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La Banda Bellini, Marco Philopat, ShaKe Edizioni,2002 di Cosimo Scarinzi, Diego Giachetti

Arte poveraLa lettura di libri di memorie sugli anni ’70 non è sempre piacevole. Sovente, tale genere letterario, induce alla tristezza o all’incazzatura, per questo preferiamo i testi che cercano, attraverso uno sforzo di distanziamento e di ricostruzione del quadro storico sociale, di rendere conto di vicende collettive ed individuali che hanno, nella loro ricca dialettica, un interesse. Facciamo però un’eccezione per questo libro che la merita, in quanto la Banda Bellini, a differenza di altri raggruppamenti non ha lasciato, per i suoi stessi caratteri, traccia significativa nella letteratura dell’estrema sinistra.
Si tratta di un testo steso sulla base delle narrazioni di Andrea Bellini, il leader del Collettivo Casoretto di Milano. E’ una ricostruzione di memoria che non ha alcuna pretesa di rigore storico o sociologico, ma che può interessare allo storico o al sociologo, perché è testimonianza viva, ancora diretta, corporea ed emotiva, a distanza di circa trent’anni dagli avvenimenti raccontati. Il libro narra le vicende personali dello stesso Andrea Bellini e del Collettivo Casoretto che era uno dei tanti gruppi locali sorti in quegli anni a partire da un’aggregazione di scuola (Licei Einstein, Carducci, VIII°) e di quartiere (la zona che va da Piazzale Loreto al Leoncavallo). Esso si caratterizza per due tratti tipici: la sua autonomia rispetto ai gruppi maggioritari della sinistra milanese, la coincidenza fra gruppo politico e servizio d’ordine. La diffidenza del gruppo verso le formazioni maggiori dell’estrema sinistra denotava il rifiuto di sottomettersi ad una disciplina d’organizzazione che ne avrebbe limitato la libertà di movimento. Non c’era, a rigore, alcuna critica della gerarchia ma una diversa gerarchia. Il modello “bolscevico” dominante era abbastanza classico: al vertice gli intellettuali, in mezzo i quadri sia politici che militari, in basso la classe da educare e dirigere. Per la Banda Bellini, al vertice c’erano i capi militari e in basso i ragazzacci putiferianti che li seguivano. Un modello organizzativo elementare, caldo, fusionale ma non meno autoritario. La stessa ricerca di rapporti con Lotta Continua, col Collettivo Autonomo di Architettura, con Rosso, dimostrava che erano consapevoli dei limiti di quell’esperienza, che però era sufficientemente soddisfacente per la maggior parte di loro.
Insomma, lo scontro fra Banda Bellini e gruppi maggiori della nuova sinistra era, per un verso, un’espressione dell’istintiva ostilità degli uomini di mano verso gli “intellettuali” parolai: “fanno gli gnorri intellettuali ruminando Hegel Marx e Marcuse” (43) e, per l’altro, di una banda con un immaginario”territoriale” contro l’apparato statuale e sbirresco dei katanghesi, cioè il servizio d’ordine del Movimento Studentesco della Statale (poi MLS). Non a caso il gruppo fu denominato Banda Bellini era considerato dal resto della sinistra estrema non come un soggetto politico ma come uno spezzone del variegato mondo dei servizi d’ordine. Nella geografia politica dell’allora estrema sinistra la Banda Bellini non è comparabile ai mazzieri del Movimento Studentesco capanniano, dei quali non condivide la pratica della bestiale violenza contro le altre forze della sinistra, né l’ideologia staliniana, ma è solo una banda di quartiere priva di ogni identità politica e teorica. Questa, infatti è l’immagine che emerge dalla lettura del libro nonostante i tentativi di Andrea Bellini di valorizzare i momenti di discussione e di approfondimento che coinvolgevano il gruppo.
In un clima da “guerra fredda”, nella cornice di “scontri, celere, caramba, feriti, violenze, caccia all’uomo, tattiche di guerriglia urbana, caschi, sampietrini, fascisti e padroni, ci si sposta un po’ più in là sulla teoria. Bisogna leggere –informarsi- studiare Marx, Gramsci, Bordiga, i filosofi della scuola di Francoforte” (63). Non è certamente quest’ultima la molla che ha fatto precipitare questo “giro di amici” nel turbinio del ’68 e degli anni immediatamente seguenti. A Bellini, non interessa ricostruire contesti storici e politici dentro i quali maturarono le loro scelte, preferisce ricordare le emozioni forti, gli impatti epidermici che determinavano un uso nuovo, esagerato e vitalistico dei corpi in tutti i loro aspetti, che vivevano intensamente nel vivace clima di scontri di piazza dell’epoca. Così non ha difficoltà a ricordare, candidamente, che si accorse che era arrivato il ’68 “perché le donne hanno incominciato a darla via senza problemi –a socializzare il corpo con noialtri maschi”, cosa alla quale –confessa- non eravamo preparati (35). Di lì a ricordare il clima promiscuo e rivoluzionario delle occupazioni il passo è breve: “una travolgente ondata erotica ha spazzato i disciplinati lidi della razionalità della politica, occupare significa rimorchiare, pomiciare e scopare –ubriacarsi- dormire tutti insieme, organizzare le ronde militari i picchetti, scrivere volantini confrontarci con il Preside, la polizia, intervenire in elettriche assemblee” (43-44). E anche la rivoluzione è intesa come partecipazione dei corpi alla lotta di classe e alla conquista degli spazi urbani, piazze, scuole, vie e corsi, da strappare alle forze dell’ordine, all’autorità, ai fascisti, ai servizi d’ordine degli altri gruppi politici: “il futuro sarà disseminato di migliaia di cortei –il nostro unico scopo d’ora in avanti saranno gli scontri, la città, il mondo intero può diventare anche nostro” (48).
L’emozione fisica è un ricordo ricorrente e spesso centrale: “in quei momenti è indescrivibile lo stato d’animo in cui ti ritrovi –il tempo si dilata all’inverosimile- il sudore freddo ti cola attraverso la schiena, stringi le mani sui bastoni” (79). L’erotismo, come premio del “guerriero” che ha sfidato il nemico e rischiato la vita è presente e raccontato: “ci rilassiamo limonando piacevolmente con le nostre amiche” (83); la morte stessa è una componente che affianca e accompagna il percorso: Bellini racconta con toni drammatici l’uccisione, provocata da un candelotto della polizia, di Saverio Saltarelli il 12 dicembre del 1970: “è morto tra le mie braccia” (90). Assenti nei ricordi di Bellini le vivaci lotte in fabbrica e sul territorio (scioperi degli affitti e delle bollette, azioni antisfratto) che si sviluppano in quegli anni, portate avanti, ad esempio, dalla sede del Comitato di quartiere che stava di fronte a quella del Casoretto, che lavorava con il Coordinamento Fabbriche di Viale Monza, che editava un giornale, Fabbrica Territorio, organizzava scioperi e occupazioni di fabbriche, partecipava alle ronde contro gli straordinari, era in relazione con diversi collettivi di fabbrica.

La storia della Banda Bellini precipita nella metà degli anni Settanta. I corpi sono messi a dura prova dal dilagare dell’eroina, dall’avanzare del nuovo proletariato giovanile -il cui modo di stare in piazza e di fare festa risulta lontano dalla pratica dei belliniani- e dal richiamo della lotta armata. Il femminismo col suo affermare che il “personale è politico” li aveva messi in crisi, abituati com’erano all’esteriorità e alla possessività maschile nel rapportarsi con le donne. Per il resto, droga e lotta armata, “ci è andata di culo” conclude il protagonista, nessuno ha fatto il salto nella clandestinità, si è fermato in tempo e uno solo dei loro è morto a causa della droga. Pur essendo abituati a chiedere esagerazioni dai loro corpi, non se la sentirono di sostituire il wiski e altri super alcolici con l’eroina, la spranga con la pistola, l’ostentazione pubblica della banda che sfila nei cortei vestita in modo riconoscibile, con il gruppo isolato e nascosto che colpisce sparando.

Per concludere vorremo esplicitare una domanda che il libro propone. La Banda Bellini è espressione, a modo suo, dello scontro fra le classi? Non ci riferiamo al fatto, ovvio, che essa nasce in una fase di violento scontro sociale e che, in qualche modo, ne risente ma all’interpretazione che dà di questo scontro, al modo che ha di viverlo. La Banda Bellini conduce una forma, affatto particolare, ma suggestiva, di lotta di classe, che merita di essere colto a pieno, e che potremo definire “classe, sesso e generazione”. La narrazione di Andrea Bellini pone in primo piano il fatto che la gloria conquistata sul campo permetteva un successo con le ragazze del movimento che era, sino a poco tempo prima, impensabile. Certo, la narrazione di Andrea Bellini, caratterizzata da una evidente autenticità, è tutta dentro un immaginario maschile prefemminista. Ma l’immaginario degli altri era poi così diverso? Forse era espresso con maggiori mediazioni dialettiche, con più diaframmi culturali, era meno brutale, ma non meno vero. Al punto che ci si interrogava sul perché e il per come del “successo” con le donne di cui si vantavano quelli della banda del Casoretto, anche per giustificare e comprendere le ragioni di una vita politica e sessuale più morigerata e meno pubblica e spettacolare, resa forte da un progetto politico percepito come qualitativamente migliore per il quale si era disposti a pagare il prezzo di una minore visibilità.
La lotta di classe, soprattutto negli anni Settanta, va intrecciata e ricostruita indagando anche sulle relazioni di sesso (oggi sarebbe meglio dire di genere) e generazionali (conflittualità con il mondo degli adulti). La Banda Bellini, a modo suo, ha incarnato un aspetto di questa vicenda con più coerenza di altri, e chi li ha conosciuti può dire che erano più simpatici di altri a causa della loro generosità, della loro incapacità di calcolare e di capitalizzare, del loro vivere le loro esperienze fino in fondo.


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