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Tutto
o niente – All or Nothing di
Sergio Di Lino |
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Regista: Mike Leigh
Apparentemente
irredento nel suo pessimismo, ma colmo di speranza nonostante
tutto. Questo è, invariabilmente, Mike Leigh,
sin dagli albori del suo cinema. Non un arrabbiato alla
Ken Loach, piuttosto un intimista: il suo mood prediletto
è la malinconia, il suo habitat privilegiato
(nonostante “Topsy-Turvy”) sono i quartieri
popolari londinesi, la gente che li abita, le anime
disperate e alla deriva stipate nei suoi appartamenti.
Leigh non declama né impone, rifiuta l’urlo
fine a se stesso; ma è capace di far male ugualmente.
Il suo ultimo film, Tutto o niente, presentato in concorso
al 55° Festival di Cannes, è una piccola
sinfonia metropolitana fatta di sussurri, di tragedie
sfiorate, di tensioni che corrono sottopelle, sempre
sul punto di deflagrare. La placida vita di una normale
famiglia di fatto (ovvero senza vincoli matrimoniali
di mezzo) inglese e proletaria, lui tassista free-lance
lei cassiera al supermercato la figlia inserviente presso
una casa di riposo per anziani e il figlio disoccupato,
sembra sul punto di disgregarsi sotto i colpi delle
incomprensioni, delle meschinità, dei silenzi,
delle frasi incompiute, della televisione perennemente
accesa che sostituisce i dialoghi e le interazioni tra
i singoli componenti, insomma di tutto ciò che
dopo anni di convivenza non si è più capaci
di dire; come paradosso, una tragedia sfiorata (un infarto
che improvvisamente colpisce il rampollo della coppia)
provvede a ricompattare l’unità della famiglia.
Ma forse si tratta di un’unità solo apparente,
frutto ancora una volta di compromessi.
Come e più dei film precedenti di Leigh, la struttura
corale consente al regista un’ampissima gamma
di variazioni sul tema: dal condominio popolare eletto
a set privilegiato delle vicende, si dipartono una serie
di sottotrame parallele, che coinvolgono i vicini di
casa dei due protagonisti (e i loro figli, come sempre
nel cinema di Leigh elemento perturbante e destabilizzante
dell’unità familiare), ed è forse
questo il limite maggiore di “Tutto o niente”,
questo suo costante rincorrere l’infelicità
e lo scacco in una miriade di personaggi abituati a
lottare palmo a palmo con la vita, segnati dalla sconfitta
ma mai sottomessi, capaci di rialzarsi dopo ogni colpo
subito come se niente fosse; tutto sin troppo programmatico,
persino scontato; una sorta di elegia del dissesto,
mai compiaciuta, questo sì, ma anche vagamente
meccanica, dispiegata con un controllo che sa anche
di didatticismo, di sentenza, di moralismo spicciolo.
Certo, le pecche dettate dall’urgenza di spiegare
a tutti i costi, sono ampiamente compensate dal pathos
della narrazione: Leigh dimostra di amare i propri personaggi,
di partecipare empaticamente alla loro Via Crucis quotidiana;
e sa come emozionare. Senza artifici, senza messaggi
ricattatori, ma soltanto soffermandosi un po’
più a lungo del dovuto su di un primissimo piano,
il tempo di osservare una lacrima affiorare dall’iride
di un occhio lacerato dal dolore, oppure ascoltando
il silenzio, assaporando l’incomunicabilità,
dando udienza al vuoto, all’incapacità/impossibiltà
di dire.
Mike Leigh possiede il raro pregio di riuscire a commuovere
attraverso una levità del tocco che a tratti
sconcerta e disorienta, e “Tutto o niente”
in tal senso rappresenta un’ideale appendice del
(giustamente) premiatissimo “Secrets and Lies
– Segreti e bugie” (trionfatore a Cannes
nel 1996, con il patrocinio del presidente di giuria
Francis Ford Coppola). E se la messa in scena sin troppo
controllata provoca a tratti un allentamento eccessivo
della tensione drammatica con conseguente perdita di
ritmo del racconto, si tratta evidentemente di un rischio
calcolato, un sacrificio inevitabile per chi, come Leigh,
è disposto a sacrificare la piacevolezza e scorrevolezza
del plot a beneficio della rasmissione di emozioni pure
e non mediate.
Indubbiamente, il rischio maggiore insito in opere come
“Tutto o niente” risiede nel suo lambire
pericolosamente la maniera autoriale (e chi ha avuto
modo di conoscere Leigh sa quanto egli detesti tale
appellativo), muovendosi lungo un crinale che per il
regista inglese rappresenta una strada maestra, e a
poco servono i gustosi divertissements tipo “Topsy-Turvy”
(ma siamo proprio sicuri che si tratti di una vacanza
dall’abituale cliché?) a determinare dei
cambi di rotta realmente significativi. La verità
è che Mike Leigh è un cineasta perfettamente
conscio dei propri limiti, al punto da eleggerli a chiavi
di volta del proprio discorso.
Cinema didattico? Forse. Populista? Sicuramente. Dal
gusto blandamente rétro? Sì, e allora?
Leigh non è un teorico, non si pone nei confronti
del cinema in termini di forma, anche se alla fine la
sua non-forma finisce ugualmente per determinare uno
stile; il suo obiettivo primario è raccontare
delle emozioni e degli stati d’animo, e farlo
senza troppi filtri. In tal senso, “Tutto o niente”
rappresenta l’ennesimo anello di una catena che
ha portato Leigh a confrontarsi a viso aperto con il
mondo dell’emarginazione e del disagio sociale
(qualcuno si ricorda dello splendido “Naked”?),
con una sincerità disarmante, che a tratti sfocia
nel candore di chi crede ancora negli uomini e nella
loro capacità di cambiare il mondo nonostante
tutto.
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