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articolo d'archivio di Girodivite mensile delle città invisibili

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Girodivite - n° 59 / dicembre 1999 - Speciale 2000

Catania indaga su Messina...

da ilManifesto, 19 dicembre 1999

GIUSTIZIA FUGA DI NOTIZIE PILOTATA SULL'INCHIESTA CATANESE

Gli abitanti del pianeta mafia: magistrati, carabinieri...

...pentiti e imprenditori. La Procura chiede sei custodie cautelari

- GUIDO RUOTOLO - ROMA

D a due mesi la procura di Catania ha chiesto i loro arresti per fatti di mafia, per aver aiutato Cosa nostra, per aver inquinato le prove, per aver intascato soldi in cambio di favori, per aver contribuito a fare a pezzi - ove ce ne fosse ancora bisogno - il contributo dei collaboratori di giustizia nella lotta alla mafia. Da due mesi, il gip di Catania tiene sulle spine investigatori e inquirenti e, soprattutto, i diretti interessati che ormai sanno tutto. Dopo due mesi, una fuga di notizie pilotata tenta di intorbidire ancora di più il clima, visti i protagonisti. La procura di Catania, infatti, ha chiesto al gip sei misure di custodia cautelare (quattro in carcere, due domiciliari) nei confronti del sostituto procuratore nazionale antimafia Giovanni Lembo, dell'ex presidente di Corte d'appello Marcello Mondello, dell'imprenditore messinese Santi Travia, di un maresciallo del Ros, Antonio Princi, dei pentiti Giuseppe Chiofalo e Cosimo Cirfeta, gli stessi coinvolti nella inchiesta che ha portato la procura di Palermo a chiedere alla camera l'autorizzazione all'arresto di Marcello Dell'Utri per calunnia.

Un magistrato della procura nazionale antimafia, un (ex) presidente di Corte d'appello, un maresciallo del Ros dei carabinieri, due pentiti, un imprenditore mafioso. Uno spaccato di una società "collusa", un meteorite che si è staccato da quel pianeta fatto di mafia, antimafia, magistratura e forze dell'ordine e che rischia di precipitare e di devastare quel già malconcio sistema "giustizia". Le accuse nei confronti dei sei indagati sono pesantissime: per i due magistrati, Lembo e Mondello (e per l'imprenditore Travia) sono quelle di concorso esterno in associazione mafiosa, omissioni e abusi in atto d'ufficio, inquinamento delle prove; per il maresciallo del Ros, inquinamento delle prove, per i due pentiti Chiofalo e Cirfeda, calunnia.

Messina il "verminaio" è l'epicentro di questa storia che lambisce anche Reggio Calabria, ma solo perché lì vi sono state sponde nel palazzo di giustizia. La "gestione" di un "falso" pentito, Luigi Sparacio, è l'oggetto, la sostanza di questa inchiesta catanese.

Dunque, la fuga di notizie. Sconcertante che il procuratore di Catania Mario Busacca confermi implicitamente l'oggetto dello "scoop" al giornalista, lamentandosi del ritardo del gip nel decidere sul merito delle richieste della procura. E ieri, Busacca telegrafico conferma: "Io e i miei magistrati siamo sereni". Imbarazzata è la replica del procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna: "La notizia è rimasticata, era nota da tempo. Confido molto nel principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, soprattutto trattandosi di un collega. Su sua richiesta, ho esonerato Giovanni Lembo da qualsiasi attività che riguarda la Sicilia".

Giusto ribadire che fino a sentenza passata in giudicato, Lembo è innocente. Come tutti sono innocenti, povericristi e potenti, fino a quando non saranno condannati definitivamente. Il punto, l'imbarazzo di Vigna, è che i guai giudiziari del suo sostituto sono noti da tempo. Almeno da quel 22 novembre del 1997 quando un avvocato messinese, Ugo Colonna, ha presentato la sua denuncia alla procura di Catania lamentandosi dei comportamenti tenuti dai sostituti antimafia di Messina Giovanni Lembo e Carmelo Marino nella gestione del collaboratore di giustizia Luigi Sparacio. L'esposto di Colonna, dettagliatissimo, è stato "riscontrato" dai pm catanesi tant'é che già il 6 agosto del 1998 il gip Alfredo Gari procedeva all'arresto del falso pentito Luigi Sparacio.

Già allora, già in quell'agosto del '98, era chiaro che Lembo, Mondello e altri magistrati di Messina (come il pm antimafia Carmelo Marino) e Reggio Calabria (come il pm antimafia Francesco Mollace) erano indagati, compromessi dalle accuse. Emergeva, già allora, che Lembo e Mondello con i loro comportamenti favorivano la strategia del falso pentito, e dunque di Cosa nostra. In sostanza, Sparacio (ufficialmente pentito dal 14 gennaio del 1994) consegnandosi allo stato e dichiarandosi collaboratore, in realtà voleva mantenere in vita il suo clan, le sue attività (estorsioni, usura, riciclaggio, bische clandestine). E l'inchiesta che ha portato al suo arresto ha svelato i dettagli di questa sua strategia. Ha documentato la colpevole "patente di credibilità" del pentito fornita dai magistrati, ha rivelato che a Sparacio non solo furono restituiti i suoi beni (valore: venti miliardi), che erano stati sequestrati. Ma che durante la sua "collaborazione", il servizio di protezione gli versò "contributi" al di sopra degli stipendi medi per i collaboratori. E che, per rispettare questa strategia, i giudici compiacenti si impegnarono a "sottovalutare" le accuse di altri collaboratori che venivano dal clan Sparacio e che lo stesso boss, nonostante "protetto", ricattava e minacciava i suoi ex affiliati pentiti. Inoltre, che Sparacio passava a riscuotere il pizzo dalle sue vittime e a riunire il suo clan nonostante seguito dai suoi "angeli custodi" di stato.

L'avvocato Colonna è rimasto colpito dalle anticipazioni di stampa: "Questa non è la solita storia di pentiti - commenta amaro - intesa come imprudente valorizzazione di un soggetto, Sparacio, che non meritava la qualifica di collaboratore. In realtà, in questo caso la nascita del falso collaboratore è stata agevolata consapevolmente da quei magistrati che gestivano in prima persona Sparacio. Non solo credo che nessuno dei magistrati che oggi si dice essere indagati pagherà, ma temo che anche i soggetti in carcere, Sparacio e gli esponenti del mondo imprenditoriale messinese, escano a breve per decorrenza dei termini".

Ma cosa è successo nell'ultimo anno, da quando è stato arrestato Luigi Sparacio e, in qualche misura, l'inchiesta era diventata nota, l'accusa giocava a carte scoperte? Che Giovanni Lembo ha cercato in tutti i modi di inquinare le prove, di intimidire i testi dell'accusa, di costruire false accuse nei confronti dell'avvocato Colonna. Addirittura, sembra che il sostituto procuratore nazionale antimafia non abbia saputo giustificare la provenienza sospetta intanto di cinquanta milioni trovati in qualche suo conto bancario.

Compromesso e sempre di più con le spalle al muro, il sostituto Lembo non ha ritenuto di doversi dimettere, di salvaguardare almeno l'ufficio, la procura nazionale. E forse l'anticipazione stampa di ieri serviva proprio a questo. A pretendere un sussulto di dignità, di rispetto delle istituzioni da parte di un magistrato che deve rispondere del suo operato ad altri magistrati.

 


Released online: December, 1999

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