Storia
minima di un uomo invisibile
di Lorenzo misuraca
Incontro, dopo due anni, con un amico kossovaro tornato
in Italia.
Capita
a volte di incrociare ancora una volta persone con
cui hai diviso un periodo della tua vita, scomparse
un giorno. incontri su cui non avresti scommesso una
lira.
Darko, il nome è fittizio, è un kossovaro
che ha vissuto nello stesso appartamento di studenti
dove abito io, circa due anni fa. Viene da un villaggio
perduto sulle montagne del Kossovo, di etnia serba:
pochi anni fa, secoli ormai, durante l’unico
conflitto che ha vissuto l’Occidente dopo la
seconda guerra mondiale, gli abitanti di Restelika
(non so se sia la giusta grafia) si ritrovarono emarginati
sia dai Serbi (per la loro appartenenza geografica
e religiosa), che dai kossovari (per la loro appartenenza
etnica).
Una buona parte dei fuggitivi di quella comunità
si sono stabiliti, per uno di quei canali di relazioni
aperti dai primi arrivati, a Siena. Darko ha dovuto
lasciare Siena nel Marzo del 2001, perché la
moglie, rimasta dall’altra parte del mare, aveva
subito un infarto. Sapeva che difficilmente sarebbe
riuscito ad attraversare la frontiera da clandestino
ancora una volta, per tornare in Italia. Sapeva che
probabilmente avrebbe perso il buon lavoro nella cucina
di un ristorante per turisti. Eppure la scelta per
lui è stata automatica, potremmo dire addirittura
che non abbia avuto nemmeno bisogno di scegliere.
È tornato a visitare me e l’altro compagno
di casa (gli unici due che nel frattempo non hanno
lasciato l’appartamento) proprio il giorno del
suo compleanno, i primi giorni di giugno.
33 anni portati molto male,
o molto bene, secondo i punti di vista. I tratti del
viso, infatti, sono quelli duri e aspri che la televisione
ci ha distrattamente insegnato a riconoscere dalle
navi colme di clandestini sbarcate sulle coste pugliesi:
spigoli e solchi, senilità precoce della pelle,
che talvolta è specchio dell’anima quanto,
e più degli occhi. Gli occhi, invece, accompagnati
dal sorriso, parlano di un bambino che non c’è,
ma che –nonostante tutto- reclama al presente
un’infanzia sempre rimandata. Ci mostra orgoglioso
la sua nuova videocamera digitale (poco importa se
in realtà non è digitale, e il venditore
lo ha preso in giro). L’ha comprata a rate,
come la macchina che comprerà quando avrà
il benedetto permesso di soggiorno. “Kwompro
tutto arate, kwe mi frega!” dice ridendo. E
noi ridiamo insieme a lui, dimenticando forse che
quello che per noi significa schiavitù (dover
pagare un contocorrente ogni mese per anni), per lui
significa libertà: libertà di sapere
che tra 12 rate, avrà ancora un lavoro sicuro
(al ristorante che aveva lasciato due anni fa) per
pagarle, libertà di fare progetti a medio termine.
Inquadra tutto con la sua videocamera, e ci dice di
salutare la moglie Tjirzana con le parole serbe che
abbiamo imparato da lui. Noi imbarazzati,
avendo solo parolacce nella sua lingua, preferiamo
limitarci all’universale “ciao”.
Il pomeriggio passa tra i ricordi dei mesi passati
insieme, e il racconto dell’anno passato lontano
dall’Italia. Alla rievocazione culinaria dei
piatti kossovari preparatici da Darko ( e Dio, o Allah,
sa quanto mi ci è voluto per capire che “Mangia”
era il nome
di una minestra, e non una esortazione), si alterna
la memoria sui tentativi falliti di rientrare in Italia.Ben
cinque nel corso di un anno, nel corso del quale il
nostro amico ha anche trovato il tempo di costruire
una casa, e mettere al mondo il terzo figlio, Mohammed.
Tre volte è stato bloccato alla frontiera con
la Croazia, e due volte alla frontiera tra Slovenia
e Italia. “ogni volta che ero preso…10
giorni di galera”, ci dice ridendo, e io risparmio
la domanda idiota su come si fosse trovato in cella,
avendo certamente vissuto cose ben peggiori.L’ultima
volta alla frontiera slovena un doganiere gli ha rotto
un piede. Dopo aver trovato un rosario nella tasca
di Darko ( “per me è kwome un giocattolo,
niente di male”), gli ha chiesto se fosse musulmano.
Darko ha risposto di si, ed è stato scaraventato
con forza a terra, rompendosi il piede. Quando parla
di questa storia sospende il sorriso, diventa serio,
e -sarei pronto a scommettere- più per la ferita
causatagli dalla disumanità razzista della
guardia, che per quella al piede.
Darko ha avuto la fortuna di trovare dei datori di
lavoro che hanno creduto in lui, e hanno rischiato
la galera per riportarlo in Italia. Uno lo è
andato a prendere addirittura a Vienna.
Lui lo sa, ma ne ha viste troppe per credere alla
parabola del buon Samaritano: “ loro sono stati
molto buoni kwon me, ma ankwe loro hanno kwonvenienza;
dove trovano uno kwe fa lavoro bene kwome me. Io faccio
tutto. Nessuno italiano studente vuole lavare piatti”.
E come dargli torto. Ricordo che due anni fa lavorava
sette giorni la settimana, potendo riposare solo la
domenica pomeriggio.Poi ci siamo abbracciati, salutati,
e promessi di rivederci al più presto.
Adesso Darko sta cercando un italiano tanto “buono”
da affittare un appartamento ad una famiglia di “albanesi”.
Quando lo avrà trovato, farà arrivare
a Siena la moglie e i tre figli, e da lì sarà
tutta in discesa, rate incluse.Solo che per avere
questo minimo sindacale di dignità umana, ha
bisogno del solito, benedetto permesso di soggiorno,
che attende impaziente da mesi, e
chissà per quanti mesi ancora.
Quella di Darko è una storia piccola, ma che
appartiene a milioni di
gente in tutto il mondo. La storia di persone che
scappano dalla fame e dalla guerra, accolti con razzismo
e sfruttamento nei posti che raggiungono, e di persone
che in questi posti sono nate, e che pur di aiutare
quei migranti, rischiano la galera, affrontando leggi
ingiuste e criminali.
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