Eminem nel suo primo film tra disagi e american dream.
Mah! è l'unico commento che mi è venuto
all'uscita del cinema, dopo aver visto "8 mile",
il film interpretato dal rapper americano Eminem,
e ispirato alla sua vita. Non che sia noioso, anzi
è in un certo senso divertente conoscere la
cultura nera dei sobborghi di Detroit, fatta di grattacapi
quotidiani e sfide a colpi di freestyle, improvvisazioni
liriche a ritmo di rap.
Il problema, se di problema si può parlare
essendo i gusti non discutibili, è che anche
in un film come questo, che apparentemente dovrebbe
rifuggire dalla patinata finzione dell'Hollywood style,
riaffiorano stereotipi cinematografici duri a morire.
Così anche i quartieri degradati della metropoli
americana, e le loro
storie, devono pagare il dazio all'immaginario cinematografico,
consegnato
al pubblico dalle precedenti pellicole di simile ambientazione.
E allora, i giovani "negri" del ghetto sono
tutti impegnati a rappare, sognando un contratto che
porti soldi, macchine e "pupe". Nel tempo
libero, fanno festa, ballano, o girano stretti dentro
ad una vecchia Ford scassata, con l'immancabile pattuglia
di polizia che li insegue per una bravata.
Moretti direbbe: si, ma nella vita che fai? Questo
non ci è dato sapere. L'unico, tra gli amici,
che lavora in fabbrica in attesa della fama, è
il bianco Eminem, il protagonista, l'eroe. E anche
qui, vai con i luoghi comuni da film dossier: vive
in una roulotte sotto sfratto, con una madre fallita
e alcolizzata che gioca a Bingo, e convive con un
ritardato violento, e altrettanto fallito.
Il duro Rabbit, soprannome del protagonista, sostituisce
con un sorriso la mono-espressione da disagiato di
borgata (qualcuno mi dica chi lo ha paragonato a James
Dean) solo davanti alla dolce sorellina, anima pura
in un
mondo di spazzatura. E sopra tutto aleggia Lui, il
più temibile corruttore di storie
Hollywoodiane: il sogno americano. L'uomo solo, incorruttibile,
dileggiato da tutti, tradito dagli amici, dato per
spacciato, che cade, si rialza, trionfa e diventa
ricco e famoso, esiste pure nel mondo dei rapper di
periferia, e il suo nome è Eminem.
Verso la fine del film, ho notato nell'evoluzione
della storia una somiglianza emblematica: "8
mile" non è altro che "Rocky",
ambientato nel contesto dei sobborghi black di Detroit.
Balboa e Rabbit, entrambi poveri e discriminati (mangiaspaghetti
il primo, bianco tra i neri il secondo), entrambi
costretti a fare un lavoro senza ambizione alcuna
(macellaio, e operaio), entrambi con un grande sogno
(diventare un grande pugile per Stallone, diventare
un grande Rapper per Eminem). La dura realtà
fatta di tradimenti, fallimenti, e solitudine si presenterà
inesorabile davanti a loro. Ma la tenacia li porterà
a vincere la battaglia finale (che nel caso di Rabbit
è una sfida di rap improvvisato) con il più
temibile e cattivo degli avversari. È, più
o meno, la stessa trama, solo che al posto della cadenza
italiana gli attori usano dei fastidiosi "Yo"
e "Bello" come intercalare, e l'Adriana
della situazione è Alex, una sbandata che accoglie
lo sguardo appassionato del trionfante Eminem (sommerso
dalla folla in delirio) mostrando il dito medio. Il
solito self made man, e poco più. Non c'è
accenno alle ragioni politico-sociali del degrado
in cui è costretto a vivere il giovane protagonista.
E anche volendola vedere come la biografia di Eminem,
o qualcosa di simile, non c'è traccia della
cattiveria politicamente scorretta che ha reso famoso
il rapper americano nel mondo.
Pur vivendo in un contesto difficile, con una forte
carenza di stimoli culturali, Rabbit non si lascia
mai andare ad una rabbia cieca e distruttiva. Addirittura,
trova il tempo per difendere un gay da una aggressione
verbale. Più che un'autobiografia sembra un'agiografia.
Ridateci il vero Eminem, sporco e cattivo, e raccontateci
la verità sui ghetti d'America, la prossima
volta...
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