Come
è scialbo il documento finale di Porto Alegre! Senza
emozioni,
senza vibrazioni, senza calore. Giornate straordinarie,
piene di entusiasmo,
dolore, gioia, balli e lacrime, progetti, futuro, piene
di colore
finiscono in un documento grigio. Scialbo senza essere brutto,
anzi è quasi
inappuntabile. Perché? Che quanto di più vivo,
emozionante, stimolante
si sia trovato più nelle strade, nei contatti personali
e di gruppo, nello
scambio di esperienze, nei pochi momenti di relax, nelle
manifestazioni
improvvisate, nei seminari [i media, gli osservatori ecc],
nei gruppi di
lavoro delle "oficinas", nelle assemblee di dibattito
[Chomsky, Hardt,
Klein, Ramonet ecc], piuttosto che nelle riunioni di elaborazione
della
"rappresentanza" internazionale del movimento,
mi pare un dato evidente
e, al contrario ch'essere sconfortante, un elemento di enorme
fertilità per
il futuro. E certo si sa che nessun documento può
riuscire a "contenere"
quell'esuberanza, che presumo ciascuno di coloro che vi
hanno
partecipato continuerà a serbare come memoria preziosa:
ma questa non è
un'obiezione.
Che la "rappresentanza" internazionale del movimento
sia meno
interessante della minuta attività quotidiana che
ormai milioni di attivisti svolgono in tutti gli angoli
del pianeta è un'affermazione talmente banale da
essere incontrovertibile. Che sia necessaria una qualche
"burocrazia" che stia
lì a passar le ore a discutere di aggettivi e sostantivi,
a mediare sulle
prossime date e scadenze, sui luoghi e la scaletta dei temi
e degli
interventi, è anch'essa un'evidenza che appartiene
al regno delle
necessità [non ho davvero alcuna invidia per questo
defatigante lavoro e mostro anzi enorme comprensione per
i suoi esecutori]. Però, ecco, il documento dei movimenti
sociali riuniti a Porto Alegre è proprio scialbo.
Non intendo entrare nei dettagli del documento: ciascuno
dei punti qualificanti ha
ragioni di validità, presenta con buon senso le battaglie
intraprese e
quelle che si intendono iniziare, mostra, insomma, con linguaggio
semplice, divulgativo, popolare, un "programma".
Non è neanche difficile
immaginare la fatica del mettere assieme "ragioni"
economiche e squisitamente politiche, una attenzione all'ambiente
e un'altra al lavoro, la cura per i diritti minuti e quella
per i grandi scenari. Benché risulti davvero difficile
"tenere assieme" tutte le intenzioni [troppo europeiste
alcune, troppo
socialiste altre, troppo fondamentaliste altre ancora],
bisogna
riconoscere che sta proprio qui probabilmente la gran qualità
di questo nuovo
movimento dove - almeno sinora e questa comunque è
l'intenzione dichiarata della quasi totalità dei
suoi attivisti - "tout se tient" in maniera
straordinariamente propositiva. La sensazione, ovvero, è
che il lavorio di mediazione non sia al ribasso ma si provi
a andare avanti, a cercare verifiche, a trovare il terreno
cruciale della costruzione. Però, ecco, il documento
di Porto Alegre è proprio scialbo. E provo a dire
perché esso a me sembra così, senza alcuna
spocchia - che non ho per carattere -, e senza alcuna saccenza.
Esso sembra intenzionalmente pensato per mostrare urbi et
orbi [all'interno del movimento come a tutti coloro che
verso esso mostrano interesse o anche ostilità] come
il movimento abbia superato la fase del suo carattere tutto
accidentale [propriamente, legato ad accidenti, ad eventi]
e sia in grado di porsi come interlocutore planetario credibile,
stabile, "programmatico" appunto, capace cioè
di immaginare esso eventi, di relazionarsi, modificarli,
intervenirvi, adattarvisi, in una parola di fare la
"politica grande " [anche a partire da territori
circoscritti, quasi periferici],
e di riuscire a infilare i tasselli delle sue espressioni
geografiche e di
campagne politiche [dalla Tobin tax ai bilanci partecipativi
all'acqua a
che] dentro un grande mosaico non solo geografico. Da Seattle
a Porto
Alegre diventa così non tanto un riferimento geografico
e di diverse
espressioni di un movimento, ma una progressione: Porto
Alegre, questa Porto Alegre è un punto d'arrivo e
di una "ripartenza" [come si dice in gergo calcistico],
e se ne immaginano sue riproduzioni e cloni [i forum continentali
nelle Americhe, nell'Europa]. Da Seattle a Porto Alegre,
passando per Praga,
Nizza, Genova [ma anche Washington, Davos e tante altre
scadenze] tutto
sembra ricondursi qui, e via così, immaginando nuove
Praga, Nizza,
Genova [con la speranza che non siano più quelle
"sommosse di polizia" di cui parla Walden Bello]
e tante altre scadenze e tante altre campagne, per tornare
a Porto Alegre a fine giro. Con in più - e non è
certo cosa di poco conto - che adesso c'è un "programma",
una credibilità internazionale, un
"soggetto politico". Che ha le sue "strutture",
di base, intermedie, di vertice.
Ora è proprio questo a risultarmi poco convincente,
ed è proprio questa scelta di percorso a risultarmi
un'idea di "ripartenza" che non mi entusiasma,
perché - e su questo credo ci sia un assoluto comune
convincimento dei
milioni di attivisti che in tutto il mondo giorno per giorno
si battono,
elaborano, fanno proposte, organizzano riunioni e giornate
di
mobilitazione -, è vero, è necessario un passaggio
forte e importante
del movimento. Solo che il suo riferimento centrale non
sta
nell'osservazione del proprio percorso, già accaduto
[da Seattle a Porto Alegre passando per Genova] o da accadere,
non sta insomma nelle "proprie" scadenze, che
siano di elaborazione, che siano di campagne, che siano
di mobilitazione contro questo o quell'organismo di governo
internazionale dell'economia o del commercio, ma in quello
che già accade "fuori di sé". E
quello che già accade fuori di sé ha sostanzialmente
un nome: Argentina. La crisi argentina è contemporaneamente
l'evidenza del fallimento del modello neoliberista applicato
nelle sue forme "pure" [dove cioè la resistenza
di altri soggetti politico-economici oltre il governo erano
deboli - la sinistra, i sindacati, associazioni di interesse
corporativo, nazionalismi statali] e l'improvvisa irruzione
di un nuovo soggetto sociale mai visto prima d'ora per la
sua composizione [classe media, descamisados, operai, donne
e anziani], che è stato capace, senza "strutture"
consolidate e visibili, di tenere testa a un governo, di
chiedere la testa di uno, due, tre governi, di ottenere
immediate concessioni, di "fare politica", governando
la piazza e
autogovernando la mobilitazione quotidiana. Che è
stato capace di
applicare in termini massivi una mobilitazione, una disobbedienza
assolutamente pacifiche, in cui convogliare tensioni e interessi
diversi
[corporativismi, egoismi di ceti differenti, disperazione
ambigua], ma anche di saper fare "pressione di piazza"
quando è stato necessario. Che ha pagato un prezzo
altissimo in termini di sangue ma non ha perso la testa,
mantenendo e anzi allargando ancora la propria capacità
di resistenza e di influenza sugli eventi, mostrando una
maturità inimmaginabile in termini così diffusi.
In Argentina abbiamo assistito al primo grande movimento
che abbia messo al centro della sua lotta la questione della
moneta, incarnando quindi di fatto per la prima volta, in
termini di massa, in termini di mobilitazione
sociale, quella che è stata la grande trasformazione
economica [non dico
produttiva, dico economica] di questi ultimi anni: la finanziarizzazione
dell'economia mondiale. E, in questo senso, impiantando
una battaglia
che è contemporaneamente estremamente radicata nel
territorio di riferimento ma la cui valenza [anche immediata]
rimbalza ovunque nel mondo, foss'anche solo per via dei
mercati internazionali. Come se, insomma, il braccio di
ferro di Soros contro la sterlina o le manovre della Banca
della Malaysia sui cambi del dollaro o l'improvviso crollo
dell'indice nikkei [tutti episodi di anni fa]
avessero questa volta per "soggetto" la mobilitazione
sociale. Per la prima volta, una mobilitazione sociale sul
"simbolico" [e la moneta è segno per eccellenza]
e non per una qualche materialità [il posto di lavoro
per una fabbrica che chiude dislocandosi altrove, un incidente
in una fabbrica della morte, una inondazione, la siccità
nei campi, la manipolazione di un qualche gene alimentare]
ha assunto dimensioni straordinarie e un impatto straordinario,
mostrando la forza di cogenza che il simbolico ha nelle
nostre relazioni umane e sociali [a cominciare dalle differenze
di ceto sociale di appartenenza, di materialità del
possesso di oggetti] e, nello stesso tempo, la sua enorme
fragilità, la possibilità cioè di
liberarsene [gli assalti ai bancomat sembrano la versione
attualizzata degli
"assalti ai forni" di manzoniana memoria]. Qui
siamo ben oltre - come è facile
intuire - le mobilitazioni contro il "logo", per
riferirci a iniziative simboliche
già messe in atto dal movimento [contro mc'donalds,
la nike ecc.]. O se si
vuole, qui stiamo parlando del "logo" per eccellenza:
il denaro, la
moneta.
In Argentina la situazione è ancora fluida e questo
può significare
diverse cose: un riflusso delle iniziative di piazza, una
svolta autoritaria e
repressiva capace di spezzare ogni resistenza, una qualche
composizione
che riesca a cooptare una parte della stratificazione sociale
abbandonando
il resto a qualsiasi tipo di gestione [da quella repressiva
a quella della
marginalizzazione, del controllo], una capacità di
determinare ancora
crisi nel governo di quell'economia strappando progressivamente
piccole
conquiste e tenendo sempre aperto l'affrontamento tra la
"piazza" e il governo.
Forse altri scenari possono immaginarsi e delinearsi [non
ho una conoscenza
talmente approfondita da poter con leggerezza delineare
ipotesi], ma una
cosa mi sembra certa: qualunque sia lo scenario che si determinerà
in
Argentina esso avrà un impatto notevole sull'immaginario
di questo nuovo
movimento a livello mondiale. E sarebbe grave se non fosse
così. Una
sconfitta dura [repressiva, militare o poliziesca] avrà
un impatto duro,
una capacità di gestire ancora la crisi in modo aperto
da parte del
movimento argentino avrà un impatto di grande sensazione
positiva. Ecco, io credo che la questione argentina dovrebbe
essere al centro della riflessione,
dello sforzo, dell'attenzione, della mobilitazione persino
di tutto il
movimento mondiale. Ecco, io mi sarei aspettato da Porto
Alegre che la
"delegazione argentina" non venisse solo accolta
con entusiasmo e calore - come è stato - e con l'impegno
solenne a stare loro vicino - come è stato - anche
andando lì - come sarà -, ma che diventasse
occasione "fisica" di un confronto generale sulla
situazione del loro paese. Mi sarei aspettato che già
prima di Porto Alegre la riflessione sull'Argentina coinvolgesse
tutti coloro
che hanno un compito nelle "strutture della rappresentanza
internazionale" e
in qualche modo a Porto Alegre la ponessero al centro. Senza
rinunciare a
altri seminari, a altre elaborazioni, a altri programmi.
Ma dando un punto di
gravità, un centro focale. E le diverse anime, le
diverse intelligenze,
le diverse intenzioni avrebbero avuto modo di controbattersi
anche
duramente [peraltro, proprio una riflessione "nazionalista
di sinistra" che chiede "più Stato e più
istituzioni" si va coagulando in Argentina], di
proporre, di ascoltare, di immaginare insieme, perché
ancora "tout se tient", ma attorno
una questione precisa, immediata, di potenziale enorme.
Perché è questo a mio modesto parere il modo
e il percorso che possono avere
questo movimento, che non può e non deve più
- come è dichiarazione comune - guardare a se stesso
solo in termini di "appuntamenti": individuare
di volta in volta quelle situazioni che in qualche modo
focalizzano una o più
questioni "centrali" e farne occasione di mobilitazione
internazionale.
Come è stato - o sarebbe dovuto essere stato - per
la guerra contro
l'Afghanistan. E come è certamente stato l'11 settembre,
quando, ovunque
nel mondo [nella microcooperativa indiana come tra i volontari
statunitensi
come tra gli immigrati in Italia], qualunque attivista ha
dovuto fare i conti
- in mezzo ai suoi compagni e le realtà in cui interveniva
- con quello
che stava accadendo. E come in parte è stato ancora
dopo l'11 settembre
quando la sensazione diffusa nel movimento internazionale
era che il movimento americano fosse quello nella difficoltà
maggiore, attanagliato tra il
revanscismo patriottico e l'orrore che aveva assunto l'attacco
all'impero; che il movimento americano avesse più
di ogni altro bisogno
dell'attenzione del movimento internazionale, perché
senza il movimento americano - soprattutto dopo l'11 settembre
- non ci sarebbe mai stato movimento internazionale. Solo
che qui va rovesciata l'iniziativa. Solo che qui - in Argentina
- la situazione è già rovesciata. Certo, altre,
tante
situazioni urgono o ancora incancrenisono, e alcune d'esse
hanno un significato enorme [la situazione in Palestina,
per dire, i vari "plan" per l'America del sud,
l'assenza di diritti elementari in troppe parti del mondo],
ma nessuno ci impedisce di essere contemporaneamente attenti
a quante più cose possibile [come d'altronde il documento
fa] ma mettendo al centro di volta in volta "un punto
focale" [come il documento non fa]. Non ci serve un
cahier de doléances, benché sotto forma di
programma e di mobilitazione; ci serve individuare - come
d'altronde il movimento ha finora spontaneamente
fatto, a Seattle, a Praga, a Nizza, a Genova - delle "porte
strette", non per
restarvi intrappolati ma per forzarle, teoricamente, attivisticamente,
analiticamente, politicamente, come appunto è stato
fatto con il Wto, il
Fmi o il Wef. Allora, sì, abbiamo una agenda fitta
fitta, tra incontri della
Fao e del Wto da contestare, tra forum sociali da consolidare
a Quito come a
Yoknapatawpha, benché io non riesca a trovare alcun
interesse al quesito
se il forum continentale europeo si debba svolgere in Francia
o in Italia
[propongo di tenerlo in Spagna, per la sua importanza sul
mondo di
lungua latina, o di tenerlo in Germania, dove un confronto
con la parabola
istituzionale discendente dei Grünen è di estremo
interesse e dove si
può aprire una porta verso l'est europeo, un luogo
dove di "esplosioni
all'argentina" contro il liberismo ne potrebbero accadere
presto, in
Romania, Bulgaria, Russia]. E non basta immaginare un percorso
secondo
il criterio "natura non facit saltus": certo,
ci vuole un lento lavoro di
accumulazione, di sedimentazione, di rassodamento, ma il
movimento può
andare avanti solo a salti, può andare avanti solo
impadronendosi di
volta in volta di una questione cruciale, cavandone fuori
tutti i significati,
tutte le applicazioni anche immediate per il proprio lavoro
quotidiano:
non c'entra niente la solidarietà, l'internazionalismo
socialista. Qui non
si tratta di "non lasciare solo" il movimento
argentino: qui è il movimento
internazionale che rischia di restare solo. E poi qui il
saltus c'è, e
bello bello: si chiama Argentina: un confronto e uno scontro
diretto tra una
moltitudine sociale composita e il governo mondiale dell'economia,
che
stritola, spazza via i nazionalismi, quei ceti dirigenti
compradori o
"analisti" o da jet-set che si vogliano definire.
Perché la costituzione
materiale che avrà qualunque definizione di questo
confronto e scontro
si delineerà, essa non potrà, per principio,
che essere post-nazionale,
anche nelle ipotesi che prenda corpo una soluzione da nazionalismo
argentino
in cui più schieramenti politici si intendano: e
nelle dinamiche di quei
ceti dirigenti e nelle dinamiche dei movimenti: la questione
del "debito
estero", per principio - appunto - post-nazionale,
e della sua remissione, ne è
evidenza. E' lì [a mio parere, ma, come è
noto, le "ripartenze" nel
calcio non sono un dato oggettivo ma punti di vista molto
soggettivi] che
dobbiamo puntare gli occhi, inventare, mobilitare, partecipare.
Ecco perché a me il documento finale di Porto Alegre
sembra scialbo senza essere brutto,
anzi persino inappuntabile: è una agenda ma non ha
punti focali, non ha
colore e non ha calore. E non ha - curioso, no? - senso
immediato della politica.