La
lettura di libri di memorie sugli anni ’70 non è
sempre piacevole. Sovente, tale genere letterario, induce
alla tristezza o all’incazzatura, per questo preferiamo
i testi che cercano, attraverso uno sforzo di distanziamento
e di ricostruzione del quadro storico sociale, di rendere
conto di vicende collettive ed individuali che hanno, nella
loro ricca dialettica, un interesse. Facciamo però
un’eccezione per questo libro che la merita, in quanto
la Banda Bellini, a differenza di altri raggruppamenti non
ha lasciato, per i suoi stessi caratteri, traccia significativa
nella letteratura dell’estrema sinistra.
Si tratta di un testo steso sulla base delle narrazioni
di Andrea Bellini, il leader del Collettivo Casoretto di
Milano. E’ una ricostruzione di memoria che non ha
alcuna pretesa di rigore storico o sociologico, ma che può
interessare allo storico o al sociologo, perché è
testimonianza viva, ancora diretta, corporea ed emotiva,
a distanza di circa trent’anni dagli avvenimenti raccontati.
Il libro narra le vicende personali dello stesso Andrea
Bellini e del Collettivo Casoretto che era uno dei tanti
gruppi locali sorti in quegli anni a partire da un’aggregazione
di scuola (Licei Einstein, Carducci, VIII°) e di quartiere
(la zona che va da Piazzale Loreto al Leoncavallo). Esso
si caratterizza per due tratti tipici: la sua autonomia
rispetto ai gruppi maggioritari della sinistra milanese,
la coincidenza fra gruppo politico e servizio d’ordine.
La diffidenza del gruppo verso le formazioni maggiori dell’estrema
sinistra denotava il rifiuto di sottomettersi ad una disciplina
d’organizzazione che ne avrebbe limitato la libertà
di movimento. Non c’era, a rigore, alcuna critica
della gerarchia ma una diversa gerarchia. Il modello “bolscevico”
dominante era abbastanza classico: al vertice gli intellettuali,
in mezzo i quadri sia politici che militari, in basso la
classe da educare e dirigere. Per la Banda Bellini, al vertice
c’erano i capi militari e in basso i ragazzacci putiferianti
che li seguivano. Un modello organizzativo elementare, caldo,
fusionale ma non meno autoritario. La stessa ricerca di
rapporti con Lotta Continua, col Collettivo Autonomo di
Architettura, con Rosso, dimostrava che erano consapevoli
dei limiti di quell’esperienza, che però era
sufficientemente soddisfacente per la maggior parte di loro.
Insomma, lo scontro fra Banda Bellini e gruppi maggiori
della nuova sinistra era, per un verso, un’espressione
dell’istintiva ostilità degli uomini di mano
verso gli “intellettuali” parolai: “fanno
gli gnorri intellettuali ruminando Hegel Marx e Marcuse”
(43) e, per l’altro, di una banda con un immaginario”territoriale”
contro l’apparato statuale e sbirresco dei katanghesi,
cioè il servizio d’ordine del Movimento Studentesco
della Statale (poi MLS). Non a caso il gruppo fu denominato
Banda Bellini era considerato dal resto della sinistra estrema
non come un soggetto politico ma come uno spezzone del variegato
mondo dei servizi d’ordine. Nella geografia politica
dell’allora estrema sinistra la Banda Bellini non
è comparabile ai mazzieri del Movimento Studentesco
capanniano, dei quali non condivide la pratica della bestiale
violenza contro le altre forze della sinistra, né
l’ideologia staliniana, ma è solo una banda
di quartiere priva di ogni identità politica e teorica.
Questa, infatti è l’immagine che emerge dalla
lettura del libro nonostante i tentativi di Andrea Bellini
di valorizzare i momenti di discussione e di approfondimento
che coinvolgevano il gruppo.
In un clima da “guerra fredda”, nella cornice
di “scontri, celere, caramba, feriti, violenze, caccia
all’uomo, tattiche di guerriglia urbana, caschi, sampietrini,
fascisti e padroni, ci si sposta un po’ più
in là sulla teoria. Bisogna leggere –informarsi-
studiare Marx, Gramsci, Bordiga, i filosofi della scuola
di Francoforte” (63). Non è certamente quest’ultima
la molla che ha fatto precipitare questo “giro di
amici” nel turbinio del ’68 e degli anni immediatamente
seguenti. A Bellini, non interessa ricostruire contesti
storici e politici dentro i quali maturarono le loro scelte,
preferisce ricordare le emozioni forti, gli impatti epidermici
che determinavano un uso nuovo, esagerato e vitalistico
dei corpi in tutti i loro aspetti, che vivevano intensamente
nel vivace clima di scontri di piazza dell’epoca.
Così non ha difficoltà a ricordare, candidamente,
che si accorse che era arrivato il ’68 “perché
le donne hanno incominciato a darla via senza problemi –a
socializzare il corpo con noialtri maschi”, cosa alla
quale –confessa- non eravamo preparati (35). Di lì
a ricordare il clima promiscuo e rivoluzionario delle occupazioni
il passo è breve: “una travolgente ondata erotica
ha spazzato i disciplinati lidi della razionalità
della politica, occupare significa rimorchiare, pomiciare
e scopare –ubriacarsi- dormire tutti insieme, organizzare
le ronde militari i picchetti, scrivere volantini confrontarci
con il Preside, la polizia, intervenire in elettriche assemblee”
(43-44). E anche la rivoluzione è intesa come partecipazione
dei corpi alla lotta di classe e alla conquista degli spazi
urbani, piazze, scuole, vie e corsi, da strappare alle forze
dell’ordine, all’autorità, ai fascisti,
ai servizi d’ordine degli altri gruppi politici: “il
futuro sarà disseminato di migliaia di cortei –il
nostro unico scopo d’ora in avanti saranno gli scontri,
la città, il mondo intero può diventare anche
nostro” (48).
L’emozione fisica è un ricordo ricorrente e
spesso centrale: “in quei momenti è indescrivibile
lo stato d’animo in cui ti ritrovi –il tempo
si dilata all’inverosimile- il sudore freddo ti cola
attraverso la schiena, stringi le mani sui bastoni”
(79). L’erotismo, come premio del “guerriero”
che ha sfidato il nemico e rischiato la vita è presente
e raccontato: “ci rilassiamo limonando piacevolmente
con le nostre amiche” (83); la morte stessa è
una componente che affianca e accompagna il percorso: Bellini
racconta con toni drammatici l’uccisione, provocata
da un candelotto della polizia, di Saverio Saltarelli il
12 dicembre del 1970: “è morto tra le mie braccia”
(90). Assenti nei ricordi di Bellini le vivaci lotte in
fabbrica e sul territorio (scioperi degli affitti e delle
bollette, azioni antisfratto) che si sviluppano in quegli
anni, portate avanti, ad esempio, dalla sede del Comitato
di quartiere che stava di fronte a quella del Casoretto,
che lavorava con il Coordinamento Fabbriche di Viale Monza,
che editava un giornale, Fabbrica Territorio, organizzava
scioperi e occupazioni di fabbriche, partecipava alle ronde
contro gli straordinari, era in relazione con diversi collettivi
di fabbrica.
La storia
della Banda Bellini precipita nella metà degli anni
Settanta. I corpi sono messi a dura prova dal dilagare dell’eroina,
dall’avanzare del nuovo proletariato giovanile -il
cui modo di stare in piazza e di fare festa risulta lontano
dalla pratica dei belliniani- e dal richiamo della lotta
armata. Il femminismo col suo affermare che il “personale
è politico” li aveva messi in crisi, abituati
com’erano all’esteriorità e alla possessività
maschile nel rapportarsi con le donne. Per il resto, droga
e lotta armata, “ci è andata di culo”
conclude il protagonista, nessuno ha fatto il salto nella
clandestinità, si è fermato in tempo e uno
solo dei loro è morto a causa della droga. Pur essendo
abituati a chiedere esagerazioni dai loro corpi, non se
la sentirono di sostituire il wiski e altri super alcolici
con l’eroina, la spranga con la pistola, l’ostentazione
pubblica della banda che sfila nei cortei vestita in modo
riconoscibile, con il gruppo isolato e nascosto che colpisce
sparando.
Per
concludere vorremo esplicitare una domanda che il libro
propone. La Banda Bellini è espressione, a modo suo,
dello scontro fra le classi? Non ci riferiamo al fatto,
ovvio, che essa nasce in una fase di violento scontro sociale
e che, in qualche modo, ne risente ma all’interpretazione
che dà di questo scontro, al modo che ha di viverlo.
La Banda Bellini conduce una forma, affatto particolare,
ma suggestiva, di lotta di classe, che merita di essere
colto a pieno, e che potremo definire “classe, sesso
e generazione”. La narrazione di Andrea Bellini pone
in primo piano il fatto che la gloria conquistata sul campo
permetteva un successo con le ragazze del movimento che
era, sino a poco tempo prima, impensabile. Certo, la narrazione
di Andrea Bellini, caratterizzata da una evidente autenticità,
è tutta dentro un immaginario maschile prefemminista.
Ma l’immaginario degli altri era poi così diverso?
Forse era espresso con maggiori mediazioni dialettiche,
con più diaframmi culturali, era meno brutale, ma
non meno vero. Al punto che ci si interrogava sul perché
e il per come del “successo” con le donne di
cui si vantavano quelli della banda del Casoretto, anche
per giustificare e comprendere le ragioni di una vita politica
e sessuale più morigerata e meno pubblica e spettacolare,
resa forte da un progetto politico percepito come qualitativamente
migliore per il quale si era disposti a pagare il prezzo
di una minore visibilità.
La lotta di classe, soprattutto negli anni Settanta, va
intrecciata e ricostruita indagando anche sulle relazioni
di sesso (oggi sarebbe meglio dire di genere) e generazionali
(conflittualità con il mondo degli adulti). La Banda
Bellini, a modo suo, ha incarnato un aspetto di questa vicenda
con più coerenza di altri, e chi li ha conosciuti
può dire che erano più simpatici di altri
a causa della loro generosità, della loro incapacità
di calcolare e di capitalizzare, del loro vivere le loro
esperienze fino in fondo.
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