Se l’identità è una questione televisiva

mercoledì 22 settembre 2004, di Sergej

La storia delle televisioni locali: replicare il peggio per perpetuarlo meglio? A partire da un saggio di Aldo Grasso.

Un tizio, un giorno, visitando una riserva indiana nel Nuovo Messico, chiese al vecchio capo Navajo che cosa caratterizzasse l’identità del suo popolo. Il vecchio scrutò lo straniero e dopo una lunga pausa disse: "Non abbiamo un’identità, non abbiamo una televisione" [1].

L’aneddoto è citato da Aldo Grasso, quasi al termine del suo libro "Il bel paese della tv. Viaggio nell’Italia delle emittenti locali", edito da RCS Quotidiani e diffuso nelle edicole dal Corriere della Sera il 18 settembre 2004. Libricino rilegato di 228 pagine, costo di 5,90 euro (senza quotidiano). Quella di Grasso non è probabilmente la "prima" riflessione sul mondo delle tv locali - come invece nel risvolto pubblicitario di copertina del libro -, è certamente una informata disamina di quanto si muove nel mondo delle tv locali e regionali. Grasso procede agilmente, a pillole e per aneddoti. Punta un po’ su tutti gli aspetti di questo sottobosco che è la tv locale in Italia, fa cenno ai suoi "personaggi": da Aiazzone a Wanna Marchi. Delle brevi schede agevolano la lettura, puntando l’attenzione su aspetti particolari compreso il nuovo "evento" delle tv di quartiere e delle "telestreet". Quello di Grasso è un libro interessante, quasi un "istant" a cui avrebbe probabilmente fatto bene anche la presenza di un indice analitico.

C’è una assenza, nel libro di Grasso. Manca praticamente qualsiasi accenno alla situazione delle televisioni locali in Sicilia - l’unica notazione: "Il medium è il messaggio: ormai è lo slogan delle tv siciliane, dove il partito trasversale dei maghi sta saturando l’etere con fatture di ogni tipo: in diretta, in differita, con Iva o esentasse. La ’Febbre del Sabba Sera’ impazza da Trapani a Caltanissetta" (p.36). Per il resto niente. Delle 15 "principali" emittenti locali siciliane trascritte alla fine del volume - ma nessun accenno all’interno, segno che Grasso e il suo staff non si sono mai visti un programma siciliano né hanno fatto ricerche in proposito -, segno di una "normalità" apparente, nessun accenno alle concentrazioni, al fatto che buona parte di queste televisioni fanno capo a 2-3 cordate di cui Ciancio, tychoon dell’editoria e ex presidente della FIEG (Federazione italiana degli editori di giornale) prima di Montezemolo, e proprietario de La Sicilia, "possiede" una fetta consistente di questo mercato.

Parallelamente a questa, manca qualsiasi lettura su cosa significa essere padroni di testate televisive locali e far parte di un potere locale. A Lentini ad esempio, città-dormitorio del siracusano ben due emittenti televisive superstiti dall’epoca delle tv selvagge. Nessuna produzione di spazi di intrattenimento, nessuna trasmissione autoprodotta se non il telegiornale: in cui la realtà politica e la cronaca vengono rimodellate per il consumo di un pubblico casalingo che certamente non vuol sentir parlare di mafia, di delinquenza organizzata né di spartizioni politiche. Una realtà a cui si allude, si ammicca. Che si gestisce facendo intendere che "si sa" perché si è parte di "quelli che sanno". Cosa è peggio, il personaggio del banditore d’arte televisivo ridicolizzato da Corrado Guzzanti o questi ricreatori dell’ordine sociale locale? Della realtà televisiva locale al di sotto di Napoli, si fa cenno nel saggio di Grasso solo alla pugliese Telenorba.

L’aspetto politico della vicenda delle televisioni locali è saltato alla grande, a favore dell’aspetto sociologico e di costume. Si citano le cifre, grazie anche a una ricerca pubblicata nel 2001 [2], cifre che indicano come il "fenomeno" delle televisioni locali è economicamente in crescita in barba a qualsiasi tentativo di soffocamento portato avanti dai network nazionali (cioè Mediaset e il suo governo). Non si comprende il perché di tali cifre.

Per finire, grande assente: il dibattito sul riassetto televisivo. Anzi: sui riassetti. Perché quello che è accaduto in Italia, e che ha permesso la nascita di un monopolista come Silvio Berlusconi, è la storia di una serie di non-leggi che hanno plasmato il mercato a uso e consumo dei più potenti [3], che hanno fatto sì che determinate emittenti, con le caratteristiche che abbiamo sotto gli occhi a livello locale, potessero sopravvivere a scapito di altre. Una selezione non naturale, ma imposta dal convergere di interessi politici, sociali, e di controllo delle popolazioni locali. Televisioni fatte non per produrre innovazione e cultura, ma replicare il peggio per poterlo perpetuare meglio.


Note:

[1] Lo straniero era Guillaume Chenevière, ex direttore della Télévision Suisse Romande. L’aneddoto è citato in conclusione della relazione che Armin Walpen, direttore generale della SRG SRR idée suisse (la Società Svizzera di Radiotelevisione, ovvero il Servizio pubblico svizzero) ha fatto all’assemblea generale della CORSI (Società Cooperativa per la Radiotelevisione nella Svizzera Italiana) il 15 giugno 2002.

[2] Lo studio è stato realizzato dal FERT, Federazione Radio Televisioni, nel 2001. Il FERT è l’associazione degli imprenditori radiotelevisivi privati italiani.

[3] Sono i decreti "ammazza emittenti", dalla legge Mammì a quelli firmati da Cardinale, Vita e Lauria. Si veda per una appassionata "ricostruzione di parte", quanto scrivono i redattori di Radio Torre Genova (http://www.radiotorregenova.it/storia.html).

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