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Croce e la fine della civiltà

La fine della civiltà non consiste nel passaggio da una civiltà ad un’altra, ma nell’estinzione di ciò che caratterizza ogni civiltà.

di Salvatore A. Bravo - sabato 10 maggio 2025 - 82 letture

La fine della civiltà

La fine della civiltà è un tema, oggi, sempre più discusso, poiché nel vivere quotidiano vi sono “i sintomi” dell’Apocalisse etica sempre più prossima. I sintomi della “barbarie” incipiente sono evidenti, ma non li si coglie nella loro verità, anzi eccessi e violenze sono ormai naturalizzate e legalizzate, sono come l’acqua per i pesci, c’è ma non è vista e non è conosciuta.

L’aziendalizzazione delle vite e delle istituzioni comporta lo sfruttamento generalizzato e naturalizzato. La passività regna e il conformismo si è tinto di “trasgressione”. La memoria è combattuta e vilipesa, mentre la politica è sono un “ring” nel quale vincono i peggiori. Menzogna e verità sono interscambiabili e si confondono; la verità è sostituita dal vuoto ciarlare senza profondità. La civiltà è in pericolo, e in taluni momenti come bagliori che annunciano la fine, la decadenza si mostra nella sua evidenza in fatti di cronaca aberranti e in guerre fratricide, mentre la politica si trasforma in spettacolo per le plebi inselvatichite dalla corsa al godimento senza freni.

La fine della civiltà non consiste nel passaggio da una civiltà ad un’altra, ma nell’estinzione di ciò che caratterizza ogni civiltà. La civiltà si connota per la sua valenza etica e metafisica. É facoltà di elevarsi dall’individuale all’universale, è cura e custodia di tradizioni e monumenti per poter fondare il “nuovo” nella continuità riconoscente con il passato.

La fine della civiltà che si profila nel presente, fu descritta e concettualizzata da Benedetto Croce tra il 1946 e il 1952 e fu la risposta al Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler. Benedetto Croce descrisse una barbarie assolutamente nuova che si manifestava già allora con la cancellazione violenta del passato. Nessuna civiltà può autofondarsi sul “niente”, il tempo della barbarie vuole il “niente” e a tal fine lavora per annichilire le vestigia del passato. Il risultato finale a cui ambisce l’antropologia della fine dell’uomo, l’essere umano come “causa sui” è la manifestazione dell’ultimo uomo come Nietzsche già descrisse nella fase matura del suo pensiero. Non ci sono fini ma solo “calcoli e stordimenti” per sopportare l’insopportabile. Egli nulla deve al passato e al presente, egli è totalità chiusa alla vita e, dunque, alla storia. I baccanti della distruzione sono polimorfi, essi sono tali per incuria, per superficialità, per odio o per spirito di consapevole distruzione, ma tutti concorrono a elevare il “niente” a “valore”:

“La fine della civiltà , di cui si discorre, della civiltà in universale, è non l’elevamento ma la rottura della tradizione, l’instaurazione della barbarie, ed ha luogo in quanto gli spiriti inferiori e barbarici, che, pur tenuti a freno, sono in ogni società civile, riprendono vigore e, in ultimo, preponderanza e signoria. Allora, questi, incapaci di risolvere in sé innalzandola a maggiore e migliore potenza la esistente civiltà, la scalzano, e non solo soverchiano e opprimono gli uomini che la rappresentano, ma si volgono a disfarne le opere che erano a loro strumenti di altre opere, e distruggono monumenti di bellezza, sistemi di pensieri, tutte le testimonianze del nobile passato, chiudendo scuole, disperdendo o bruciando musei e biblioteche e archivi, e facendo altre simili cose, come si è visto e si vede, o che questo accada per ignoranza o incuria, o per allegro spirito di distruzione, o per meditato proposito” [1].

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Benedetto Croce

La fine della civiltà persegue la rimozione della sofferenza. La corsa verso il piacere derealizzante diventa la stella oscura che conduce nell’abisso le civiltà, la storia e le sue vestigia. La fuga dalla vita è ignoranza del dolore. Ogni civiltà si erge sulla virtù etica del dolore. La sua lettura, l’interpretazione e la sublimazione è la porta che conduce verso il “cielo dell’universale”. La civiltà è in questo processo di riconoscimento del “principio di realtà” e da cui domande si innalzano risposte collettive che attendono di essere trasmesse all’umanità del futuro:

“Gli stessi dolori e strazi che le azioni che essi perseguono recano alle genti umane, o l’una all’altra gente umana, sono pur la condizione senza la quale sorgerebbero al mondo virtù, bontà, sacrificio, eroismo, libertà, tutto quanto sulla terra amiamo come celeste, veneriamo come divino, e a cui essi offrono la materia che la nuova forma idealizza e supera; tutto quanto ci commuove e ci sublima nella poesia, sin dalla prima grande poesia della nostra civiltà europea, i canti omerici e le tragedie elleniche, così pieni di affanni e di orrori, nei quali si levano Ettore e Priamo ed Edipo e Antigone; quanto ci rasserena di verità nei filosofemi di Eraclito, di Socrate, di Platone, di Aristotele, tutto ciò che teniamo stretto a noi come il tesoro delle nostre anime” [2].

La rimozione del “senso” mediante la riflessione individuale e condivisa conduce a dare forma all’informe e la fatica del processo veritativo apre all’amore per la vita e al concreto relazionale che da sempre connota le civiltà.

Il pensiero oggettivato in monumenti e opere è la via per sentirsi parte di un tutto oceanico che necessita di pensiero. L’individualità è così ancorata alla vita e desidera che con la propria fine le opere e le parole ricevute e vissute possano continuare ad “esserci”. L’immortalità è in questa trasmissione e in questo dono che ogni generazione compie a chi le succede. La tradizione è “tradere”, la parola indica il movimento del rinnovamento nella civiltà. Tale gesto è sempre una scommessa, in quanto nulla è sicuro che sopravviva alla morte particolare, eppure la cura e la custodia sono il senso dell’esistenza, senza di essi si precipita nel vuoto dell’insensato e nella tracotanza:

“E nondimeno, se l’uomo accetta la morte e la desidera al termine della vita operosa, sembra che mal si rassegni al pensiero della civiltà nella quale è nato, si è educato, ha lavorato ed ha amato e si è travagliato. Egli vorrebbe che quel mondo continuasse per coloro che gli sopravviveranno e per quelli che verranno dopo di lui” [3].

L’Anticristo e la dis-creazione

Benedetto Croce da umanista, qual era, non era in linea con l’interpretazione di Spengler sulla fine della civiltà. Per il filosofo tedesco la fine delle civiltà è ineluttabile, esse come organismi viventi nascono, fioriscono e decadono fino alla morte. Per Benedetto Croce la civiltà è spirito, pertanto essa può ritrovare in sé il deposito metafisico ed etico per contenere la sua decadenza e rinascere in nuova forma. La possibilità di rinascere comporta il confronto serrato con l’Anticristo che è in noi:

“Come ho detto, queste considerazioni non nascono da un intento pratico, quasi praeparatio ad attendere rassegnati l’imminente paurosa barbarie di cui si riconferma l’ineluttabilità, ma soltanto da una cura di orientamento teorico del pensiero storico, che ha la sua importanza. Praticamente si sa quale sia il nostro dovere: combattere ciascuno di noi, nella sua cerchia e coi suoi mezzi, pro aris et focis, per le nostre chiese e le nostre case, difendendole fino all’estremo” [4].

L’Anticristo è in noi, è la forza distruttrice che necessita di essere equilibrata, contenuta e sublimata dalle pulsioni creanti. Riconoscere l’Anticrismo che è in noi è passo inaggirabile per trascendere le forze distruttrici. Una civiltà che non lo riconosce si lascia dominare dalle forze oscure che albergano in essa. I “demoni distruttori” sono dunque gli uomini medesimi che rigettano il pensiero e la memoria e fondano in tal modo una società adialettica dove la parola muore e prepotentemente si afferma con il gesto distruttore l’incuria:

“In verità, l’Anticristo non è un uomo, né un istituto, né una classe, né una razza, né un popolo, né uno Stato, ma una tendenza della nostra anima, che anche quando non si fa sentire in essa operosa, vi sta come in agguato; e non sale dagli abissi a muoversi nel mondo né nasce umanamente di donna, sebbene taluni credano di averlo incontrato e individuato: non viene da noi, ma è in noi” [5].

L’Anticristo è lo sradicamento da ogni asse valoriale, è il disprezzo verso ogni esperienza alta dello spirito. La cupidigia e il desiderio capriccioso sono le uniche realtà a cui si obbedisce, se l’Anticristo è elevato a legge del vivere personale e collettivo. Una società senza altari e senza metafisica è disumana, è negazione dell’umanità, questa è la novità, secondo il filosofo idealista con cui dobbiamo confrontarci:

“Il vero Anticristo sta nel disconoscimento, nella negazione, nell’oltraggio, nella irrisione dei valori stessi, dichiarati parole vuote, fandonie, o peggio ancora, inganni ipocriti per nascondere e far passare più agevolmente agli abbagliati dei creduli e degli stolti l’unica realtà che è la brama e la cupidigia personale, indirizzata tutta al piacere e al comodo. Questo è veramente l’Anticristo opposto a Cristo: l’Anticristo distruttore del mondo, godente della distruzione, incurante di non poterne costruire altro che non sia il processo sempre più vertiginoso di questa distruzione stessa, il negativo che vuol comportarsi come positivo ed essere come tale non più creazione ma, se così si potesse dire, dis-creazione” [6].

L’Anticristo è “umano troppo umano”, ed esso si rende materiale in due forme: l’individualità scissa dall’universale e nell’universale astratto a cui i sudditi devono una obbedienza cieca e senza la mediazione storica e individuale:

“Ora contro la libertà, contro l’individualizzamento che è la concretezza storica degli ideali, l’Anticristo pone sé stesso come un universale senza individualizzamento, universale astratto che è un tiranno stupido ma pure un tiranno (il tiranno, del resto, è, in certa guisa, sempre stupido) e mira ad attuare uno Stato nel quale gli individui non sono l’universale nella sua concretezza, ma gli schiavi di quell’astrazione” [7].

L’analisi di Benedetto Croce non chiude alla speranza, ma ha il limite di non voler nominare l’Anticristo che è in noi e di non volerlo definirlo nella sua storicità: il capitalismo in ogni sua forma. La forma mentis capitalistica è in noi, il nemico della civiltà mediante la tecnocrazia e la sorveglianza si è insediata in ogni individuo. Il capitalismo è “consumo dell’essere”, è distruzione mediante la mercificazione di ogni esperienza umana, anche la più sacra: paternità e maternità. La decadenza della civiltà è la patologia dello spirito che ha la sua eziologia nel capitalismo. Per poter deviare dall’Apocalisse bisogna riconoscere il nemico che è in noi e fuori di noi e storicizzarlo e senza tale faticoso processo di verità la speranza è solo una aleatoria promessa senza futuro. L’Anticristo nel nostro tempo della manipolazione e della sorveglianza dunque è fuori di noi e dentro di noi. Il primo passo è riconoscerlo e nominare il male per poterlo dominare e mutare dialetticamente.

La lotta di classe si è insabbiata nelle grammatiche dei padroni parlate e testimoniate dai subalterni. Grammatiche della distruzione fondate sul calcolo e sul narcisismo ipertrofico che produce “esseri anonimi” in serie senza memoria e senza autocoscienza. La lotta di classe non può e non potrà che riprendere nel conflitto contro l’Anticristo che è in noi con il suo potere diabolico (divisorio). A Benedetto Croce bisogna riconoscere l’acutezza dell’analisi e l’emancipazione da ogni necessetarismo. La libertà è prassi nelle condizioni materiali e senza di essa la storia non può riprendere il difficile percorso dell’umanizzazione nella dialettica di classe. La libertà è sfida dell’avvilimento quotidiano, e dunque la rivoluzione ha il suo cominciamento con la sfida caparbia e razionale al male “umano troppo umano” che attende di essere superato con la teoria e con la prassi.

[1] Benedetto Croce, La fine della civiltà-L’anticristo che è in noi, Morcelliana Brescia, 2022, pp. 17-18.

[2] Ibidem, pp. 20-21

[3] Ibidem, pag. 27.

[4] Ibidem, pp. 29-30.

[5] Ibidem, pp. 33-34.

[6] Ibidem, pag. 36.

[7] Ibidem. pag. 40.


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