Cinema di regime

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Cinema di regime



Con la normalizzazione imposta da Stalin, la cinematografia sovietica perde impulso innovativo, subisce un processo di standardizzazione all'interno del canone del "realismo socialista". Il film deve rispondere innanzitutto a una finalità propagandistica del regime e della vita sovietica. Nello stesso tempo si cerca di non perdere il passo con le innovazioni tecniche che provengono dall'estero (il sonoro, il colore ecc.). A entrambi i requisiti risponde l'attività di Nikolaj Ekk che fu prima attore e regista al Teatro sperimentale di Stato con Mejerchol'd, entrò nel cinema prima come tecnico nel 1928 e poi come regista. Ha diretto Verso la vita (1931) primo film sovietico sonoro, uno dei capolavori del cinema didattico con l'indimenticabile figura del maestro Sergeev (l'attore Nikolaj Batalov) che sù bito dopo la rivoluzione d'ottobre raccoglie orfani e ragazzini di strada, li educa e li cresce negli ideali del comunismo. Diresse poi: "Grunja Kornakova" (1936) primo film russo a colori, "La fiera di Sarocincy" (1939).
Con Aleksandr Petrovic Dovzenko , sceneggiatore dal 1925 poi passato alla regia, siamo anche qui a un alto livello cinematografico. Suo è un film come Arsenal (1929), e Aerograd (1935) forse il più grande film sonoro dell'epoca.
Casi affini sono quelli italiano e tedesco, con particolare intensificazione a partire dagli anni '30, in connessione con i mutamenti sociali e di regime che avvengono all'interno di quei paesi. Con la differenza, rispetto all'URSS che la produzione dell'industria nazionale è maggiormente direzionata allo sfruttamento dell'aspetto evasivo. Meno irrigimentata in Italia e più influenzata dal modello hollywoodiano, più programmatica e sistematica la produzione tedesca con l'avvento al potere di Hitler: qui si crea un vero cinema di regime, che fa da supporto al regime e propaganda sistematica. Tipico il caso di una cineasta come Leni Riefenstahl che come documentarista ha girato due notissimi film: "Triumph des Willens" (1935) sull'adunata nazista di Norimberga, e "Olympia" (1937) sui giochi olimpici di Berlin.
L'UFA è totalmente integrata nel programma propagandistico del regime nazista: i registi migliori furono deportati o costretti all'esilio. Nel 1943 la casa di produzione festeggerà i 25 anni di vita con un film sul "Barone di Münchhausen": ciò mentre cominciano a farsi sentire le conseguenze delle disfatte militari sul fronte russo.
In Italia tra le due guerre la produzione cinematografica entra in uno stato di profonda crisi. L'intervento del regime in questo caso serve non solo in quanto funzionale agli interessi della propaganda del regime, ma anche come intervento dello Stato come unico mezzo per risollevare una produzione altrimenti azzerata.
Fenomeni di irrigidimento e di repressione politica avvengono anche nel cinema USA. Con il "codice Hays" si pone un deciso freno a qualsiasi tentazione da parte di autori del cinema hollywoodiano di impegnarsi in campo sociale, in un cinema più vicino alla realtà economico-sociale. Quello elaborato da William H. Hays era un codice di autocensura. Esso entrò in vigore nel 1930, divenne tassativo nel 1934 (fino all'inizio degli anni '60). A hollywood tuttavia non è solo attivo un sistema di censura politico e sostanzialmente sessuofobo, ma anche razzista nei confronti di tutte le minoranze. Il caso più indicativo di questi anni è quello connesso al film "L'imperatore Jones".

"L'imperatore Jones": il razzismo a Hollywood

Nel 1933 la United Artists produce un film, L'imperatore Jones (The emperor Jones), regia di Dudley Murphy. Il film costa 290 mila dollari di allora (nel 1932, per una cifra quasi simile, 305 mila dollari, Ford diresse "Air Mail"), è tratto da una commedia originaria di Eugene O'Neill. Il film, ritrovato nel 1993 dopo che tutte le copie conosciute erano andate perse, è oggi considerato tra i primi black-movie della storia del cinema. Attore protagonista era Paul Robeson, attore-cantante e leader della comunità afro- americana. Sono anni di duro razzismo. La segregazione non permetteva ai 'negri' di cenare nei ristoranti bianchi.
"L'imperatore Jones" racconta la drammatica ascesa al potere di un lustrascarpe di colore del sud. Jones vuole essere rispettato come un uomo bianco, va a New York, a Harlem, lavora nei club e nelle sale da gioco. Un giorno uccide un baro ai dadi e viene condannato ai lavori forzati. Nei campi ammazza un guardiano che aveva bastonato un altro prigioniero, e fugge. Si imbarca come clandestino in una nave mercantile, si getta a nuoto al largo di un'isola dei Caraibi. Si allea con un usuraio bianco, usurpa il trono al re locale e così Jones diventa imperatore. Durante il breve regno si dimostra più crudele dei bianchi, sfrutta il popolo black dell'isola, raddoppia le tasse, punisce i poveri. Terrorizzato dai tamburi voodoo, Jones viene abbattuto su una lastra di pietra che ricorda l'altare della sua chiesa nel profondo sud.
Malgrado le ottime recensioni della critica (bianca) dell'epoca, il film diventò bersaglio di una campagna razzista. Quasi tutte le parole "negro" sono state rovinate dalla colonna sonora. Levate due scene del delirio finale di Jones, in cui Jones 'uccide' i fantasmi di due schiavisti bianchi. Sul finire degli anni '40 un altro colpo viene dal maccartismo: un ex membro del partito comunista americano descrive il personaggio di Jones come dominato dalla «fobia di grandezza. Vuole essere lo Stalin nero tra i Negri». Tutti i film di Robeson scompaiono.
Negli anni '70 l'American Film Institute trova solo le copie di lavorazione in 16 mm. Poi, il ritrovamento di una copia a 35 mm in Francia che ha restituito questo film che non è un capolavoro, ma che conserva un indubbio valore documentario e indicativo di un mondo culturale.

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