La
meglio borghesia
Recensione al film per la
tv “La meglio gioventù”
regia di Marco Tullio Giordana
a cura di Sergej
“Venite, treni, caricate
questi giovani che cantano coi loro blusoni inglesi
e le magliette bianche. Venite, treni, portate lontano
la gioventù, a cercare per il mondo ciò
che qui è perduto. Portate, treni, per il mondo,
a non ridere più, questi allegri ragazzi scacciati
dal paese!” (Pier Paolo Pasolini, da La meglio
gioventù).
A che serve occuparsi di storia,
cioè degli avvenimenti del passato? Una delle
risposte classiche, scolastiche, è quella secondo
la quale si vuole conoscere il passato per comprendere
il presente. Già Pierre Vilar (Le parole della
storia, Editori Riuniti, 1992) nelle sue lezioni alla
Sorbona negli anni Sessanta si
permetteva di dubitare di questa formula così
rassicurante e perbenista. Cosa vuol dire “conoscere”,
cosa vuol dire “comprendere”, e soprattutto:
che grado abbiamo noi di conoscenza del presente tale
da permetterci di poter usare
quello che eventualmente conosciamo del passato pe
“comprenderlo”? E così via.
La storia è stata la grande passione dei ceti
borghesi per almeno due secoli. La ridefinizione dell'interesse
per le cose del passato è avvenuta anche attraverso
la ridefinizione dei generi letterari che sul tempo,
e sugli uomini nel tempo (storico), scandivano il
discorso del racconto. Il “romanzo borghese”
di Defoe,
Richardson, Fielding. Giù giù fino ai
romanzi d'appendice e al romanzo “popolare”.
Fino a “la storia siamo noi” dell'inno
di Francesco De Gregori, e a “La storia”
di Elsa Morante. In campo filmico, i tentativi di
“romanzo cinematografico”: Rocco e i suoi
fratelli (Visconti, 1960), Novecento (Bernardo Bertolucci,
1976-1977), C'eravamo tanto amati (Scola, 1974).
A questo filone, in cui storia e
vicende familiari e personali (Lessico familiaer,
Ginzburg) si intrecciano appartiene il filmone “La
meglio gioventù” regia di Marco Tullio
Giordana (2003). Tra gli interpreti: Luigi Lo Cascio,
Alessio Boni, Sonia Bergamasco, Fabrizio Gifuni, Jasmine
Trinca, Maya Sansa, Adriana Asti. Film nato per la
tv, e destinato alla programmazione “a piccoli
sorsi”, è stato presentato a Cannes e
diffuso per la proiezione
cinematografica in due partizioni da tre ore ciascuna.
Sembra che
le mutate condizioni politiche – con la Rai
“normalizzata” dalla destra – abbia
influito su questa decisione inusuale nel panorama
cinematografico italiano.
Film a volte didascalico e scontato,
dà una interpretazione della storia quantomeno
superficiale. Tipico il caso della ragazza torinese,
la moglie di Nicola, che dalle occupazioni studentesche
passa direttamante ai collettivi femministi (accennati,
non resi in immagine: incapacità del regista
a affrontare la cosa? Tagli di produzione?) alla lotta
armata, secondo una visione superficiale e “politicamente
oerientata” dal benpensantismo moderato. Altra
scena: nel 1980, la lettera di licenziamento dell'amico
operaio alla Fiat: l'impotenza delle diverse sinistre
rappresentate da Nicola – che ha scelto di compiere
la sua lotta nelle istituzioni -, e l'amico economista
che ha scelto la sua vita di “tecnico”.
Le cose migliori vengono dalle scene girate con i
“matti” - compresa la storia della ragazza
Giorgia -.
Film borghese, il problema della povertà e
del bisogno non sembra sfiorare l'attenzione “storica”
degli sceneggiatori e anche gli elementi drammatici,
quando accadono, avvengono in maniera incidentale
e immersi nella salamoia buonista: così i pestaggi
dei celerini contro gli studenti viene ritorto nella
scena del pestaggio del celerino proletario (amico
di uno dei protagonisti, l'inquieto
Matteo) che, rimasto paralitico, viene assistito dalla
“dama di carità” madre di Matteo
(ma nascostamente, ché Matteo nulla sa). Anche
il tema genitori/figli viene affrontato in maniera
superficiale, rendendo deboli le figure dei vari personaggi.
Personaggi (come quella del padre di Nicola e Matteo)
che appaiono così, alla fin fine, sfocati.
Nonostante le potenzialità dei caratteristi
impiegati: così il padre di Giorgia, o il prete
amico della ragazza: incontri occasionali che rimangono
eccentrici e mal definiti, fuori posto.
Ci sono parti che emozionano, ma
tutto sommato si tratta di un film con molte punte
reazionarie. I desideri privati di questi borghesi
sono la villa sulle colline toscane, e la falsa coscienza
del buonismo e dell'ordine. Il marito, Nicola, giunge
persino a denunciare la ex moglie Giulia facendola
prendere dalla Digos – scena da far west americano
in pieno Colosseo, giusto per far
vedere come sono professionali i nostri tutori dell'ordine
di repressione. La mancanza di veri contrasti, di
una vera drammaticità se non occasionale e
che va annegata nel continuum vitalistico. Il buonismo
fa apparire simpatico persino il tangentista in carcere,
che fa un pistolotto auto-difensivo e incensatorio.
Insomma, a tutti è data l'occasione di dire
le proprie ragioni,
specie se appartenenti al ceto borghese. Melassa spalmata
a piene mani. Uno degli apici dell'insulsaggine quando
Mirella e Nicola camminano assieme e appare il fantasma
del morto Matteo che dà loro la benedizione
per potersi mettere assieme. Persino la fotografia
nella seconda parte si sfoca (le riprese sulle isole
Eolie, per l'eccesso di luce che il fotografo evidentemente
non ha
saputo filtrare).
Nell'asfittico panorama cinematografaro
italiano tuttavia, questo film – testamento
spirituale del buonismo diessino alto borghese - risalta
per le qualità più che per i limiti.
Ed è veramente superba l'interpretazione di
tutti gli attori (l'accattivante Luigi Lo Cascio che
era già ne I cento passi, Jasmine Trinca straordinaria
– come si dice: le basta un movemento di ciglio
per recitare -, il sorriso solare di Maya Sansa...),
dai più giovani sù fino alla celestiale
Adriana Asti. In attesa della sfornata di opere per
la tv che la destra al potere si prepara a finanziare
e in cui la storia sarà debitamente riscritta
e con essa i sentimenti e le emozioni delle persone,
e il nostro senso collettivo. |
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