DENTRO LA BOLLA
GALAPAGOS
O gnuno ha la sua "fissa": la mia è
registare ogni anno sulla prima pagina della agenda del nuovo
anno le parità delle varie monete e gli indici delle principali
borse alla fine dell'anno appena trascorso. Quei singoli dati,
in generale, dicono poco. Ma a metterli in fila, anno dopo anno,
ne esce un film trash, che ben rappresenta ciò che accade
alle borse mondiali.
Prendiamo Wall Street: il Dow Jones al suono della campanella
del 31 dicembre del '96 raggiunse quota 6.442; 365 giorni più
tardi la quotazione era salita a oltre 7.908 (dopo aver segnato
in agosto un record di 8.259) con un guadagno del 22,6%. Una performance
storica, visto che per la prima volta dopo oltre 100 anni, il
Dow Jones chiudeva per il terzo anno consecutivo con rialzi superiori
al 20%. Le mie agende mi dicono che a fine '98 il Dow Jones supera
quota 9.180, con un guadagno nell'anno di oltre il 16%. Infine
il '99: il 31 dicembre l'indice raggiunge un nuovo record a 11.497,12
punti, che significano un balzo nell'anno del 25,2%.
Chiedo scusa per molte cifre, ma la sequenza è impressionante,
e dimostra, dati alla mano, come in cinque anni le quotazioni
del Dow Jones e delle società che rappresenta si sono più
che raddoppiate. E questo non è un buon indice di buona
salute, ma di una econonomia che sta gonfiando una bolla speculativa
che rischia di esplodere drammaticamente. D'altra parte, da almeno
quattro anni lo stesso Alan Greenspaan, il governatore della Fed,
ha lanciato messaggi in questa direzione, segnalando i rischi
di una supervalutazione delle quotazioni che non ha riferimenti
con la redditività (anche se eccellente) della imprese
statunitensi.
Non so se questa volta l'economista Ravi Batra centrerà
l'ennesima previsione secondo la quale entro la metà dell'anno
assisteremo al "crack del millennio", per dirla con il titolo
del suo ultimo libro. Batra probabilmente sottovaluta la forza
e l'esperienza delle banche centrali e in particolare di Greenspan
che non a caso Clinton ha dichiarato di voler confermare nel suo
ruolo. E sottovaluta anche la forza dei paesi dell'euro che nel
caos di questi giorni sta recuperendo con forza quotazioni che
aveva smarrito già poche settimane dopo il varo il primo
gennaio dello scorso anno.
Su un punto Batra (economista di stampo liberal che crede nella
rigida legge della domanda e dell'offerta) ha, però, ragione:
gli Stati uniti e l'economia americana sono una anomalia e il
boom finanziario non è il risultato di un ciclo virtuoso
(come sostengono i liberali nostrani) ma il frutto dello strapotere
di una moneta (il dollaro) e della appropriazione da parte del
capitale dei guadagni di produttività. Insomma, un paese
squilibrato, nel quale l'appropriazione del profitto, la concentrazione
della ricchezza e del patrimonio lasciano stazionarie le condizioni
di milioni di famiglie i cui redditi in dieci anni sono rimasti
praticamente stazionari.
Nonostante questo, la domanda cresce: le famiglie, infatti si
indebitano, spendono più di quello che guadagnano (il risparmio
delle persone è negativo) e il credito al consumo esplode.
Altri consumi sono tirati dai capital gain realizzati giocando
in borsa (la metà delle famiglie statunitensi possiede
azioni). Il tutto ha retto sulla base di aspettative che si sono
autorealizzate visti i comportamenti di massa.
Alla frenesia dei consumi privati si accompagna un parsimonioso
andamento dei consumi pubblici: il bilancio federale nel '99 ha
registrato un attivo clamoroso di 100 miliardi di dollari. Un
segnale che la mano pubblica non attua restribuzione di redditi,
non provvede, come potrebbe e dovrebbe, a migliorare il welfare.
E così la selezione naturale delle persone va avanti e
i ricchi diventano più ricchi, come ha scritto perfino
l'insospettabile Wall street journal.
Molti però sostengono che l'economia è sana. Anzi,
come si usa dire oggi, i fondamentali sono sani. In realtà
a fare il confronto con il 1929, come fa Batra, emerge che anche
allora i fondamentali erano sani, migliori di quelli attuali:
inflazione zero, disoccupazione al 3 per cento, tassi dei bond
al 4 per cento. Eppure la crisi esplose pesantissima e si trascinò
fino allo scoppio della seconda guerra mondiale.
Ma c'è dell'altro. La borsa statunitense (ma non solo)
da alcuni anni è esplosa con le azioni del comparto tecnologico,
smaterializzato, che non distribuisce utili (e forse mai ne distribuiranno),
ma registra capitalizzazioni straordinarie che fanno impallidire
quelle delle imprese che producono i beni materiali della nostra
esistenza. Non voglio difendere le società che producono
"robba" per dirlo alla Verga, ma lo squilibrio è mostruso
e alimenta sogni impossibili. E soprattutto fa mancare la "robba"
a milioni di persone.
Infine una notazione non secondaria: sulle borse si regge il
sistema della pensioni integrative. Negli ultimi anni, grazie
ai bassi tassi di interesse, le borse (anche quella italiana)
hanno attirato ingenti capitali "dimostrando" con le forti crescite
delle quotazioni la bontà dell'investimento e la possibilità
di porsi come alternativa valida al vecchio sistema previdenziale
pubblico. Storicamente (cioè nel lungo periodo) i rendimenti
azionari hanno garantito buoni rendimenti (12 per cento la borsa
statunitense). Però, e chiedo scusa in anticipo ai citati,
non fa dormire sogni tranquilli sapere che il futuro nostro e
dei nostri figli può dipendere da Amazon.com o da Tiscali
o da Gandalf e da catene di Sant Antonio che periodicamente rischiano
di esplodere.
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Argomenti di questa pagina:
Economia, politica, pensioni, Europa,
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