura di La Fidanzata Automatica è probabilissimo che molti di noi si siano posti nella prospettiva di un ridimensionamento ontologico dei libri di versi, dei romanzi, dei dipinti, delle statue: sono opere d’arte - e dire questo non è cosa da poco - e niente di più.

Elisabetta Brizio


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