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8Mile: anche i rapper sognano di Lorenzo Misuraca


Eminem nel suo primo film tra disagi e american dream.


Mah! è l'unico commento che mi è venuto all'uscita del cinema, dopo aver visto "8 mile", il film interpretato dal rapper americano Eminem, e ispirato alla sua vita. Non che sia noioso, anzi è in un certo senso divertente conoscere la cultura nera dei sobborghi di Detroit, fatta di grattacapi quotidiani e sfide a colpi di freestyle, improvvisazioni liriche a ritmo di rap.

Il problema, se di problema si può parlare essendo i gusti non discutibili, è che anche in un film come questo, che apparentemente dovrebbe rifuggire dalla patinata finzione dell'Hollywood style, riaffiorano stereotipi cinematografici duri a morire. Così anche i quartieri degradati della metropoli americana, e le loro
storie, devono pagare il dazio all'immaginario cinematografico, consegnato
al pubblico dalle precedenti pellicole di simile ambientazione. E allora, i giovani "negri" del ghetto sono tutti impegnati a rappare, sognando un contratto che porti soldi, macchine e "pupe". Nel tempo libero, fanno festa, ballano, o girano stretti dentro ad una vecchia Ford scassata, con l'immancabile pattuglia di polizia che li insegue per una bravata.

Moretti direbbe: si, ma nella vita che fai? Questo non ci è dato sapere. L'unico, tra gli amici, che lavora in fabbrica in attesa della fama, è il bianco Eminem, il protagonista, l'eroe. E anche qui, vai con i luoghi comuni da film dossier: vive in una roulotte sotto sfratto, con una madre fallita e alcolizzata che gioca a Bingo, e convive con un ritardato violento, e altrettanto fallito.
Il duro Rabbit, soprannome del protagonista, sostituisce con un sorriso la mono-espressione da disagiato di borgata (qualcuno mi dica chi lo ha paragonato a James Dean) solo davanti alla dolce sorellina, anima pura in un
mondo di spazzatura. E sopra tutto aleggia Lui, il più temibile corruttore di storie
Hollywoodiane: il sogno americano. L'uomo solo, incorruttibile, dileggiato da tutti, tradito dagli amici, dato per spacciato, che cade, si rialza, trionfa e diventa ricco e famoso, esiste pure nel mondo dei rapper di periferia, e il suo nome è Eminem.

Verso la fine del film, ho notato nell'evoluzione della storia una somiglianza emblematica: "8 mile" non è altro che "Rocky", ambientato nel contesto dei sobborghi black di Detroit. Balboa e Rabbit, entrambi poveri e discriminati (mangiaspaghetti il primo, bianco tra i neri il secondo), entrambi costretti a fare un lavoro senza ambizione alcuna (macellaio, e operaio), entrambi con un grande sogno (diventare un grande pugile per Stallone, diventare un grande Rapper per Eminem). La dura realtà fatta di tradimenti, fallimenti, e solitudine si presenterà inesorabile davanti a loro. Ma la tenacia li porterà a vincere la battaglia finale (che nel caso di Rabbit è una sfida di rap improvvisato) con il più temibile e cattivo degli avversari. È, più o meno, la stessa trama, solo che al posto della cadenza italiana gli attori usano dei fastidiosi "Yo" e "Bello" come intercalare, e l'Adriana della situazione è Alex, una sbandata che accoglie lo sguardo appassionato del trionfante Eminem (sommerso dalla folla in delirio) mostrando il dito medio. Il solito self made man, e poco più. Non c'è accenno alle ragioni politico-sociali del degrado in cui è costretto a vivere il giovane protagonista. E anche volendola vedere come la biografia di Eminem, o qualcosa di simile, non c'è traccia della cattiveria politicamente scorretta che ha reso famoso il rapper americano nel mondo.
Pur vivendo in un contesto difficile, con una forte carenza di stimoli culturali, Rabbit non si lascia mai andare ad una rabbia cieca e distruttiva. Addirittura, trova il tempo per difendere un gay da una aggressione verbale. Più che un'autobiografia sembra un'agiografia.

Ridateci il vero Eminem, sporco e cattivo, e raccontateci la verità sui ghetti d'America, la prossima volta...

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