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Di cosa parliamo quando parliamo d’amore

di Giuseppe Artino Innaria - mercoledì 19 novembre 2008 - 6041 letture

A quanti di voi sarà capitato di trovarvi invischiati in una oziosa conversazione tra amici sull’amore e di chiedervi, con una punta di disincanto: “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore?”

Niente di più ambiguo, sfaccettato e sfuggente della realtà dell’amore. Niente di più stereotipato, artefatto e inverosimile dell’amore parlato e idealizzato.

Eppure, tutti cercano l’Amore “vero”.

Ma l’amore che cos’è? E soprattutto: quanti amori esistono?

Stendhal, nel suo “Sull’amore”, ne cataloga almeno quattro (l’amore – passione, l’amore – gusto, l’amore fisico, l’amore di vanità), ma finisce per ammettere che di tipi ne possono esistere tanti quanti ne possono vivere gli uomini sulla faccia della terra, nella miriade di sfumature in cui è possibile declinarlo.

Nessuno, però, forse meglio di Catullo ha saputo cogliere i due volti più caratteristici dell’amore, indicare i due corni del dilemma amoroso, facendo ricorso a due verbi latini che condensano tutto il campionario immaginabile della ‘vexata quaestio’. Nel carme 72 eccoli i due lati inconciliabili del discorso amoroso: ‘amare’ e ‘bene velle’.

Da una parte, la passione amorosa e l’attrazione fisica: un sentimento che brucia forte, esalta ma fa anche soffrire, un’emozione intensa ma transitoria, dalla vita breve perché il suo destino è consumarsi e consumare (l’amante).

Dall’altra, l’affetto: un sentimento tiepido ma sicuro, che si nutre di affinità e stima reciproca, al confine con l’amicizia, costellato di piccole gioie e di concreti successi quotidiani, capace di donare serenità e stabilità all’individuo, senza troppi intoppi e imprevisti.

Non è facile scegliere. Annoiati dalla routine monogamica, sogniamo il coup de foudre che riaccenda il nostro istinto vitale. Stanchi di passare da un letto all’altro, invidiamo l’avvolgente sicurezza del talamo coniugale.

Sono tanti i legami matrimoniali travolti dalla furia improvvisa della passione.

Emma Rouault in Bovary non si rassegna al grigiore piccolo borghese e di provincia che le offre il marito Charles, pur sinceramente innamorato di lei. Sedotta da Rodolphe, conosce finalmente la felicità, che dura poco, perché la passione inebria con i suoi eccessi ma anche frastorna, disorienta, stanca; prima Rodolphe e poi Leon la lasceranno sola, pronta a prendere la china di un degrado cui porrà fine il suicidio.

Anna Karenina, ammogliata ad un rigido quanto freddo importante funzionario della burocrazia russa, perde la testa per il bell’ufficiale Vronskij, rimane incinta, fugge via con lui, ma la vita diventa impossibile: divorata dai rimorsi per l’abbandono del figlio nato dal matrimonio con Karenin, colpita dall’ostracismo perbenista dell’alta società, vedrà crescere la propria disperazione di pari passo con la consapevolezza dell’incapacità della sua relazione amorosa a colmare il vuoto di un isolamento sempre più amaro. La scena del suicidio di Anna è senz’altro una delle vette più alte della letteratura di tutti i tempi.

A volte il fuoco della passione si riaccende a distanza di anni… e sono guai. Mathilde (Fanny Ardant), ne “La signora della porta accanto” di Truffaut, rincontra Bernard, con cui anni prima ha avuto un’intensa storia di amore. Poco importa che entrambi ormai siano sposati e non abbiano di che lamentarsi dei rispettivi matrimoni. L’impeto passionale esplode senza appello, ai due non resta che subirlo. Mathilde sa che l’amore vale la pena di essere vissuto solo se consumato fino in fondo: non serve che duri, è quell’emozione che si accende, raggiunge l’acme e poi inevitabilmente si esaurisce per sfinimento. La donna, però, ha paura della parabola dell’amore, detesta il finale ineluttabile cui è condannata ogni passione. Meglio una morte che risparmi il triste dopo. Anche l’eroina romantica del grande regista francese cede alle sirene di Thanatos, tentando di trascinarvi l’ignaro amante.

La protagonista del best – seller di Patrick McGrath “Follia”, Stella Raphael, moglie di uno psichiatra, si innamora di Edgar Stark, artista rinchiuso in un manicomio criminale per uxoricidio. L’amor fou non conosce freni, abbatte qualunque remora, ma mostra un volto insano e distruttivo.

La passione amorosa è ancora il tema centrale de “Il diavolo in corpo” di Raymond Radiguet. Qui è un sentimento mai sazio di sé, sempre alla ricerche di nuove certezze, in un insostenibile gioco al rialzo di cui fa le spese la povera Marthe.

Insomma, l’esperienza passionale è forse la più straordinariamente intensa, inebriante e coinvolgente che è dato vivere ad un uomo e ad una donna. Ma è anche e soprattutto una prova del fuoco, dietro il cui picco si rivela il pericoloso abisso della prosaicità quotidiana, assolutamente insostenibile tanto quanto la fugacità ingannevole della fiamma passionale.

Per questo non possiamo rinunciare all’amore che dura.

In “Anna Karenina”, alla coppia Anna – Vronskij, Tolstoj affianca quella Kitty – Levin. Levin è un proprietario terriero benestante, non è brillante come Vronskij, ma è alla ricerca di valori spirituali e soprattutto è un brav’uomo, profondo, legato ad una visione della vita dove conta la religione, la famiglia, il lavoro. Kitty è abbagliata da Vronskij che la corteggia superficialmente, prima di essere rapito da Anna: Levin è quasi un ripiego. I figli, la fede, la solidarietà con il popolo degli umili contribuiranno a creare un menage familiare, che per Tolstoj costituisce l’unico modello vincente: alla fine, Kitty considererà il capriccio per Vronskij in tutta la sua fatuità e scoprirà la soddisfazione di essere riuscita col tempo ad amare quell’uomo buono, Levin, che nelle ultime battute del libro potrà dire: “… tutta la mia vita, indipendentemente da tutto quel che mi può accadere, in ogni suo momento, non solo non è senza senso, com’era prima, ma ha un indubitabile senso di bene, che ho il potere di immettere in essa!” (Tolstoj, Anna Karenina, BUR I Classici Blu, 2004, pagina 1211).

Ma se volete sapere davvero che cos’è l’amore vero, leggete il bellissimo racconto di Raymond Carver “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” (in “Da dove sto chiamando”, Minimum Fax, II edizione 2003, pagg. 193 ss., traduzione Riccardo Duranti). Nella oziosa conversazione tra amici di cui sopra, Mel ci racconterà qualcosa sull’amore di cui difficilmente ci dimenticheremo. Una coppia di vecchietti ha un brutto incidente stradale. Malridotti, finiscono in ospedale nella stessa stanza, “bendati e ingessati da capo a piedi, tutti e due” e “due buchetti per gli occhi, per le narici e uno per la bocca”. Il marito rimane depresso per un bel po’ di tempo, non lo risolleva nemmeno la notizia che la moglie se la sarebbe cavata. La ragione vera del suo stato è che non riesce a vedere la moglie attraverso i suoi buchetti per gli occhi: “era quello che lo faceva sentire così giù”. Mel allora sbuffa: “Ma ci pensate? Ve lo giuro, quello si stava facendo venire il crepacuore solo perché non poteva girare quell’accidenti di testa e vedere quell’accidenti di moglie”. Orson Welles direbbe: "E’ l’amore, bellezza! L’amore".


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