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Capannoni e disgregazione sociale

L’idea di mettersi in sé come soggetto imprenditoriale non è una metafora di una società che non riesce a pensare al bene in comune?

di Emanuele G. - venerdì 9 gennaio 2015 - 2048 letture

Consultando alcuni dati riguardanti la storia economica del nostro paese si rimane impressionati da uno in particolar modo. Riguarda la superficie totale dei capannoni. Sono il luogo - i capannoni - dove avvengono le varie fasi della produzione di un bene o di un servizio. Orbene, secondo alcuni dati nel corso degli anni settanta la superficie costruita ex novo di capannoni è stata superiore, e di molto, rispetto all’intero periodo intercorso fra l’Unità dell’Italia e gli anni sessanta.

Un dato apparentemente banale. Ma non è così in quanto implica delle riflessioni di non poco conto sul nostro paese.

Il fatto di costruire un capannone indica la volontà delle persone a mettersi in proprio. Cioè a rischiare di prima persona un percorso nel complicato mondo dell’economia. A scommettere su se stessi. L’impresa economica quale rappresentazione delle capacità del singolo. Potrebbe essere un valore positivo. Ma così non è. Il fatto che tanti italiani nel corso degli anni settanta abbiano voluto costruirsi la "fabbrica" è indice di un venire meno della coralità della società di quel periodo.

L’Italia veniva da decenni di condivisione comune. Imposta nel ventennio fascista. Condivisa nei primi decenni della nostra storia repubblicana. Comunque sia la storia era un racconto collettivo poiché si tendeva a ciò che si ha in comune. Con gli anni settanta si cambia passo. C’è un inizio di declino del senso in comune fra gli italiani. Forse dovuto alle prime delusioni sul versante politico quando si ebbe notizia dei primi scandali? Forse per reazione ad anni - giustamente definiti "di piombo" - dove le cose fatte assieme hanno portato in realtà il terrorismo? Forse per una progressiva secolarizzazione della società italiana in cui il legame con gli altri è considerato desueto? Le motivazioni di un cambiamento così drastico sono molteplici e andrebbero sottopsote a un serio vaglio.

Quindi, il capannone come espressione di una società italiana più votata al racconto al singolare che al plurale. Un evento epocale poiché è proprio in quel periodo che iniziano ad appalesarsi fwenomeni che sarebbero diventati maggiormente evidenti e visibili nei decenni successivi. Quando viene meno una concezione della società come un " noi " e si assiste all’esplosione dell’ " io " vi sono implicazioni molto serie. La più importante delle quali l’affievolirsi del senso civico. Ossia del rapporto responsabile che ognuno di noi ha nei confronti delle altre persone e dell’ambiente circostante. L’ " io " è più importante del " noi " e si sente autorizzato a fare la qualsiasi. Deve dimostrare di esistere e lo fa spesso mediante comportamenti deleteri e fin troppo sprezzanti della convivenza civile. Pertanto bisogna essere arroganti, sprezzanti, indisciplinati, irriguardosi verso la legge, incivili, autoreferenziali, spocchiosi, prevaricatori e tanto altro ancora. E quando si è così il senso stesso di società va a farsi benedire.

Un altro livello di implicazione è quello economico. Questa esplosione di capannoni sembra rispettare un non disegno economico. Cioé dietro a tale fenomeno non c’è stata alcuna regia. Infatti, ci si lamenta quanto l’Italia sia stata deficitaria in materia di una forte e programmata politica economica. Insomma mi costruisco il capannone per vedere quello che succede e per intascare gli eventuali contributi pubblici. E quando l’impresa economica non viene inserita in un contesto di politica economica essa - l’impresa economica - diventa più una variabile del fato che del progetto. Da ciò si spiega come mai l’economia italiana abbia manifestato segni di crisi nei decenni successivi. In quanto è mancata la politica economica. Con questa anarchia nella costruzione dei capannoni tutti hanno fatto quello che più gli gradiva. Punto e basta. Si è creduto che un certo numero di capannoni potesse dare vita a un "distretto industriale". Per un certo periodo di tempo è stato così, ma la globalizzazione dell’economia mondiale ha spazzato vita il modello.

In sintesi, i modelli economici sono espressione di una visione della società. Una visione impostata sulla modalità " io " non va da nessuna parte. La modalità vincente è quel modello in cui l’ " io " recita assieme al " noi " per un modello complessivo di società vincente ed equilibrato.


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