L'Italia riparte da zero

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L'Italia riparte da zero



Industria e regime

Tra le due guerre il cinema italiano si trova in pratica a dover ricominciare da capo dopo i fuochi degli anni precedenti la guerra e l'emigrazione verso Hollywood di attori e personale. La svalutazione e la crisi economica immediatamente successivi alla guerra tagliano le gambe alla produzione italica. Nel 1921 clamoroso è il fallimento della Banca Italiana di Sconto, sostenitrice dell'industria cinematografica. Con la megaproduzione di Quo vadis? (1923) diretto da Georg Jacoby e Gabriellino D'Annunzio si cerca di restaurare l'antico predominio italico nei colossal: il film non ha successo, e porta al fallimento la sua casa di produzione, l'Unione Cinematografica Italiana (UCI) di Giuseppe Barattolo.

In realtà anche i gusti del pubblico sono cambiati, e la concorrenza statunitense è letale: indicativamente, dopo la diffusione di Chaplin, Keaton, Lloyd ecc. il film comico italiano sparisce. Non è un caso che Francesca Bertini, superdiva del cinema muto italiano, si sposa con un aristocratico (seguendo il mito piccolo borghese di cui il suo stesso essere diva era parte) e abbandona in pratica le scene. Anche l'altra superdiva, Lyda Borelli smette. E' una intera cinematografia, un intero mondo che scompare nel giro di pochi anni. In questo clima di recessione, l'unico "avvenimento" è il processo di concentrazione operato da Stefano Pittaluga, che monopolizza la distribuzione dei films statunitensi e stranieri, monopolizza le sale, avvia una cauta produzione di film che rispondano ai gusti del pubblico senza avventurarsi in colossal di dubbio successo: di qui i films con il personaggio di Maciste, impersonato da Bartolomeo Pagano che per un decennio rimane l'unica star esportabile della cinematografia italiana. Scoperto da Pastrone per il ruolo di Maciste in "Cabiria" (1914), Pagano, che prima faceva lo scaricatore di porto a Genova, interpretò una serie di films facendo sempre il ruolo di Maciste: da Maciste atleta (1918) a Maciste all'inferno (1926) ecc. E' poi la CINES di Pittaluga che produce il primo film parlato italiano, La canzone dell'amore (1930) diretto da Renato Righelli. Tra i registi che diressero per conto di Pittaluga, Baldassarre Negroni.


Appoggiata dallo Stato, che sentiva l'importanza politica del cinema, e da investimenti capitalistici che grazie a questa presenza giocavano in pratica sul velluto, l'industria italiana cominciò a manifestare una certa ripresa. Soprattutto si profittò di una certa stasi data proprio con l'avvento del sonoro, che rendeva i films nordamericani incomprensibili al mercato italiano (il doppiaggio non era stato ancora inventato) e un certo abbassamento qualitativo che le nuove tecniche avevano prodotto. Il più importante produttore italiano chiamò alla direzione un intellettuale come Emilio Cecchi, non troppo filofascista, che sponsorizzò "Acciaio" di Ruttmann e "Gli uomini che mascalzoni" di Mario Camerini. Per il resto, il maggior successo commerciale lo avevano i films dei 'telefoni bianchi', la cui efficace definizione si deve al critico *Francesco Pasinetti, sulla rivista «Cinema».
L'attività di Vittorio Mussolini nell'industria cinematografica di Stato, e come direttore della maggiore rivista di cinema dell'epoca, «Cinema» appunto, mostra tutti i limiti e le caratteristiche che l'attività cinematografica aveva allora in Italia. Una buona dose di dilettantismo e di improvvisazione, ma anche una forte carica volontaristica, l'amore per i modelli hollywoodiani. Il cinema italiano era il cinema della piccola borghesia, quella stessa che dava il consenso di massa al regime. Il regime fascista anche tramite Vittorio Mussolini testimoniava l'importanza che per il potere politico aveva il controllo su questo mezzo di comunicazione e di ideazione dell'immaginario e del mito quotidiano. Di quanto poi fosse tutta la faccenda poco coordinata e cosciente, è l'episodio del viaggio di Vittorio Mussolini a Hollywood, in cerca di accordi commerciali con l'industria cinematografica statunitense: proprio nei giorni in cui il padre Benito Mussolini firmava il patto con la Germania nazista e antisemita. In una intervista rilasciata anni dopo (negli anni '90) si avvertiva ancora tutta l'ingenua sorpresa di Vittorio Mussolini per l'ostilità con cui le majors hollywoodiane lo accolsero (ma la Goldwyn Meier si rifiutò di incontrarlo), lui che era sempre stato affascinato da Hollywood. L'Italia fascista che si avviava all'alleanza con il nazismo era anche questa. Grazie alla 'copertura' del figlio del "duce" fanno la loro carriera tutta una serie di giovani registi che alla caduta del fascismo matureranno di essere anti-fascisti: è il caso di Luchino Visconti (La nave bianca, 1941; L'uomo della croce, 1942) la cui attività nel dopoguerra sarà fondamentale per la rinascita del cinema italico (o per la sua nascita in senso democratico e progressista).

Il filone esotico imperiale

A un filone esotico-avventuroso, di tipico gusto imperial-fascista per la storia romana e per il grandioso appartengono Carmine Gallone con Scipione l'Africano e Augusto Genina con Lo squadrone bianco.

L'avventura guerresca e coloniale fa produrre alcune pellicole, tra cui Luciano Serra pilota (1938) regia di Goffredo Alessandrini (come aiuto si fa le ossa il giovane Luchino Visconti).


La commedia

Tra le cose migliori, ma nel filone leggero della commedia, alcuni films di Mario Camerini negli anni '30.
Quello del cinema italiano tra le due guerre è un cinema che tenta di scimmiottare Hollywood, alla ricerca di un divismo, di temi e situazioni adatte a una classe piccolo-borghese che cerca di affacciarsi alla ribalta della visibilità sociale. E' l'epoca dei "telefoni bianchi", dei film musicali, dei personaggi fatti di segretarie e giovani rampanti. Divi tipici del regime sono il cinico-strafottente-cocainomane Osvaldo Valenti, e la sua compagna Luisa Ferida (moriranno fucilati nel 1945 dai partigiani, dopo aver aderito alla repubblica nazifascista di Salò).
Tra gli interpreti migliori e più indicativi di questo periodo è il disimpegnato e disimpegnante trentenne Vittorio De Sica, che interpreta una serie di commedie brillanti che hanno molto successo all'epoca e possono ancora oggi essere riviste con piacevolezza: La segretaria per tutti (1931), Gli uomini che mascalzoni (1932), Il signor Max (1937), Grandi magazzini (1939).

Prove di realismo

A un filone realista appartengono Acciaio del documentarista Walter Ruttmann (1933), su soggetto originario di Pirandello, e 1860 di Alessandro Blasetti (1933). E soprattutto Uomini sul fondo (1941) di Francesco De Robertis, con cui si fa iniziare formalmente l'avventura del neorealismo italiano. Si tratta di films sobri, privi di retorica, attenti alle cose e agli uomini "comuni", che saranno utilizzati dalla critica del dopoguerra per ricercare una (problematica e dubbia) linea di continuità all'interno della cinematografia italiana.
Importante ruolo come volano dell'industria e come segno del ruolo che il cinema rivestiva per il regime - accanto a altre manifestazioni "pubbliche" -, il Festival del Cinema di Venezia, che nacque nel 1932.

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