Jorge Manrique

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Jorge Manrique


Jorge Manrique era nato probabilmente a Paredes-de-Nava nel c.1440. Combattè contro Enrique IV. Morì in battaglia, a Garci-Múñoz, nel 1479, ucciso dalle truppe del marchese di Villena, avversario di Isabel la Cattolica. Manrique vive dunque nel pieno, come del resto la sua famiglia, delle lotte interne al regno di Castilla del tempo, prima della "pacificazione" con Isabel.


Il padre, protagonista delle "Stanze", Rodrigo Manrique partecipò tra i protagonisti di primo piano della vita politica e guerresca del tempo. Già il nonno di Jorge, Pedro, era stato imprigionato (nel 1437) perché tra le fazioni nemiche del re Juan II di Castilla: i figli avevano tentato di liberarlo, lui era evaso. Alla morte di Pedro la guida della famiglia passò a Rodrigo, che continuò la lotta contro il re e contro il connestabile di Castilla, Alvaro de Luna, che governava il regno e che era fautore, con eccesso di ambizione personale, di una politica di accentramento dei poteri a scapito delle famiglie baronali tradizionali. Nella battaglia di Olmedo (1445) i baroni vennero sconfitti, e l'infante Enrique, maestro dell'Ordine di Santiago, che guidava i ribelli muore per le ferite riportate. Don Rodrigo si allontana dai ribelli perché pretendeva al posto occupato dall'infante Enrique e perché il connestabile don Alvaro gli promette la restituzione dei beni sequestrati all'indomani di Olmedo. L'arresto del fratello Diego Manrique riporta don Rodrigo tra i ribelli. La famiglia dei Manrique perde così tutti i possedimenti ed è perseguitata. Il 5 luglio 1453, dopo essere stato esiliato, don Alvaro de Luna viene decapitato a Valladolid: l'odio della nobiltà giunge così al suo fine. Nel 1454 anche il re, Juan II muore. Il figlio Enrique IV, nuovo re, restituisce ai Manrique i beni, e don Rodrigo segue il nuovo monarca nella guerra contro il Regno di Granada, ultimo baluardo arabo in Spagna. Sono dieci anni di guerre contro i mori, durante i quali don Rodrigo si distingue in alcune battaglie: già da giovane aveva avuto un ruolo decisivo nella presa di Huèscar (1434: ferito da una freccia, ebbe dal re Giovanni II come premio un quinto del bottino oltre che a servi e soldi), ora conquista l'importante fortezza di Jimena (1456). Ma la lotta interna dopo una sosta riprende. Il regno di Enrique IV dopo un inizio pieno di buone intenzioni si caratterizza come il momento di maggiore disordine della storia della Castilla. Le grandi famiglie nobiliari (tra esse anche Rodrigo Manrique) si riuniscono ad Avila (1465), fuori le mura inscenano un processo-farsa, dichiarano deposto Enrique IV che considerano corrotto e depravato (Enrique IV passerà alla storia con l'appellativo di 'l'Impotente'), proclamano come successore il fratellastro Alfonso, un undicenne malaticcio. Nel 1467 nuova sconfitta dei ribelli a Olmedo. Il re recupera l'autorità ma deve firmare l'impegno per la successione alla sorellastra Isabel (Alfonso nel frattempo è morto, si sospetta avvelenato): implicitamente ammette che la figlia Juana, cui spetterebbe la successione, è frutto di una relazione adulterina, come già si mormorava. Alla morte di Enrique IV (1474), il marchese di Villena (Juan Pacheco che morì proprio quell'anno, sostituito dal figlio), il Maestro di Calatrava, l'Arcivescovo di Toledo e altri nobili appoggiati dal re di Portogallo prendono le armi e rivendicano il diritto alla successione di Juana (chiamata dalla fazione avversa, con sprezzo, 'La Beltraneja' perché si pensava fosse figlia naturale di don Beltrán de la Cueva), contro Isabel. Rodrigo Manrique e il figlio, Jorge, sono stavolta dalla parte di Isabel, che concede a don Rodrigo l'agognato titolo di maestro dell'Ordine di Santiago (alla morte di Juan Pacheco marchese di Villena, ex favorito di Enrique IV). I ribelli sono sconfitti nella battaglia di Toro (1476). Rodrigo morrà l'11 novembre 1476 (di cancro) ad Ocaña. Di Jorge sappiamo che nel 1470 aveva sposato doña Guiomar de Castañeda, da cui ebbe due figli. Finì in prigione, in seguito a una delle lotte tra famiglie ansiose di accrescere il proprio potere. Dopo un breve ritorno alla libertà, la morte in battaglia, il 24 aprile 1479: al comando di una compagnia di guardie tenta l'assalto al castello di Garci Muñoz. Lui è nelle truppe filo- Isabel, contro il marchese di Villena e altri nobili ribelli.


Di Jorge Manrique ci sono pervenute una cinquantina di liriche, comprese nel "Canzoniere generale" (Cancionero general, 1511) di Hernando de Castillo, e nel "Canzoniere di Sevilla" (Cancionero de Sevilla, 1535). Le sue liriche mostrano una delicata sensibilità, pur nell'impianto allegorico dominante e tradizionale. Si mostra poeta sobrio e compiuto nelle Stanze per la morte del padre (Coplas por la muerte de su padre, 1477). Si tratta di 40 strofe, in un metro di solito usato per argomenti amorosi, la "copla de pié quebrado" (piede spezzato), dove gli ottonari si alternano a quadrisillabi. Ciò consente pause adeguate all'intensità della meditazione di Manrique sulla morte. Quella di Manrique è una compostezza dolorosa. Manrique spiega, quasi pacatamente, sottolineando le parole importanti ed evocative (con il quadrisillabo). I riferimenti eruditi (soprattutto alla Bibbia, ma anche gli exempla classici latini) sono sottintesi, non esibiti.

Si riscuota l'anima addormentata | ravvivi la mente e si desti | contemplando | come se ne va la vita, | come viene la morte, | in gran silenzio, | quanto rapido va via il piacere, | come, appena ricordato, | dà dolore; | come, a nostro intendere, | ogni tempo passato | fu migliore. || Perché, se guardiamo il presente | come in un attimo se n'è andato | e finito, | se giudichiamo con saggezza, | daremo ciò che non è avvenuto | per già passato. | Ma nessuno si inganni, no, | pensando che debba durare | ciò che aspetta | pių di quanto è durato ciò che ha visto, | allo stesso modo. || Le nostre vite sono i fiumi | che vanno a dare nel mare, | che è il morire. [Str. 1-3]

C'è una notevole differenza tra il modo con cui Manrique parla e affronta il problema della morte e quello con cui lo affrontano gli scrittori del "contemptu mundi". Il terrore necrofilo serve a quelli per il compiacimento di immagini horror finalizzate ad atterrire il lettore/ascoltatore, farlo piccolo e umile di fronte alla divinità. In Manrique, dove qualsiasi necrofilia è assente, domina un senso fermo della morte, la morte è inevitabile e bisogna affrontarla da cavalieri, nobilmente. Lorenzo Medici modula un canto che invita al godimento, ma il suo è un canto stonato. Anche Villon come Manrique usa il topos dell'"ubi sunt?", ma compiendo la sua operazione sarcastica, rivolgendosi ai suoi amici e passando in rassegna non dame e cavalieri ma ubriaconi puttane e gli altri protagonisti dei suoi versi, nella sua ribellione verso l'"alto". Il mondo di Manrique invece è proprio quello che Villon esclude dal suo orizzonte, un mondo di cui si rimpiange la vita piacevole e confortevole dell'alto ceto feudale (str.17):

Che ne è delle dame, | di acconciature e vestiti, | e dei loro profumi? | Che ne è stato delle fiamme | di quei fuochi accesi | dagli amanti? | Che ne è stato di quel poetare, | delle musiche intonate | che suonavano? | Che ne è stato di quel danzare, | delle vesti laminate | che indossavano?

Manrique descrive il mondo della giovinezza, un mondo cui egli ha partecipato e di cui si sente quasi il rimpianto: un mondo che dopo la morte del padre non potrà pių riaccostare a causa delle nuove responsabilità della maggiore età? Indirettamente è anche un presentimento per la propria morte (il mito della morte dell'eroe da giovane, che contribuirà alla fama di Manrique nel XIX secolo romanticistico). Una posizione leggermente diversa per esempio da quella di Ariosto con il suo incipit, nell'"Orlando furioso": lì il mondo dei cavalieri sarà un mondo del passato, una età dell'oro. In Manrique è un mondo ancora vivo, con le sue guerre le tragedie gli eccidi e i suoi sprazzi di luce. Attraverso la morte di un cavaliere, suo padre, Manrique rende conto anche di quel mondo: ma di fronte alla morte tutto viene smussato, perde di senso. Le beghe tribali, gli odii, le guerre civili. Nell'enumerazione di amici e nemici alternati, si comprende come, davanti alla morte, l'odio e le azioni anche le peggiori possano avere tutt'altro aspetto. E persino di un nemico della famiglia dei Manrique come don Alvaro de Luna, si dà con mestizia e pacatezza la tristezza della perdita (str.21: "e quel gran Connestabile... non è il caso di dirne altro | se non che lo vedemmo | decapitato..."). Con Manrique soprattutto si ha la conquista di una dignità di fronte alla morte. Fa dire al padre, rivolto alla Morte (str.38):

Non sprechiamo altro tempo | in questa vita meschina | in tal modo, ché la mia volontà è | concorde a quella divina | in tutto, | e acconsento al mio morire | con volontà compiacente | chiara e pura, | poiché voler l'uomo vivere | quando Dio vuole che muoia | è follia.

Quel "consiento en mj morir" è tra le cose pių alte e piene di forza che possa capitare di leggere in un testo letterario. Di fronte alla morte Manrique conquista il pudore della parola. Per questo ci evita le elencazioni che risultano tanto fastidiose (di titoli nobiliari, imprese, di riferimenti pedanti ecc.) in altri testi. Le "Stanze" sono uno dei punti pių alti della poesia spagnola, hanno avuto una ininterrotta fortuna. Esse concludono un'epoca, quella allegorica e dominata dalla scolastica, nel cui ambito Manrique si muove. Offrono alla nuova lirica un modello di purezza espressiva e intensità evocativa molto alto.


Spagna nel XV secolo

[1997]


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