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Informazione
e movimenti: due anni di lotta nonviolenta
Il 20 luglio 2001, attorno alle dieci di sera,
Bruno Vespa annunciava dagli schermi di "Porta
a porta" il nome del ragazzo ucciso dalla violenza
del G8, e in quel preciso istante i genitori di Carlo
Giuliani non sapevano ancora nulla di quello che era
accaduto al loro figlio. A partire da questo significativo
e sconosciuto episodio di violenza televisiva, dove
i diritti di un anchorman hanno prevaricato quelli
di una famiglia, qualcosa è cambiato nel panorama
mediatico del nostro paese. Già dal giorno
successivo i filmati girati dai cameraman indipendenti
del network "Indymedia" mostravano al mondo
gli istanti dell'ingresso nella scuola Pertini/Diaz
delle forze dell'ordine, la rete iniziava ad inondarsi
di racconti e testimonianze dirette delle giornate
di Genova, e per la prima volta nella storia l'opinione
pubblica mondiale ha percepito la distanza tra l'informazione
commerciale confezionata nelle comode "redazioni
di lusso" e il circuito dei media alternativi
fatto di riviste "piccole" ma efficaci,
radio non omologate e siti web che vivono di contenuti
e lavoro volontario, anziche galleggiare sul mercato
pubblicitario come fanno i "megaportali"
dei grandi gruppi editoriali.
Da Genova in poi l'informazione libera è
stata il motore invisibile che ha dato respiro ad
azioni e proteste molto diverse tra loro, diventando
lo strumento di lotta nonviolenta più efficace
di tutta la storia dei movimenti sociali.
Le proteste contro l'aggressione all'Afghanistan
esplose sulla strada tra Perugia e Assisi, la "festa
globale" di Porto Alegre, che ha costretto anche
i media commerciali a parlare di alternative alla
globalizzazione oscurando il Forum Economico Mondiale,
le testimonianze dirette dalla Palestina che rompevano
il muro di silenzio sulle violazioni dei diritti umani,
la mobilitazione diffusa contro la deregulation nel
commercio delle armi e lo stravolgimento della legge
185, la "scuola di politica" del Forum Sociale
Europeo, le lotte per i diritti dei migranti, la colossale
manifestazione antiguerra del 15 febbraio 2001: tutto
questo non avrebbe avuto la stessa forza e lo stesso
impatto in assenza di un sistema distribuito e capillare
di circolazione delle informazioni "dal basso".
E il bello è che siamo ancora ai primi esperimenti.
Senza questo "cocktail" fatto di nuove
tecnologie e impegno civile, volontariato dell'informazione
e cooperative editoriali, web radio e tv di quartiere,
la nascita della "seconda superpotenza",
l'opinione pubblica mondiale, non sarebbe stata possibile.
Tuttavia c'è ancora della strada da fare: nei
prossimi anni il concetto di "rete" applicato
all'azione sociale verrà portato alle sue estreme
conseguenze, e già oggi nelle iniziative organizzate
dai più giovani si respira una cultura nuova,
dove non è più concepibile chiudersi
su se stessi, sui propri linguaggi e sui propri contenuti,
ma si sente il bisogno di volare alto, affermando
nei rapporti tra persone, tra associazioni e tra movimenti
le stesse regole sociali che governano su internet
i "rapporti" tecnici tra computer: tutti
sono uguali, non esiste un centro di comando, ognuno
è funzionale a qualcosa, nessuno è indispensabile.
Questo nuovo modo di fare informazione e politica,
basato sulla partecipazione e sull'orizzontalità,
ricorda molto da vicino quella "omnicrazia"
teorizzata da Aldo Capitini, il "potere di tutti"
che è l'unica alternativa al dominio di pochi,
alla divisione tra controllori e controllati e a tutte
le forme di violenza alle quali ormai siamo assuefatti,
al punto di non indignarci più quando un giornalista
pagato con i soldi del canone acquista un potere che
va al di là del rispetto della vita (e della
morte) altrui.
Gli ultimi due anni di "vita mediatica"
del nostro paese sono stati segnati da alcuni progetti
che hanno affrontato il problema dell'informazione
in modo "rivoluzionario" nel senso etimologico
del termine, cioè con una totale inversione
di rotta rispetto all'informazione dominante. Non
si tratta di cambiare solamente i contenuti, ma di
cercare anche forme nuove dei media, come hanno fatto
i promotori del circuito Telestreet, che alle televisioni
nazionali, costose e centralizzate hanno contrapposto
una rete distribuita di emittenti locali, economiche
(bastano 1000 euro per trasmettere) e totalmente affidate
alle comunità locali per quanto riguarda la
costruzione dei palinsesti. Rispetto allo scenario
prospettato dai partiti tradizionali (creiamo consenso,
conquistiamo il governo, cambiamo il sistema radiotelevisivo),
la "scorciatoia" proposta dal network Telestreet
è quella di creare spontaneamente una rete
di piccole emittenti e gruppi locali che imponga un
nuovo modo di fare televisione, con una azione di
disobbedienza civile collettiva simile a quella con
cui nei primi anni '70 si è conquistato il
diritto all'obiezione di coscienza al servizio militare.
La zona grigia in cui le Tv di quartiere stanno muovendo
i loro primi passi è quella che si trova in
bilico tra i nomi di Oscar Mammì e Maurizio
Gasparri (padrini di battesimo di due leggi illiberali)
e quell'articolo 21 della costituzione che garantisce
a tutti la facoltà di esprimere pensieri "con
la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione".
Se l'alternativa al duopolio Raiset è affidata
allo sviluppo delle Tv di quartiere e ai progetti
di trasmissioni satellitari indipendenti come NoWarTv
e GlobalTv, l'alternativa alla propaganda di guerra
che inquina la carta stampata è stata costruita
con il "Mediawatch" [http://www.peacelink.it/mediawatch],
l'osservatorio popolare sulle "bufale in divisa"
ospitato sul sito dell'associazione PeaceLink, uno
"spazio condiviso" dove nei giorni dell'aggressione
all'Iraq le principali realtà italiane di informazione
indipendente (tra cui lo stesso settimanale Carta)
si sono focalizze su un unico obiettivo: smascherare
le menzogne degli apparati militari e dei loro seguaci.
Con più di trecento segnalazioni in due mesi,
questa bacheca elettronica si è trasformata
in una vera e propria enciclopedia della propaganda.
L'idea è quella di tradurre nel mondo dell'informazione
i principi astratti di "cittadinanza attiva",
"sovranità popolare" e "uguaglianza
dei cittadini", trasformandoli in azioni concrete
e progetti visibili. Impresa tutt'altro che banale,
soprattutto in Italia, dove il panorama mediatico
è fortemente caratterizzato da teleutenti passivi,
che sono "cittadini del video" senza possibilità
di intervento, da una sovranità limitata che
permette di governare il proprio telecomando, ma non
i contenuti dei palinsesti decisi dai vertici Rai
e Mediaset, e infine da una fortissima disuguaglianza
tra i "normali" cittadini e quella ristretta
elite finanziaria e politica che esercita il suo controllo
sui due poli televisivi e i tre grandi gruppi editoriali
che producono il 90% della carta stampata del paese
(Rizzoli/Corriere della Sera [Rcs], Gruppo Caracciolo,
Mondadori/Fininvest).
Come si è arrivati alla costruzione di un
"monitoraggio" collettivo della propaganda
di guerra? Questa iniziativa non nasce dall'idea di
un momento, ma è il frutto maturo di un percorso
di crescita della cultura nonviolenta, che negli ultimi
dieci anni ha colmato il divario tecnologico con gli
apparati militari, almeno per quanto riguarda la produzione
di informazioni in rete. Oggi qualunque sito indipendente
di area pacifista ha un numero di accessi e di documenti
che è di gran lunga superiore a quello delle
pagine web istituzionali delle quattro forze armate
(Esercito, Marina, Aviazione, Carabinieri).
L'analisi dei media e l'azione
nonviolenta delle "formiche dell'informazione"
sono destinate ad avere un peso sempre maggiore nella
vita sociale del Paese, almeno fino a quando non si
sarà trovata una risposta a molti interrogativi
ancora insoluti: perché in Italia siamo costretti
ad avere nel settore dell'informazione la concentrazione
di aziende più alta di tutto il continente?
Perché l'Ansa ha meno di dieci persone che
devono raccontare quello che avviene in tutta l'Africa?
Perché i nostri giornali e le nostre televisioni
devono essere sempre più dipendenti dalle agenzie
internazionali? Come mai in Italia ci sono alcune
persone che grazie ai soldi del canone Rai riescono
a costruire delle vere e proprie "nicchie di
potere mediatico"? Perché si spendono
milioni di euro per Sanremo ma l'Italia, che ha fatto
una guerra in Jugoslavia, ha chiuso la sede Rai dei
balcani? Come mai le tariffe postali per gli abbonamenti
stanno strangolando le piccole riviste e contemporaneamente
i finanziamenti pubblici per l'editoria vengono erogati
solamente ai grandi organi di stampa?
L'utilizzo efficace della telematica come strumento
per contrastare la propaganda militare ha dimostrato
che nella società dell'informazione la guerra
non ha più una vita propria, non può
più nascere da sola, ma ha bisogno di essere
legittimata e sostenuta da ragioni umanitarie, ha
bisogno di trovare un motivo accettabile e morale
per la propria esistenza, ha bisogno di un consenso
che solo i media possono conquistare e mantenere.
Per questo motivo, oggi più che mai, i giornali
e la televisione sono chiamati a rispondere del loro
operato, e la lista delle cose di cui rendere conto
si allunga giorno dopo giorno grazie al contributo
di tutti coloro che praticano forme di cittadinanza
attiva nel settore dell'informazione.
[Questo articolo e' apparso sul numero 28/2003 del
settimanale "Carta", che ne ha concesso
la diffusione via internet] |
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