


GiroArgomenti
GiroLink
Download
Homepage
|
Questo documento è un contributo
alla riflessione che ormai da alcuni mesi attraversa le forze del centro-sinistra
sulla quale Caffè Europa vuole aprire un dibattito con i suoi lettori.
"C'è la bellezza e ci sono gli oppressi. Per quanto difficile possa essere,
io vorrei essere fedele a entrambi" (Albert Camus)
1. Oltre i confini
Dobbiamo avere il coraggio di mettere in discussione alcuni "confini"
dell’osservazione e dell’azione politica: rispetto al tempo, allo spazio,
alla tradizione, allo stesso linguaggio. Pensare in chiave di "generazioni
future" e di "esseri viventi" modifica il presente e allarga il concetto
di "prossimo"; ma allude anche a un’economia e a una demografia diverse.
Ad esempio, mette in conto che, nel mondo, vivono circa sei miliardi di
persone non appartenenti a paesi strutturalmente capitalistici. Di fronte
a tali "inderogabilità" demografiche non c’è utilitarismo economico che
tenga e non c’è politica nazionale che possa reggere. Il realismo e uno
sguardo prospettico impongono altre dimensioni del discorso. Qui, la nostra
riflessione si lega al dibattito in corso in Europa, che verte, non a
caso, sulle forme e sui contenuti di un’azione politica nuova; e ci sembra
di poter condividere una parte delle proposte di chi, come Daniel Cohn-Bendit
("Liberation", 22-2-2000), parla di una "terza sinistra" che si proponga
come un luogo in cui "pensare e vivere diversamente la politica". Pensare
e vivere, appunto, senza mai scindere l’uno dall’altro, significa non
ridurre lo spazio pubblico a gioco di alleanze e a scacchiere di strategie,
ma ampliarlo costantemente all’ascolto dei bisogni e delle domande degli
attori sociali e alle prospettive di comune emancipazione di cui essi
sono portatori. Una terza sinistra non è dunque né a destra né a sinistra
della sinistra, ma è aperta all’emancipazione, dovunque essa si esprima;
e si batte contro tutte le forme di esclusione, dovunque esse si manifestino.
Mettere al centro il conflitto ecologico e sociale significa, appunto,
dare profondità e spessore a un desiderio diffuso, latente e atomizzato,
di emancipazione collettiva e a una irriducibile volontà di rivolta, latente
e atomizzata, contro l’inaccettabile. Forse, in questo, c’è la ricerca
del senso dimenticato della sinistra e di un rapporto forte tra etica
e politica, da rintracciare nelle forme sempre diverse in cui la società
lo propone. Tali forme cambiano e invocano strumenti di comprensione sempre
più raffinati. Non si possono cogliere la specificità e la complessità
dei compiti della terza sinistra senza ripartire da fenomeni come la caduta
del Muro e il vorticoso avanzare della globalizzazione economica e finanziaria.
Questo significa che le formazioni economiche e gli assetti culturali
complessivi sono mutati rispetto a quelli che la sinistra era abituata
a trovarsi di fronte. Non si può costruire azione politica se non si parte,
in primo luogo, dalla natura profondamente mutata del capitalismo che,
con una certa civettuola arroganza, si è auto-definito come capitalismo
sapienziale. Al di là delle sue tante forme (renano, alpino, anglosassone,
asiatico, ecc.), esso si fonda sull’informazione più che sulla produzione,
sulla universalizzazione dei mercati più che sull’accumulazione a scala
nazionale. Questo significa soltanto che esso è diverso da quello tradizionale,
non che è migliore né che è peggiore. L'attuale capitalismo ha visto aumentare
la sua ambivalenza, che bisogna prendere sul serio e su cui bisogna lavorare.
Espandere i mercati può voler dire andare incontro a bisogni diffusi,
ma imporre scelte e indurre desideri a fini di profitto vuol dire governare
la vita degli individui. Qui la terza sinistra deve essere in grado di
contrastare tutte le forme di fondamentalismo che finiscono per crescere
intorno all’economia capitalistica e la trasformano in imperativo modello
etico-politico di vita. Una politica dell’emancipazione non deve essere
soltanto agonistica e antagonistica, ma deve lavorare in positivo, per
trasformare i vincoli in risorse. Per questo facciamo nostro il progetto
(indicato ancora da Daniel Cohn Bendit) di elaborare quattro profili di
riflessione e di azione politica: a) responsabilità per il lungo periodo
(principio di precauzione); b) superamento delle logiche binarie (stato-mercato,
capitale-lavoro); c) scelta di una democrazia degli individui contro ogni
totalitarismo della vita; d) valorizzazione del pluralismo sotto forma
di società, economie, culture diverse, in stretta comunicazione e in rapporto
costante. La cornice di tutto questo è un'Europa che si ponga come sede
di un comune patrimonio e di una cultura dei diritti umani e che combatta
ogni totalitarismo, compresa la sua crescente tendenza a ridursi a "burocrazia
autoritaria". Tutto questo impone un’auto-riflessione su cosa debba essere
oggi un movimento ecologista e un movimento di sinistra radicalmente diversi
dalle esperienze del passato. 2. Due sinistre, uno Stato La sinistra è,
innanzitutto, una "cultura" che si pensa orientata alla società (all’oikos)
piuttosto che alla politica (polis); ai bisogni e ai diritti piuttosto
che ai poteri. Essa guarda all’organizzazione della vita civile come capacità
di autonomia e autogoverno piuttosto che come sistema di più autorità,
dotate di comandi e di competenze: in termini di responsabilità, pertanto,
piuttosto che di esoneri. Ma questo significa mettere in discussione la
forma tradizionale dell’organizzazione della vita collettiva modellata
sullo Stato; forma solo raramente e solo superficialmente scalfita dalla
tradizione dei movimenti emancipativi e diventata, piuttosto, precondizione
di ogni discorso politico. Il pregiudizio a favore dello Stato (ovvero
della dimensione statale/istituzionale e del primato del centro e della
mediazione pubblica) appartiene alla politica, soprattutto alla politica
italiana, prima ancora che alla sinistra. Se appare proprio della sinistra,
fino a connotarla in tutte le sue componenti, è perché la sinistra si
è maggiormente identificata con la politica, con la funzione di mediazione/trasformazione
che a essa è stata assegnata; e, progressivamente, con lo Stato, specie
quello "nato dalla Resistenza". Qui rintracciamo, oggi, un elemento robustissimo
e letale di continuità: l'attuale sinistra si configura, infatti, come
esasperatamente politicista (anche quando risulta meno statalista), dal
momento che pare incarnarsi - ci riferiamo, qui, alla cronaca recente
- in un governo nato dalla "disperata" forzatura della politica come manovra
tattica e contingenza pragmatica. Ma le radici dello statalismo sono più
profonde, assai più profonde, nella storia e nella cultura italiana: stanno,
per esempio, nella vocazione cortigiana degli intellettuali, nella tradizione
centralista dello Stato liberale, nell'organicismo dello Stato fascista,
nel dirigismo democristiano. Siamo il paese in cui perfino la Chiesa si
è fatta (il suo) Stato. La ragione sta, sinteticamente, nel fatto che
la pulsione individualista al "particulare", non incontrando la rete di
una forte e autonoma società civile, è rifluita verso approdi familistici,
corporativi, campanilistici; e in quegli approdi, a rendere per così dire
"dialettico" il rapporto tra sfera pubblica e sfera privata, l'accaparramento
privato (o di gruppi o di ceti ristretti) dei beni e delle risorse pubbliche,
è stato la norma. Nel campo della sinistra, quel pregiudizio a favore
dello Stato, ha lavorato in profondità, sottilmente e tenacemente, accompagnandone
le traversie ideologiche e le peripezie organizzative. Cosi che, oggi,
quel pregiudizio si ritrova, inalterato, in pressochè tutta la sinistra:
a dispetto delle divisioni che sembrano lacerarla. Attenzione: le divisioni
ci sono, eccome, ma la loro cristallizzazione ha sortito l'effetto di
rendere le diverse sinistre l'una rigidamente speculare all'altra, e l'una
strettamente indispensabile all'altra. E, così, la scellerata teoria delle
"due sinistre" è diventata - in breve tempo, e con poche eccezioni - opzione
egemonica nel senso comune delle aree culturali e politiche che alla sinistra
fanno, variamente, riferimento. In altri termini, quella teoria, di derivazione
classicamente estremista, è stata introiettata nella mentalità e nei comportamenti
e, perfino, nell'idea di sé che la gran parte dei militanti di sinistra
coltiva: al punto da suggerire una sorta di "adeguamento" progressivo
allo schema proposto, anche quando esso, formalmente, viene rifiutato.
L'auto-identificazione rigidamente duale e l'aggressività polemica che
contrappone le due aree, ha prodotto un ulteriore processo di semplificazione
e di riduzione: esaltando , per un verso, le primarie opzioni di fondo
(quelle che apparivano come le opzioni di fondo) e, per altro verso, le
differenze in negativo. In altri termini, è come se l'alternativa fosse
ancora: "Riforma sociale o rivoluzione". Il carattere fallace di una tale
contrapposizione non consiste solo nella sua sostanziale futilità: ma,
ancor più, nel fatto di discendere e di dipendere da una e una sola cultura
politica, di cui "riforma" e "rivoluzione" costituiscono la variabile
"moderata" e quella "estremista". Ma la cultura è e resta una e una sola,
limitandosi a presentarsi, di volta in volta, come versione ragionevole
o irragionevole, progressiva o accelerata e, ancora, moderata o estremista.
Ma - al di là del peso, rilevantissimo, rappresentato dalle tradizioni
e dai retaggi ideologici, e fin "antropologici" - qual è il fondamento
che unifica quella cultura politica? E la unifica al punto da rendere
meno significativa la diversità delle strategie politiche adottate rispetto
all'opzione teorica che ispira entrambe? Crediamo che quel fondamento
sia costituito appunto - in primo luogo - dalla concezione dello Stato,
coltivata quasi uniformemente da tutte le componenti della sinistra. Tale
concezione può sintetizzarsi nei seguenti termini: primato dei diritti
sociali su quelli individuali; primato della sfera pubblica su quella
privata; primato del centro sulla periferia; primato dell'istituzione
sul movimento; primato della mediazione sul conflitto. Evidentemente,
la tensione tra queste cinque coppie di categorie si è col tempo attenuata
o, in qualche caso, significativamente modificata, ma una concezione dello
Stato affidata a quei cinque primati resta l'elemento qualificante e unificante
di una teoria e di una strategia altrimenti destinate a disgregarsi. Quelle
coppie, come si è detto, oggi tendono a disporsi diversamente. Non c'è
dubbio, in altre parole, che il secondo termine di tutte quelle coppie
ha assunto una diversa pregnanza rispetto al passato, anche recente: e
che, per intenderci, i diritti individuali o il federalismo ottengono,
oggi, un maggiore interesse all'interno della sinistra. Ma restano inalterati
l'approccio e la gerarchia delle priorità. E questi rimandano, infallibilmente,
alla centralità dello Stato nella concezione del sistema politico e dell'azione
pubblica elaborata dalla sinistra. Tutto ciò risulta ampiamente confermato
anche dalla cronaca politica, che vede, a sinistra, una sottovalutazione
nei confronti delle garanzie individuali e dei diritti della persona e
una impostazione tuttora statalistico-autoritaria (ad esempio, del problema
della propaganda politica televisiva). Dunque, è proprio quella concezione
statocentrica che va criticata, destrutturata e abbandonata. Ed è questa
attività di critica, e di elaborazione di una concezione diversa, che
può fondare un programma di sinistra terza, che trovi le sue ragioni costitutive
altrove rispetto alla sua fondazione in capo allo Stato. Le "due sinistre"
- è agevolmente dimostrabile - mai hanno abbandonato quell'identità costitutiva.
La concentrazione sullo Stato, da "abbattere" o da "conquistare", da "riformare"
o da "amministrare", resta la vera (forse la sola) residuale radice "marxista"
e "leninista" della strategia della sinistra nel suo complesso. Unitamente
a questo, e in conseguenza di questo, pesa (e molto) la persistenza di
una concezione toponomastica dello spazio politico, dove - lungo la linea
del continuum destra-sinistra - si disporrebbero le diverse formazioni,
ordinate secondo una gerarchia di intensità della quota di sinisteritas
che esprimono. E la sinisteritas presuppone un sistema politico costruito
su una "rappresentazione lineare-assiale. In essa, ogni posizione ha un
proprio topos, ben definito, è soggetto a un Nomos inflessibile. (…) L'intero
sistema è interpretato misurando, di volta in volta, la distanza che separa
le diverse forze da questo centro. Il tutto presuppone piena stabilità
e trasparenza nei valori che caratterizzano i diversi topoi. Tali valori
sono, per così dire, obbiettivati in questi luoghi, così che i diversi
soggetti in movimento lungo l'asse del sistema si trovano ad assumerli,
a seconda della propria collocazione". In estrema sintesi, l'intero sistema
politico dipende dalla "obbiettivazione dei valori ai diversi topoi politici
sistemati sull'asse destra-sinistra (sono di sinistra poiché qui mi colloco,
e cesso di esserlo quando mi colloco altrove)" (Massimo Cacciari). Quanto
sia fragile una tale rappresentazione toponomastica e "obbiettivata" è
dimostrato, in ultimo, da un esempio eloquentissimo: secondo quella scala
di valutazione, un presunto indicatore della sinisteritas, come il rifiuto
del rientro in Italia dei Savoia, collocherebbe nella casella estrema
di quel continuum il partito della Rifondazione comunista, il partito
Repubblicano e alcune componenti e alcuni esponenti della sinistra tradizionale.
Ma, giusto per intenderci, il principio della responsabilità individuale
- in una vicenda come quella dei Savoia - ci sembra assai più qualificante
di una concezione matura di terza sinistra rispetto a quello della responsabilità
dinastica ed ereditaria. L'esempio è più significativo di quanto si possa
credere: anche in tal caso, infatti, a determinare la posizione di "falsa
sinistra" (ci si passi la brutta formula), è la convinzione del primato
dello Stato e dell'ideologia di Stato (nazional-repubblicana) sui diritti
individuali della persona. E una seconda motivazione, più raffinata, rivela
anch'essa la medesima radice statolatrica: ovvero l'attribuzione allo
Stato e alle sue leggi (e ai suoi divieti) di un ruolo "pedagogico". Una
"pedagogia" destinata, in questo caso, a perpetuare (normativamente) la
memoria e a produrre (normativamente) informazione ed educazione (repubblicana)
nei confronti dei cittadini. Ed è la stessa opzione che determina un atteggiamento
"laicista" in tema di parità scolastica. Assegnare allo Stato, com'è giusto,
la funzione di garantire a tutti l'accesso a una istruzione libera e pluralista,
non deve significare - in alcun modo - riconoscergli un proprio progetto
pedagogico: appunto, statuale-nazionale-repubblicano. E, tanto meno, esigere
che a quel progetto pedagogico si uniformino scuole, docenti e alunni.
In estrema sintesi, si può ipotizzare un approccio alternativo che preveda:
a) il primato dello Stato rispetto alla funzione di controllo delle regole
e del rispetto di diritti; b) il primato dello Stato rispetto alla funzione
di garanzia dell'universalità del diritto all'istruzione; c) il primato
dello Stato rispetto alla funzione di tutela delle pari opportunità e
dell'equità sociale. Ma tale approccio risulterà fecondo solo se saprà
rifiutare il primato dello Stato rispetto alla funzione sociale della
sfera educativo-formativa. Ancora un esempio. Se costretti a scegliere,
oggi, tra diritti individuali e diritti sociali all'interno del mercato
del lavoro, nell'impossibilità di conciliare le due categorie (come vorremmo),
riteniamo di dover privilegiare la prima. Per intenderci: tra l'estensione
dello statuto dei lavoratori alle aziende con meno di quindici dipendenti
e la piena parità salariale, è la prima rivendicazione quella maggiormente
qualificante. Si tratta, palesemente, di un esempio "estremo", ma che
ci offre un efficacissimo criterio per definire una identità di nuova
sinistra, capace di emanciparsi dai fondamenti culturali e di senso comune,
propri della sinistra tradizionale. Da questo punto di vista, la critica
di una impostazione economicista, che privilegia la parità salariale rispetto
alla più ampia inclusione nel sistema dei diritti e delle garanzie, è
utilmente "scandalosa": e significativa, appunto, di un approccio radicalmente
diverso da quello convenzionale. Un esempio altrettanto efficace è quello
relativo all'abolizione della leva obbligatoria. Per decenni, a sinistra,
ne è stato difeso il valore "nazionale" e "unitario-repubblicano": in
altri termini, l'utilità della leva obbligatoria come funzione dello "Stato
democratico". Oggi è "assai inquietante che la sinistra più radicale torni
(…) a difendere quella forma di lavoro coatto al servizio dello Stato
che è la coscrizione obbligatoria". E, d'altra parte, "anche il servizio
civile, istituito come alternativa obbligatoria a quello militare, dev'essere
inteso come un lavoro coatto, come sfruttamento e attentato alla libertà
di scelta" (Marco Bascetta, il Manifesto, 4.9.1999). Lungo questa traccia
di riflessione, va costruita una cultura diversa, a partire dall'elaborazione
intorno a quelle coppie di concetti (diritti sociali/diritti individuali;
sfera pubblica/sfera privata; centro/periferia; istituzione/movimento;
mediazione/conflitto) e a un diverso equilibrio tra i termini che, quelle
coppie, compongono. Dunque, in questo documento, svilupperemo alcuni dei
punti più significativi di una proposta politica che, intorno a una possibile
aggregazione di terza sinistra, prova a focalizzare la nuova tensione
e il nuovo equilibrio tra la periferia e il centro, tra i diritti individuali
e le garanzie sociali, tra la sfera privata e la sfera pubblica, tra il
conflitto e la mediazione, tra il movimento e l'istituzione, tra la sperimentazione
di nuovi sistemi di azione e le forme classiche della politica. 3. Centro
e periferia, periferia e centro La sinistra - sarebbe meglio usare il
plurale, come si è detto - ha inseguito e finito per assumere come perno
del proprio modello politico la forma e il sistema di Stato che hanno
caratterizzato la storia del mondo dal '600 a tutto il '900. Lo sviluppo
delle grandi identità politiche, innanzi tutto: le nazioni e gli stati
nazionali come grandi costruzioni delle realtà territoriali, etniche,
economiche e culturali. All'interno, un modello politico e amministrativo
dominato da una forma di governo della società espressa nella rappresentanza
e nella delega che assumono carattere assoluto. Il governante rappresenta
il corpo dei governati. Sovranità e rappresentanza costituiscono il cuore
della moderna politica: ogni forma di democrazia è all'interno di tale
predominio. In nessun caso, la partecipazione attiva del cittadino può
essere l'inizio e il fine della politica. E la sovranità è il centro,
punto nevralgico di scelta e di decisione, e di sintesi delle dimensioni
che la periferia del potere raccoglie ed esprime. Si può decentrare, vale
a dire rimettere dal centro alla periferia alcune istanze di amministrazione,
ma risulta eversiva ogni espressione autonoma della periferia. Questo
modello politico è stato dominante per tre secoli. La sinistra l'ha seguito
e inseguito, nel tentativo di rovesciarne gli aspetti inaccettabili per
le classi oppresse. Il modello fondato sulle grandi identità collettive
- classe, partito, Stato - è stato così ribaltato. A classe, partito e
Stato borghesi, si oppongono classe, partito e Stato di diversa qualificazione.
Caso classico - per la sinistra, tanto rivoluzionaria che riformista -
di inversione e scambio tra mezzi e fini. Dal momento che lo Stato moderno
è la struttura del potere delle classi dominanti, è a quel livello - con
la rottura radicale o con la riforma democratica - che deve rivolgersi
l'azione delle classi subalterne. Il sostantivo nella sua potente rappresentazione
di stabilità e di sicurezza - stato come participio passato del verbo
essere - è indiscutibile; quello che si può modificare è l'aggettivo che
lo accompagna: assoluto, liberale, proletario, socialista, democratico,
eccetera. In ogni caso, il centro detiene sovranità e potere. Può, naturalmente,
decentrare alcune delle sue prerogative. Può anche riconoscere e coordinare,
con le proprie articolazioni, autonome forme di amministrazione che si
esprimono nella periferia. E' il caso del federalismo, nelle sue diverse
espressioni storiche (aggregazione di autonome sovranità locali; decentramento
di funzioni e poteri). Oggi, quel modello di Stato e di potere rivela
irreversibili segni di crisi, che si manifestano sia nella difficoltà
dello Stato-nazione ad affermare autonomia e prerogative rispetto ai processi
di globalizzazione, sia nella crescente impotenza della politica a esprimere
rappresentanza (basti pensare ai livelli sempre più ridotti di partecipazione
politica). Ma crisi non comporta la conclusione di un'esperienza né un
esito già prevedibile e, tanto meno, positivo. La terza sinistra deve
agire proprio su questo terreno di crisi, individuandone i passaggi più
acuti e fertili. Soprattutto, si tratta di assumere un punto di vista
radicale: non tanto sul terreno delle forme di lotta, quanto su quello
della qualificazione ideale e materiale del modello politico. Occorre
sostanziare le rivendicazioni di libertà e di eguaglianza sul piano dell'elaborazione,
e della conquista, di una effettiva autonomia. Tutti i modelli di sviluppo
guidato dal centro hanno esaurito la loro carica positiva (peraltro già
scarsa e scadente); all'ordine del giorno è la costruzione e il riconoscimento
di forme di autogoverno e di autogestione nei luoghi della periferia .
4. I diritti e la democrazia La sinistra ha rappresentato il fattore più
forte dei processi di emancipazione e di modernizzazione che si sviluppano
a partire dal 18° secolo: ma, si diceva, dentro la cornice definita dall'idea
di comunità politica, che si afferma in Europa dopo la pace di Westfalia
(1648). Di quella riorganizzazione dello spazio geo-politico europeo la
sinistra è figlia, e il suo antagonismo è disegnato dentro quei confini.
Questo significa che l'intero cammino dei diritti individuali (prima civili
e politici, poi sociali e, oggi, della terza e della quarta generazione)
era concepibile, e percorribile, soltanto all’interno dei giochi della
rappresentanza e della governabilità degli spazi territoriali delle costruzioni
statuali. Come sosteneva Marx, la "storia, quando arriva ad un bivio,
prende spesso la strada sbagliata". Le condizioni della politica nell’Europa
post-Westfalia hanno fatto sì che o si era cittadini di Stati o non si
era soggetti: così i diritti risultavano, pur sempre, elargizione del
potere statuale e, hegelianamente, dipendevano da esso. Tutto ciò ha prodotto
importanti conseguenze in termini di spazi "pubblici" della vita collettiva,
di realizzazione dei diritti, di immagini delle comunità politiche. Ma,
soprattutto, quella dimensione configurava un modello di "mondo vitale"
e di comunità politica sempre piccolo, locale, affrontabile e governabile
con i limitati strumenti delle altrettanto piccole comunità di potere.
Qui il legame tra culture dei diritti, spazi pubblici della cittadinanza
e modelli ambientali è visibile e molto forte. Tuttora la sinistra tende
a dimenticarlo o, addirittura, a misconoscerlo: soprattutto oggi, quando
le tematiche ambientali riportano il problema della tutela dei diritti
individuali a dimensioni planetarie, non riducibili dentro il vestito
stretto delle comunità statali. E vale per l’ambiente quello che, già
da tempo, emerge in termini di politica delle risorse, di sostenibilità
complessiva dello sviluppo e di equità sociale: bisogna fare i conti,
sempre più, con alcune irriducibili variabili demografiche, che non consentiranno
più di pensare nei termini etnocentrici consegnatici dalla tradizione
della vecchia Europa: se non altro perché i flussi migratori imporranno
la nascita di culture comunitarie diverse tra loro, e imporranno un nuovo
"politeismo". A tale "politeismo comunitario" si aggiunge una inattesa
configurazione della geopolitica. Rispetto alla classica diarchia capitalismo/comunismo,
che ha connotato larga parte della storia degli Stati moderni, la "caduta
del Muro" ha prodotto una profonda alterazione culturale del quadro: venuto
meno il mondo del comunismo organizzato, si sono riversati sul capitalismo
bisogni, domande, aspettative di giustizia sociale che quel mondo scomparso,
perlomeno, diceva di rappresentare. Così sono aumentati i compiti delle
democrazie capitalistiche occidentali e si è enormemente complicata l'elaborazione
di fini e strumenti per le sinistre che hanno assunto poteri di governo.
A questa analisi occorre aggiungere l’importante capitolo dei conflitti
generazionali - sempre più profondi e sempre più visibili - che dal terreno
dell’economia si diffondono nelle altre sfere della società; e che appaiono
come l'esito immediato di un idea e di una prassi dello sviluppo, costruiti
intorno ai paradigmi, ormai inadeguati, di una vita produttiva imperniata
su fabbrica e campagna. La dimensione del lavoro bodyless, timeless, deskless,
cioè disancorato dal tempo misurato e dal luogo circoscritto, ne è soltanto
la ricaduta evidente. Dal punto di vista della simbologia culturale, la
centralità assunta dal corpo, dal tempo, dal genere, sia pure sotto forma
di bisogni indotti dai cambiamenti tecnologici, è la spia - tra l'altro
- dell'inadeguatezza della tradizionale elaborazione politico-culturale
della sinistra. Tutto questo mette in discussione non soltanto l’impianto
etico-politico costruito intorno alla chiave di volta del "collettivo"
e del "comunitario", sempre più conflittuali e sempre più attraversati
dalla ricchezza (anche dissipativa) dei tanti collettivi e delle tante
comunità. Tutto questo mette in discussione anche le forme dell'azione
politica e l’impianto della comunicazione pubblica. C’è uno spazio importante,
significativo e trascurato, che va ripensato: è lo spazio di una democrazia
costruita sui diritti, innanzitutto individuali, il cui contrario è la
democrazia costruita sui poteri. Uno spazio lasciato vuoto, nella tradizione
post-Westfalia, tanto dalla destra quanto dalla sinistra. Dalla destra,
che ha soltanto evocato libertà, ma non responsabilità e doveri connessi
né tantomeno uguaglianza (e si trattava di libertà che avevano come perno
il diritto di proprietà, affidato al mercato senza regole, e l’egoismo
possessivo a esso correlato). Ma anche la sinistra ha lasciato vuoto quello
spazio: pur preoccupandosi dei diritti fondamentali e dell’uguaglianza
a essi connessa, ha sempre dato una versione, per così dire, "doppia"
e "giacobina" della democrazia dei diritti. Ha considerato i diritti,
e le forme della democrazia su essi imperniate, come "corrente fredda",
che aveva valore, ma fino a un certo punto: mentre la "corrente calda",
quella che anima la storia e per cui è giusto e opportuno combattere,
è rappresentata dalla politica. Va tutto bene quando la politica vince
e quando socializza (meglio: universalizza) mezzi e fini; diventa un problema
quando riduce tutto a logica di potere e a gestione dall’alto. La ricaduta
si è vista, più di una volta, nella parabola dei governi europei ed è
stata identificata con la formula "teoria conservatrice della crisi".
Detto ciò, emerge chiaramente che obiettivo della sinistra terza è quello
di vivificare tale spazio "invisibile" che, come l’anello di Clarisse,
attende di essere colmato. Quello spazio ha l’indubbio merito di costituire
il punto di congiunzione tra liberalismo e comunitarismo e di rappresentare
l'occasione di raccordo tra la dimensione privata e la dimensione pubblica.
Il diritto di ognuno è bene comune di una comunità politica, che scommette
sui patti e sui fini condivisi; e questo - va aggiunto - fa parte della
storia, sempre evocata ma finora mai vincente, del grande costituzionalismo
europeo. Valga l’esempio della Costituzione francese del 1793, che definiva
le "garanzie sociali" di una comunità politica come risultato del doveri
di tutti di rendere effettivo il diritto di ognuno, legando indissolubilmente
diritti individuali e politica collettiva. Questa concezione, notoriamente,
è sempre stata trascurata. Per riprenderla con forza, l'attenzione va
concentrata su soggetti e contenuti dei diritti. E qui l'innovazione deve
essere radicale: soggetti non sono soltanto i cittadini, ma ognuno, indipendentemente
da nascita, sangue, cultura, cittadinanza. Il nodo più ingarbugliato sta
nello stabilire quali siano i diritti fondamentali che una comunità politica
deve garantire come entitlement (titolarità) e come provisions (risorse):
e che sono condizione necessaria, anche se non sufficiente, per una vita
democratica. Qui la cultura della sinistra deve riscoprire un universalismo
dimenticato: sono fondamentali quei diritti che comportano il massimo
di inclusività, cioè quei diritti di cui il singolo non può isolatamente
godere se contemporaneamente non ne godono tutti gli altri (come l'aria
e l'acqua). Garantire tali diritti significa assicurare la base di un’uguaglianza
complessa e di una libertà matura, che consentano a ognuno di esprimersi
e di scegliere ulteriormente la propria personale dimensione di vita.
Questo significa concretamente conoscere quello che si mangia e quello
che si beve, le condizioni sanitarie e quelle abitative, le scelte educative
e quelle sessuali. E qui si colloca il grande campo delle scelte bio-etiche,
da considerare non soltanto nella chiave del rifiuto della "manipolazione",
ma anche in quella della libertà di ognuno e della sovranità su se stesso.
Dal punto di vista teorico-politico, va detto che scegliere la via della
sfera pubblica dei diritti individuali significa il deciso superamento
del conflitto tra liberalismo e comunitarismo. Nella prospettiva della
terza sinistra si guarda a una comunità come al luogo degli individui,
dei loro bisogni e delle loro libertà, delle loro preferenze e dei loro
desideri, che non possono che essere condivisi da tutti gli altri. Lo
si può chiamare "egoismo maturo" o "individualismo generoso" o in mille
altri modi, ma sempre esso vuole rappresentare l’universalismo che persegue
la valorizzazione delle differenze e del "plurale": e non, certo, l'universalismo
imposto dall’alto e inteso come sacrificio della individualità. Sappiamo,
infatti, che l’universalismo astratto divide e che le differenze reali
possono accomunare. Questa appare la prospettiva di una possibile emancipazione
e questa si rivela una via politica da perseguire con intelligenza. 5.
Sfera pubblica e sfera privata La contrapposizione sfera pubblica/sfera
privata è rivelatrice del robusto impianto comune che innerva "le due
sinistre". Quella contrapposizione si manifesta attraverso due fondamentali
riflessi condizionati: a) il pregiudizio positivo a favore dello Stato
riguardo alle sue competenze economiche e sociali; b) l'attribuzione allo
Stato della tutela del bene comune sul piano dei valori unificanti e dell'etica
collettiva. Le "due sinistre" condividono tali riflessi condizionati:
la sola differenza consiste nella diversa intensità con cui li avvertono
e li manifestano. D'altra parte, ciò che qualifica una sinistra terza
non è il fatto di nutrire un pregiudizio positivo nei confronti della
sfera privata; e, tuttavia, essa paventa la fragilità di quella sfera
privata nel confronto col potere statuale, ne valorizza la vitalità e
l'iniziativa, ne difende le primarie e inviolabili garanzie costitutive.
E, soprattutto, valuta l'utilità e l'efficacia delle prestazioni e dei
servizi, delle risorse e delle competenze di quella sfera privata sulla
sola ed esclusiva base dei risultati conseguiti. Per intenderci, sul piano
delle politiche dell'occupazione, in alcun modo si può attribuire allo
Stato-imprenditore un primato o un ruolo privilegiato rispetto ad altri
soggetti imprenditoriali; nessuna esaltazione o assolutizzazione (tantomeno
"ideologica") della libera iniziativa, ma nessuna compiacenza o protezionismo
verso l'economia pubblica, se non sulla base dei risultati: ossia dei
veri posti di lavoro effettivamente creati. Il punto di partenza è, dunque,
semplice: la sfera pubblica dell'economia non coincide né con la sfera
dell'economia pubblica né con il pubblico della sfera economica. E' qualcosa
di differente, coinvolge dimensioni della vita di ognuno, ma non si esaurisce
nella contabilità del dare e dell'avere né nel bilancio di costi e benefici.
La sfera pubblica valorizza le iniziative individuali, ma si preoccupa
dell'accesso di tutti ai beni fondamentali; non si confonde con l'antitesi
economia privata/economia pubblica, ma costruisce reti di tutela e di
accesso per i diritti di ognuno. Libero, ognuno, di esercitare preferenze,
ma libero, certo, di fruire di (e di contribuire a) risorse comuni, definite
dagli ambiti dei beni comuni. E vale per i beni fondamentali quello che
vale per i diritti fondamentali: si tratta di quei beni di cui non posso
individualmente godere se nello stesso istante non ne godono tutti gli
altri (la vita, l'ambiente, l'informazione, l'istruzione). Una sinistra
terza deve recuperare questo universalismo e vincere quell'antropologia
dell'invidia ("ne godo io perché non ne godono gli altri"), su cui poggia
ogni manifestazione di fondamentalismo capitalista. Proprio nella sfera
pubblica, va detto, non c'è spazio per quella "invidia", costruita sulle
diverse forme di egoismo possessivo. La sfera pubblica è quella che meglio
rappresenta e tutela le sfere private: ciascuna di esse e il loro complesso.
Le politiche pubbliche, quindi, dovranno avere come obiettivo un allargamento
della sfera pubblica e un suo maggiore consolidamento. Ciò anche in presenza
di (se non grazie a) una limitazione quantitativa e qualitativa dell'intervento
statuale. In questo quadro, politica pubblica non deve comportare né l'abbassamento
della soglia della ricchezza da redistribuire, né una scelta pauperista,
affidata interamente a una strategia di sussidi e di "minimi vitali".
E tuttavia, precisato questo, resta da chiedersi se - su temi come la
questione previdenziale e assistenziale e quella dei servizi sociali -
sia possibile perseguire la riduzione della tutela pubblica, gestita dall'intervento
statuale (centrale o decentrato), al minimo indispensabile. Sia chiaro:
la riduzione al minimo indispensabile va perseguita progressivamente,
con la massima attenzione per l'equità sociale e per gli equilibri complessivi
del sistema; e, soprattutto, va garantito che la tutela di tutti i bisogni
primari sia sottratta all'arbitrio del mercato e dei rapporti dispari
e asimmetrici tra i diversi soggetti che vi operano. Questo può comportare
(probabilmente deve comportare), e per una fase non breve, un sistema
di welfare non più "corto" né meno "costoso". E, infatti, la riduzione
al minimo indispensabile della tutela pubblica per i bisogni primari non
comporta affatto minore tutela per ognuno di quei bisogni; e nemmeno significa
che debba diminuire il numero dei bisogni primari tutelati o l'ampiezza
della platea dei beneficiari. Al contrario. Il pacchetto di prerogative
irrinunciabili tende ad allargarsi e a differenziarsi e richiede una protezione
più complessa e sofisticata. Esemplare il caso dell'assistenza sanitaria,
dove - accanto alle terapie per la salute psicologica - vanno previste
le cure e le medicine non convenzionali; e dove, indubbiamente, l'assunzione
come essenziale del principio della libertà terapeutica può rivelarsi
assai "costoso". L'ampliarsi delle opportunità messe a disposizione dal
riconoscimento della libertà terapeutica impone, per un verso, la diversificazione
dei servizi accessibili dopo la soglia minima; e, per altro verso, esige
selezione delle spese e ingenti risparmi. Il che sarà tanto più possibile
quanto più si terrà conto dei mutamenti intercorsi nelle forme di vita
e nelle stesse aspettative e modalità di cura (si pensi soltanto al passaggio
dal ricovero e dalla permanenza in ospedale al ricorso al day hospital).
In questa prospettiva, va accolta la linea di politica della sanità disegnata
dalla recente riforma, che differenzia la sanità pubblica da quella privata
nella riserva di accesso universalistico e nella sottrazione del diritto
alla salute a logiche di mercato relativamente a strutture, competenze
e, non ultimo, fruizione. Va ribadito, infatti, che l'attenzione per la
sfera pubblica non si risolve in una singola scelta o nel primato di un
elemento, ma è il risultato complessivo di politiche che attengono a)
alla definizione del bene, non privato e inclusivo; b) alle modalità di
accesso, uguali, informate, controllabili; c) alla circolazione delle
risorse e alla capacità di massimizzare i benefici sociali per la quota
più ampia di popolazione. Da questo punto di vista, andrebbero ripensati
alcuni meccanismi di formazione e di erogazione di quote di servizi (dai
trasporti alla scuola). Ma un esempio sugli altri va introdotto, ed è
quello relativo alla politica di donazione degli organi. Per quanto sia
apprezzabile il tentativo di ridurre la scarsità dei beni (pubblici) da
destinare al trapianto non appare adeguato l'attuale meccanismo di "consenso
informato" (opting in) o, peggio, di mancata manifestazione contraria
di volontà (opting out). La donazione coinvolge quote di solidarietà (e
di comunitarismo) molto alte e, perciò, va coltivata con il massimo dell'informazione
partecipata, nel rispetto delle più diverse forme identitarie (etiche,
culturali, religiose), e non attraverso il paradossale comando dell'obbligo
a donare. Analogo discorso va fatto per la questione delicata delle informazioni
genetiche: patrimonio importantissimo che può configurarsi come "bene
comune". Va sottratto, quel bene, a logiche di appartenenza (di un individuo,
di un gruppo etnico, di una entità territoriale) e va utilizzato ai fini
della più estesa massimizzazione dei suoi risultati: per questo non va
subordinato a mercati e a brevetti. Va valorizzato, piuttosto, l'aspetto
di conoscenza sociale che quel bene contiene e, nello stesso tempo, va
garantita l'effettiva tutela del singolo individuo che di quel bene partecipa.
In un tale contesto di espansione e qualificazione delle prestazioni,
ridurre al minimo indispensabile la fornitura pubblica di servizi significa
diversificare anche - soprattutto? - le fonti di loro finanziamento. In
altri termini, come si è anticipato, la conformazione universalistica
dei servizi non viene certo compromessa (e, sotto il profilo finanziario,
può risultare rafforzata) dal fatto che, ad alimentare le risorse necessarie,
concorrano - in misura che può risultare prevalente - i diversi soggetti,
anche privati, del mercato. I rischi di tale soluzione sono evidenti:
il primo è che l'intervento pubblico si riduca, nonostante tutto, a una
dimensione residuale, e che i suoi destinatari - residualmente, appunto
- si limitino a essere "i poveri". E, poi, che la qualità anche delle
prestazioni fondamentali possa risultare gravemente diseguale, discriminatoria
e penalizzante per le fasce sociali meno garantite. Esistono, infine,
rischi altrettanto gravi per l'equilibrio complessivo del sistema: "per
aree strategiche del vivere civile - come scuola, previdenza, sanità -
i mercati presentano elevati gradi di incompletezza o addirittura di inesistenza";
e "quand'anche esistenti e relativamente completi, essi spesso operano
a costi e prezzi maggiori di quelli che sarebbe teoricamente possibile"
(Laura Pennacchi). Questi pericoli sono indubbiamente assai seri e non
vanno sottovalutati, ma non sembrano tali da ridurre, di necessità, le
"adeguate dosi di universalismo" che la Pennacchi rivendica, che riteniamo
indispensabili e che ci sembrano conseguibili attraverso sistemi diversi
da quelli tradizionali. Certo, si può ipotizzare che una nuova "crisi
fiscale" dello Stato - evidentemente da scongiurare - possa essere l'esito
dell'incremento di quelle "dosi", ovvero dell'espansione della platea
dei destinatari di prestazioni universalistiche (gli immigrati non comunitari,
ad esempio) e dell'allargamento del ventaglio delle prestazioni stesse.
Ma è proprio qui che il ricorso all'alimentazione finanziaria offerta
dalle imprese e da altri soggetti del mercato può risultare assai importante.
Sotto il profilo teorico, la nostra attenzione si concentra su quella
che abbiamo definito la sfera pubblica dell'economia: ovvero il complesso
delle garanzie giuridiche e sociali e delle reti di tutela che assicurano
l'accesso ai beni comuni. Questo ci interessa assai più di quanto ci prema
sapere "chi paga" la costituzione e la fruizione di quei beni comuni.
Per altro verso, riteniamo prioritario, in questa fase, operare nel senso
della riduzione e della selezione: individuare e circoscrivere, dunque,
le aree di funzioni, competenze e servizi che devono restare proprie ed
esclusive dello Stato, e "liberare" tutte le altre. Quest'opera di individuazione
è appena agli inizi e non deve dare nulla per scontato. 6. L'eresia economica
ecologista Un approccio innovativo, per la sinistra, al rapporto pubblico/privato
nel campo economico può intersecarsi efficacemente con la riflessione
critica sui fondamenti dell'idea di sviluppo, come ci è stata trasmessa
dall'intera cultura progressista e dall'economia classica. Non è una riflessione
recente. Il riferimento obbligato è il concetto di limite nello sviluppo.
Ci riferiamo al rapporto Forrester del '68-69 che poi divenne, su commissione
del Club di Roma al Mit, il famoso "World Dynamics", in cui - nell'affermare
i "limiti dello sviluppo" - si illustrava come la crescita quantitativa
e illimitata fosse incompatibile con la salvaguardia, non soltanto dell’ambiente,
ma dell’intera specie umana. Il dibattito si spostò poi sulla Z.e.g. (Zero
economic growth): ed Herman Daly propose lo "stato stazionario" come punto
di equilibrio, fornendo alcuni criteri di "sostenibilità" per il sistema
economico. A proposito di "World dynamics", qualcuno ricorderà le famose
"curve a campana" utilizzate in quella modellistica, a significare che
o per fattori economici (risorse, approvvigionamenti, derrate alimentari,
energia) o per fattori demografici o per inquinamento, se non si assume
il concetto di limite e di controllo, il destino è segnato. Le "curve
a campana" sono correlate, infatti, alle vecchie curve logistiche di Verhulst,
che riguardano il "processamento" di stock: e se le risorse sono finite,
la loro evoluzione nel tempo segna, con l’intersezione della curva con
l’asse temporale, la "morte" del sistema. Possiamo perciò riproporre le
"curve a campana", pur senza sposare quella modellistica, come un simbolo
della contrapposizione con il pensiero economico classico. Il modo migliore
di sintetizzare tutto questo, lo trovò Kenneth Boulding, un economista
nord-americano, il quale, più di venti anni fa, compendiava tutto il ragionamento
sul limite in una immagine molto semplice: "il mondo di oggi si trova
a dover passare dall'economia del cowboy all’economia della navicella
spaziale". Il cowboy ha risorse illimitate a disposizione e né lui né
il suo cavallo "consumano" la prateria e producono inquinamento. La navicella
spaziale, al contrario, è uno spazio dove ogni risorsa, addirittura ogni
elemento informativo, va programmato e gestito con cura meticolosa perché,
altrimenti, i limiti della vivibilità vengono immediatamente raggiunti.
Questa immagine è la più efficace per evidenziare la forte cesura registratasi
rispetto al pensiero dell’economia classica. E' esattamente questo il
nostro punto di riferimento iniziale; ed è esattamente per questo che
siamo tacciati di malthusianesimo dagli odierni fautori della crescita
illimitata. In effetti, Malthus aveva posto - proprio al sorgere della
teoria economica classica, e in totale controtendenza - il problema della
limitatezza delle risorse rispetto alla crescita in progressione geometrica
della popolazione: e, perciò, può essere considerato a pieno titolo un
precorritore della cultura del "limite". E’ proprio in questa prospettiva
che Laura Conti sosteneva, alla fine degli anni ’70, le ragioni di Malthus
contro quella di Marx, per polemizzare con le posizioni "sviluppiste",
proprie di gran parte della sinistra e dei suoi intellettuali. Che campo
di applicazione ha avuto questa concezione alternativa dell’economia,
in particolare nell’esperienza italiana? Il primo terreno sul quale si
è misurata è stato proprio la battaglia sulle scelte energetiche, iniziata
a metà degli anni ’70 e proseguita per tutto il decennio successivo. E’
interessante ricordare che uno degli elementi significativi di quella
battaglia fu la demistificazione delle cifre fornite dagli enti ufficiali,
tutte basate sulla forte correlazione tra crescita del prodotto interno
lordo e crescita dei consumi energetici, a sostegno di un sovradimensionamento
della domanda, che giustificasse gli enormi piani di offerta di energia,
soprattutto elettrica (le venti centrali nucleari propugnate da Carlo
Donat Cattin nel 1977). Altro elemento significativo di quella battaglia
fu l’elaborazione e la comunicazione di un modello energetico alternativo.
Nel merito delle scelte di politica energetica, l’attuale sistema italiano,
per quanto riguarda le fonti di approvvigionamento, corrisponde a quello
indicato dagli ambientalisti ben prima del disastro di Cernobyl. Vale
a dire: rinuncia al nucleare, ricorso al carbone entro i livelli dei primi
anni ’80, sostituzione del petrolio con il combustibile meno inquinante,
il metano. Poi, c’è tutta la parte dolente del ritardo sul risparmio energetico
e sulle fonti rinnovabili, ma il punto che qui interessa è un altro. Ovvero,
il fatto che quella battaglia riuscì a contrastare le previsioni ufficiali
di incremento del Pil e dei consumi energetici (gonfiate secondo i precetti
propri della crescita "illimitata"), contrapponendo loro un programma
fondato sull’uso efficiente dell’energia e sul risparmio, reso possibile
dall’innovazione tecnologica. Sul limite, insomma. Un limite, è bene ricordarlo,
inteso non come penuria e come decadimento della qualità della vita, ma
come applicazione di un più intelligente utilizzo delle risorse. L’altro
punto che non va sottovalutato è quello relativo al piano politico-culturale
e del senso comune. Nel referendum sul nucleare (novembre 1987), il Paese
si espresse a stragrande maggioranza "contro" (anche se poi l’interpretazione
del governo fu di mantenere un "limitato presidio" nucleare), e quasi
tutti i partiti furono costretti ad assumere la posizione indicata dal
movimento antinucleare. Da tale complesso di risultati deriva la valutazione
dell’esperienza antinucleare come la sola che ha saputo coniugare la capacità
di trasformare battaglie di movimento in atti politico-culturali e quella
di governare questioni cruciali (molte decisioni anche recenti, che hanno
riguardato le politiche energetiche, sono l’esito di quel patrimonio di
mobilitazione). Puntare, poi, sull’uso efficiente dell’energia o, se si
vuole, sull’aumento della produttività delle risorse materiali, costituisce
un’indicazione che ci sembra di fondamentale importanza nell’era della
"globalizzazione". Ma, per tornare all'interrogativo sui risultati, in
Italia, di una concezione alternativa a quella dell'economia classica,
ricordiamo che l'elaborazione della categoria di limite non va considerata
il solo segnale di forte discontinuità teorica e pratica. L'altro, analogamente
significativo, è rappresentato dai tentativi di immaginare un diverso
rapporto tra pubblico e privato e di elaborare una diversa concezione
del ruolo del mercato. A tutt'oggi, in gran parte della sinistra è dominante
l'idea che pubblico sia sempre meglio di privato: in altri termini, prevale
un robusto statalismo ideologico, che - già al suo nascere - l’ambientalismo
provò a contestare; e che oggi, con più forza e con più solidi argomenti,
può criticare radicalmente. E questo significa rinunciare, senza più esitazioni,
a porre il problema dell’economia nei termini usuali della sinistra, per
concentrare l’attenzione e l'iniziativa sulla dimensione del mercato.
Mercato che mostra una sua selvaggia vitalità darwiniana e che - lungi
dall'essere il massimo regolatore della bontà delle merci e della correttezza
della concorrenza - è lo spazio dove tutto è oggetto di scambio e di compravendita:
le sostanze stupefacenti come gli organi dei bambini. E, tuttavia, il
mercato esiste e in qualche modo funziona, con le sue patologie e le sue
inefficienze: e, allora, il mandato degli ambientalisti è quello di porre
vincoli ambientali e vincoli sociali sul mercato e al mercato. Una nozione,
quella di vincolo, che consente di superare le secche della "pianificazione"
centralizzata e della mitica "libera concorrenza" mai realizzata. Il vincolo,
in particolare quello ambientale, costituisce l'utile snodo attraverso
il quale le decisioni economiche assumono la natura di un'ampia e articolata
di possibilità, opportunità, chances e di realizzazioni orientate ma non
rigide. Connessa a ciò, la prospettiva di una battaglia politica, sociale
e culturale di lungo periodo, così riassumibile: se si vuole incidere
sul mercato, si devono orientare le preferenze del consumatore. Ad esempio,
la promozione di produzioni biologiche nell’agricoltura ha esattamente
questo senso: ovvero spostare il consumatore dai prodotti che richiedono
fertilizzanti e pesticidi - quindi, un forte inquinamento a danno della
salute - verso i prodotti "puliti", per arrivare a modificare le scelte
produttive. Consideriamo l'ultimo decennio. Al di là delle valutazioni
di merito, il percorso che dalla Conferenza di Rio de Janeiro del ’92
porta alla Conferenza di Kyoto del ’98 è quello che consente a parole
vagamente esoteriche (come effetto serra e buco dell’ozono, desertificazione
e distruzione della foresta pluviale) di venire percepite nella loro valenza
anche economica. Sono, infatti, il come si produce, che cosa si produce
e il come si consuma, che cosa si consuma che vengono messi in discussione
e che vedono aprirsi conflitti tra gli Stati del pianeta: basta ricordare,
per stare ai tempi più recenti, la vicenda della riduzione della CO2,
alla Conferenza di Kyoto. Quel percorso, Rio de Janeiro-Kyoto, esplicita
molto bene come, a livello mondiale, la concezione ambientalista sia diventata
elemento di conflitto molto aspro per le politiche economiche di governo
(che devono tenere conto della pressione dei grandi gruppi multinazionali
e delle industrie nazionali); e tutti i punti dell’agenda 21 sono destinati
a entrare in contrasto con questa o quella decisione dei governi nazionali
o degli organismi di "governo planetario" (il Fmi o la Banca Mondiale).
Nell'esperienza italiana, poi, altra questione dirimente, a proposito
del rapporto economia/ecologia, è l'atteggiamento verso le grandi opere
pubbliche. Non va dimenticato che nella prima legge finanziaria del governo
Prodi, nei documenti della sessione di bilancio, si attribuiva ancora
alle grandi opere pubbliche il ruolo di volano dello sviluppo. Dalla "variante
di valico" al ponte sullo Stretto, questi progetti sono diventati simbolici
di un conflitto che è riduttivo vedere solo nella sua dimensione ambientale,
dal momento che prevede implicazioni, anche economiche e sociali, molto
rilevanti. Tra l'altro, ci riferiamo a un comparto capital intensive,
mentre sarebbe necessario sostenere e valorizzare settori labour intensive.
Ed è qui che si sviluppa l'ipotesi del "lavoro verde" come alternativa
alle scelte sulle grandi opere pubbliche. Quell'ipotesi, nata come esercizio
accademico per dimostrare che, con i 40 mila mld destinati alle opere
pubbliche dalle leggi finanziarie dei primi anni '90, si sarebbe potuto
attivare un maggior numero di posti di lavoro in diversi settori (dai
parchi al dissesto idrogeologico, dal turismo intelligente all’artigianato
e alle produzioni biologiche, dal risparmio energetico e dalle fonti rinnovabili
alla ristrutturazione degli edifici e al recupero del degrado urbano)
si è, poi, affinata e articolata; e ha determinato alcuni esiti positivi
sul piano delle concrete scelte di governo. Il "lavoro verde" è anche
alla base del cosiddetto Salario di attività sociale (Sas), che tende,
tra l’altro, a superare gli aspetti assistenzialistici dei lavori socialmente
utili, per creare piccole imprese, a partire dal sostegno erogato dalle
istituzioni pubbliche. A condizioni rigorose: dopo un certo numero di
anni, l’impresa, oltre a funzionare, deve risultare autosufficiente; il
che può contribuire a incentivare un mercato particolare ("terzo"), in
parte già esistente. Questa tematica di "lavoro verde", "attività sociale"
e "terzo mercato" è connessa, d’altro canto, alla questione del welfare
e può assumere una valenza più generale. Una volta riconosciuto il profondo
modificarsi delle forme e della struttura stessa del lavoro, sono quelli
gli strumenti utili (non certo i soli) per offrire una risposta efficace
alla crisi occupazionale dell'Europa (diciotto milioni di senza lavoro
nella UE e l’Italia nei primi posti per numero di disoccupati). La prospettiva
è quella di politiche occupazionali mirate, capaci di coniugare il fatto
di essere labour intensive con quello di risultare ecosostenibili. Ma,
palesemente, sono necessarie innovazione politica e audacia intellettuale.
Infine, sempre a proposito del confronto economia/ecologia nell'esperienza
italiana, va ricordata l'introduzione della carbon tax. Quella che rappresenta
una condizione essenziale dello sviluppo sostenibile, sin dalle analisi
di von Weiszaeker, è diventata legge dello stato con la finanziaria del
1999. Si tratta di uno strumento migliorabile sotto vari profili, ma -
senza dubbio - suscettibile di produrre un impatto significativo sul sistema
economico 7. Economie locali e globalizzazione Più controversa è la questione
relativa ai nuovi strumenti di programmazione economica. E' sufficientemente
condivisa l’idea che i patti territoriali possano rappresentare, a determinate
condizioni, una opportunità positiva; e questa problematica - il rapporto
tra ecosostenibilità e politiche economiche "locali" - consente di riprendere
la riflessione sul tema della globalizzazione. C’è chi pensa alla globalizzazione
come a un supermarket planetario, nel quale al cittadino sia consentita
una sola dimensione, quella del consumatore. A questa pretesa, il pensiero
ambientalista - che, tra i primi, parlò di globalizzazione - può rispondere
esplorando le nuove opportunità offerte dalla dimensione locale. E’ la
valorizzazione di questo livello decentrato, dove le scelte economiche
e produttive possono essere praticate in forma sostenibile, che può fare
della globalizzazione un’occasione, invece che soltanto una minaccia di
"pensiero unico" e di "modello universale". Il circuito della globalizzazione,
infatti, può consentire di mettere in rete e valorizzare, con un’ampiezza
prima inconcepibile, i prodotti, inclusi quelli culturali, che denotano
la specificità di un’area, di una regione, di una comunità. Certo, lo
scenario non è neutrale: e non è certo facile contrapporre l'utilizzo
più efficiente e più intelligente delle risorse alla rincorsa ad aumentare
la produttività del lavoro, cui assistiamo in tutti i paesi economicamente
più forti. Quanto detto consente di riprendere, brevemente, due punti
che emergono dal "libro bianco" di Jacques Delors (1993). Il modello lì
esposto prevede di relegare, anche se questo aspetto non viene esplicitato,
nei paesi del Terzo, Quarto e Quinto mondo le produzioni di base - quelle
pesanti e inquinanti - mentre il mondo "avanzato" si dedica alla telematica,
all’informatica e ai servizi. Quel modello - oltre che radicalizzare e
rendere permanente la divisione internazionale del lavoro - finirebbe
con l'incrementare i colossali flussi di merci e con l'aggravare, pertanto,
il problema dei trasporti di materiali lavorati e pesanti dai luoghi di
produzione a quelli di utilizzo, con conseguenze ambientali non certo
trascurabili. Infine, ancora una considerazione va fatta sul contrasto
irriducibile tra quanto finora esposto e le visioni sviluppiste e industrialiste,
che vedono nella crescita quantitativa dei consumi il volano dello sviluppo.
Contrasto irriducibile innanzitutto perché, quella della "crescita illimitata",
è una concezione eco-insostenibile: come tutto il movimento ambientalista,
e non solo, ha ritenuto in questi 30 anni (a partire dal rapporto del
Mit sui "limiti dello sviluppo"). E, poi, perché è dimostrabile che la
crescita quantitativa, tutta a spese delle risorse del pianeta, mentre
crea l’insostenibilità della crescita stessa, non risolve i problemi dell’occupazione.
Non sembra acquisire maggiore credibilità, infatti, la tesi secondo la
quale se cresce il Pil, cresce l’occupazione: per il banale motivo che
l’innovazione tecnologica favorisce così intensamente i processi di ristrutturazione
che, per quanto possa crescere il Pil, l'incremento dell'occupazione è
una lenta tartaruga rispetto alla lepre degli incrementi di produttività
del lavoro. Questo solleva un interrogativo radicale: esiste un concetto
di crescita economica che, al di là dei nominalismi, non sia in contrasto
con i criteri di sostenibilità? La nostra risposta è - nonostante tutto
- positiva: quella compatibilità può essere perseguita in termini di aumento
della produttività delle risorse, di spostamento della domanda dalla quantità
alla qualità, di innovazione tecnologica che sempre più promuova la crescita
di beni immateriali sostitutivi dei beni materiali tradizionali. 8. Gli
esiti della crisi ambientale In tutta evidenza, la questione ambientale
ha assunto, oggi, uno statuto di grande rilievo, fino a rientrare nelle
priorità di quasi tutti i governi delle democrazie avanzate. E tuttavia,
pur avendo registrato alcuni successi (dagli esiti del Protocollo di Montreal
sull'ozonosfera al primo Protocollo di Kyoto sul clima globale), la questione
della riforma delle strategie di sviluppo in senso ecologicamente sostenibile
rimane largamente disattesa. E, per quanto nuove paure e nuove emergenze
possano ridurre la percezione dei temi in questione, la crisi ambientale
globale rimane e non accenna a risolversi. Alla questione dell'accesso
alle risorse naturali, tema da sempre oggetto di contenzioso geopolitico
e di conflitti bellici, si aggiunge quella della conservazione di beni
ambientali (come il clima), per così dire "immateriali", e che rimanda
al problema della gestione intelligente delle risorse energetiche e delle
conoscenze tecnologiche. Resta il fatto che gli esiti della crisi ambientale
possono essere diversi. Innanzitutto, una parte della crisi ambientale
può (e, bisognerebbe dire, deve) essere assorbita dall' evoluzione della
società tardo-industriale. Lo spostamento dell'attenzione dalla produttività
del lavoro all'uso razionale delle risorse, incorporando nella logica
economica la questione ambientale - attraverso una maggiore efficienza
nel ricorso a materie prime, energia, acqua, suolo - può dare una prima
risposta, ancorchè assai parziale. In questa ottica, l'economia di mercato
può assorbire una parte della crisi ambientale, attraverso un incremento
di tecnologia e di organizzazione (eco-efficienza) e/o commercializzando
i "diritti di inquinamento". Si deve evitare che tali possibili sviluppi
vengano "tecnicizzati" e si deve tenere ben fermo il presupposto fondamentale:
i conflitti sulla questione ambientale riguardano, in primo luogo, i diritti
di accesso alle risorse naturali e alle conoscenze tecnologiche. A tale
proposito, la questione dell'ingegneria genetica è rivelatrice: il Sud
ha la "materia prima", ovvero la biodiversità; il Nord ha la tecnica e
i capitali. Se questi vengono usati per controllare i mercati a scapito
del Sud, la questione è, prima che ambientale, politica. La definizione
degli interessi generali deve indirizzare l'uso della tecnologia e la
distribuzione dei benefici deve essere equa: questo è l'obiettivo politico
di un ecologismo critico; questo è lo spazio di una sinistra nuova. Al
contrario, da parte dei cosiddetti "interessi forti" e corporati, vi è
la tendenza a rendere indifferente la localizzazione degli investimenti,
attraverso una sorta di "dumping dei diritti". Il messaggio inviato alla
parte ricca del globo è chiaro: se si vogliono mantenere imprese e produzioni,
bisogna ridurre la domanda di diritti individuali e sociali. Altrimenti,
la localizzazione in aree con tutele minori o nulle sarà inevitabile.
Questi progetti (come il Multilateral Agreement on Investmens, in sede
OCSE), anche se falliti nel breve periodo, inevitabilmente verranno riproposti.
E la globalizzazione, spostando tendenzialmente il baricentro dei mercati
verso l'Asia, richiederà una risposta diversa, capace di alleanze inedite
e transnazionali che, nonostante "i fatti di Seattle", sono tutt'altro
che facili. In altri termini, non ci si potrà basare su una occidentalizzazione
progressiva delle culture (come dimostra il caso del Giappone), ma si
dovrà puntare su una cooperazione attiva e dinamica. La capacità di tradurre
in termini nazionali l'esigenza (la necessità, ma anche la convenienza)
di una solidarietà internazionale, è il primo banco di prova. a. Il ruolo
dello Stato Se l'erosione-impoverimento dei ceti medi nelle società industriali
mature è un processo in atto da tempo, che può modificare in modo significativo
la composizione sociale e le aspettative delle diverse generazioni, il
ruolo dello Stato va radicalmente ripensato. Oltre alla stabilità dei
bilanci pubblici, un principio di equità intergenerazionale impone il
rifiuto di scaricare sul debito i costi dell'attuale assetto socio-economico
e le sue sperequazioni. Sia la questione delle pensioni che quella della
disoccupazione richiedono una trasformazione radicale del ruolo dello
Stato: da mero redistributore di ricchezza a redistributore di opportunità
(ecco una delle funzioni che, come si diceva, restano irrinunciabili).
Ciò implica la capacità di sostegno istituzionale, normativo e finanziario
a quei settori no-profit che consentono la creazione di nuova occupazione.
Senza nulla togliere alla funzione direttamente redistributiva che, comunque,
non riesce più a "coprire" l'intera organizzazione sociale, si chiede
allo Stato di aumentare i gradi di libertà della società, al fine di aumentarne
la capacità di iniziativa autonoma.. Al centro della questione della riforma
dello Stato, dunque, c'è l'autonomia della società. Tutte le politiche
che vanno nella direzione di incrementare la capacità della società di
soddisfare le proprie esigenze senza un intervento diretto dello Stato,
vanno incentivate. Ciò non significa in alcun modo "privatizzare tutto":
come si è detto, sanità, istruzione e altri servizi possono essere trasferiti
al mercato (salvo restando il discorso sulla "sfera pubblica dell'economia")
solo in parte. Si richiede, pertanto, uno Stato autorevole nel far rispettare
le regole e agile nel facilitare le condizioni perché le regole siano
rispettate. In questo quadro, il rafforzamento del "terzo settore" appare,
dunque, come un passaggio strategico, destinato ad avere un ulteriore
sviluppo, _nche a causa della debolezza delle politiche di welfare. b.
Comunicazione e forma della politica L'analisi ecologista porta a una
ridefinizione di cosa è sinistra a partire dalla rappresentazione degli
interessi collettivi da affermare e dei soggetti da tutelare: i popoli
lontani, le generazioni future, gli esclusi (le giovani generazioni, innanzitutto).
Dalla sommatoria di sensibilità - come viene convenzionalmente rappresentata:
ambientalismo più terzomondismo più femminismo, ecc - si deve passare
a una riformulazione complessiva della mappa delle relazioni tra i diversi
soggetti e tra i rispettivi sistemi di diritti rivendicati. Il che comporta
la (faticosa, parziale e provvisoria) formulazione di patti tra le generazioni,
tra le classi, tra le aree del mondo, tra i generi. In questo senso va
combattuta la riproposizione, comunque camuffata, degli stereotipi della
sinistra "terzomondialista", che rimangono dominanti in Italia. Tutela
dei diritti universali della persona e assunzione di responsabilità individuale
e sociale verso i beni collettivi (l'ambiente, in primo luogo): può essere
l'asse di una nuova politica sovranazionale. Comunicazione e organizzazione
sono il terreno su cui si gioca l'efficacia - e, dunque, la necessità
- di una forza politica. La forma dell'una e dell'altra dipendono, in
misura rilevante, dal sistema politico e istituzionale e dal contesto
sociale in cui si opera: l' ecologia, quale forza fondata su idee e opzioni,
su istanze morali e scelte radicali - espressione, in parte, della società
civile organizzata - ha operato come "lobby multicanale", avente come
riferimento movimenti "single-issue". La questione della sostenibilità
dello sviluppo economico e sociale richiede un salto di qualità: dalle
singole "tribù" a una rete multicentrica di relazioni, che produca alleanze
e vertenze e che costruisca il discorso pubblico dei diritti. Ciò richiede
la capacità di mettere in rapporto i diversi segmenti sociali, di individuare
poste in gioco e di aprire conflitti, di proporre nuove mediazioni e nuovi
patti, di elaborare e divulgare messaggi e parole d'ordine. Il "movimento"
di Seattle coinvolge settori esigui delle società, ma ha quella capacità
di evocazione che può risultare una importante risorsa politica per promuovere
coscienza, indicare obiettivi, costruire senso. Questo fa sì che la questione
dell'organizzazione si ponga in termini affatto inediti, come capacità
di essere "agenti di collegamento" e "mezzi di comunicazione", senza sostituirsi
alle forme autorganizzate della società, ma contribuendo a incentivarle
e a dare loro nuove valenze e nuovi significati. Ciò richiede la disponibilità
di risorse umane e tecniche, per trasformare l'azione della "lobby multicanale"
in quello che potremmo definire un'agenzia politica a rete. 9. Mediare
i conflitti Guardare alla sfera pubblica, dove le differenze individuali
si propongono e si confrontano, significa mettere in conto non una comunità
idilliaca e pacificata, ma una società attraversata da conflitti. La loro
vitalità va compresa e valorizzata, ma anche incanalata. L’interpretazione
e la rappresentazione che, nella tradizione della sinistra, se ne sono
date, vanno ridiscusse. In quella tradizione, ogni conflitto (e ogni movimento)
veniva ricondotto alla centralità di Stato e di partiti, di quel modello
di sovranità e di mediazione centralistica, che dovrebbe tenere, hegelianamente,
tutto. E, invece, basti pensare al conflitto ecologico e all’impossibilità
che esso sia ricondotto a uno Stato o dentro un solo partito, per cogliere
tutta la debolezza di quella interpretazione. Ed è proprio nella lettura
dei conflitti che si impone la ridefinizione di molte delle categorie
di pensiero dei movimenti di emancipazione tradizionali. Costruiti intorno
alle identità forti e oppositive (classe, sindacato, partito) che il sistema
economico e lo spazio statuale generavano, essi hanno elaborato un modello
di conflitto politico-sociale, figlio di quella forma dell’economia e
dello Stato. Ma questo terreno, come vediamo, è cambiato radicalmente
e continua a cambiare, tanto da imporre una mappa sempre diversa delle
identità e una nuova rappresentazione dei conflitti dentro i quali si
esprimono e agiscono. E vanno tenuti presenti almeno due grandi processi
che modificano il quadro complessivo. 1. Il primo è quello rappresentato
dal progressivo emergere della cosiddetta silent revolution, che ha segnalato
il ruolo crescente di dimensioni post-materialistiche nella formazione
delle soggettività e dei loro ambiti di vita. Questo significa che, accanto
all’economia e alle sue dimensioni materiali, hanno acquistato spessore
dimensioni identitarie (etniche, sessuali, ideologiche, religiose, etiche,
generazionali, persino biologiche ecc.), che richiedono forme e spazi
di riconoscimento. Tutto questo esige dai movimenti di emancipazione (e
dalla sinistra terza, in particolare) l’elaborazione di strategie relative
a tematiche quali: a) l'uguaglianza complessa, finalizzata alla costruzione
di uno spazio pubblico della vita civile, più ampio e più sofisticato
della sfera statuale; b) i diritti individuali, capaci di declinare soggettività
e appartenenza, affidati alla sovranità di ognuno su se stesso e non alla
legittimazione di una sovranità centrale. Si tratta, dunque, di diritti
orientati in funzione dell’auto-determinazione piuttosto che del riconoscimento
statuale (vedi le tematiche identitarie, del corpo, della sessualità);
quindi, meno cittadinanza e più sovranità; c) l'azione politica rivolta
a conflitti non dicotomici (come quelli classici: ricchi-poveri, capitalisti-comunisti,
ceti medi-classe operaia, struttura-sovrastruttura). 2. Il secondo processo
è quello determinato dalla ridefinizione costante della geopolitica, che
mette in crisi la dimensione "territorialistica" della comunità politico-statuale.
Lo si può dire in molti modi. Hobsbawm parla di scomposizione tra globalizzazione
e cosmopolitismo; Habermas analizza gli effetti del mutamento politico
intervenuto in Europa, e non soltanto, grazie alle costellazioni post-nazionali
nate dalle dissoluzione dei vecchi imperi statuali. Questo produce la
revoca del rapporto tradizionale tra polis e oikos e richiede spazi e
strumenti nuovi di intervento politico-sociale sul versante dei diritti,
della reciprocità e della convivenza, all’interno degli ambiti nazionali.
Non si tratta più soltanto di affrontare il multiculturalismo delle immigrazioni
classiche, ma di rimescolare le dimensioni di ethnos (appartenenza etnica)
e di demos (appartenenza politica) delle nostre società occidentali. Per
questo, già l’istituzionalizzazione dell’Europa ha imposto qualche ripensamento.
La domanda che si pone è se l’Europa abbia bisogno di una Costituzione,
considerato che non solo non c’è un ethnos comune, ma lo stesso demos
ha ancora bisogno degli spazi tradizionali della cittadinanza statuale.
A questa tesi si oppone - e la sinistra terza deve farsi più decisamente
portavoce di questa tesi - un’idea diversa di patto costituente, fondato
sul primato dei diritti fondamentali, svincolati dalla cittadinanza e
dalla sua dipendenza dall'ordinamento statuale. Peraltro, non stupisce
che, proprio su questo versante in cui la resistenza dell' idea di cittadinanza
è forte, riemerga un modello di conflitto identitario nel senso regressivo
del termine, fondato su un rinnovato ius sanguinis. Qui la cittadinanza
diventa il veicolo di chiusure culturali e di egoismi sociali. Di conseguenza,
la sinistra deve ridisegnare il proprio ruolo rispetto ai nuovi conflitti.
Ovvero: a) definire la differenza tra dissidio (come scissione) e conflitto
(come confronto); il dissidio indica l’impossibilità della comunicazione
e l'incommensurabilità dei linguaggi (affetto-argomentazione, fede-ragione…),
mentre il conflitto presuppone la (ed è alimentato dalla) condivisione
del linguaggio; e richiede la comune appartenenza dei confliggenti. Quelli
fra culture (capitalismo-comunismo, liberalismo-comunitarismo, islamismo-cristianesimo,
persino fondamentalismo-laicismo) sono conflitti e non dissidi. In altri
termini, se c’è un esempio inequivocabile di comunità, questo è dato dalla
comunità dei confliggenti, uniti da ciò che li divide e accomunati da
"differenze comuni"; b) valorizzare gli spazi di comunicazione politica
del conflitto; nel conflitto, infatti, si registra o interruzione o ricerca
della comunicazione: e questa viene riattivata attraverso tecniche discorsive.
Si tratta di un terreno squisitamente politico; c) produrre una nuova
normatività politica, in cui gli spazi siano negoziati dai soggetti politici,
ma dentro la cornice dei diritti fondamentali; d) sperimentare strategie
per la soluzione dei conflitti, affidati a meccanismi non violenti e non
autoritari. Tali strategie devono puntare su meccanismi di mediazione
culturale e sociale, prima che su dispositivi istituzionali e statuali.
Per questo, si deve investire sulla figura del mediatore, considerato
che la mediazione è capace di funzioni comunicative e che il mediatore
è colui che sa mettersi in mezzo e valorizzare le differenze comuni. La
mediazione ha un grande valore simbolico emancipativo. Lontana dalla forma
del diritto paterno, che conserva - in particolare nei conflitti culturali
- una quota di arbitrio e di intolleranza, la mediazione appare strumento
più vicino a una politica fraterna, capace di considerare la differenza
una risorsa. La mediazione, qui, non si pone in alcun modo come mezzo
per rimuovere o per neutralizzare il conflitto. Al contrario: la mediazione
può costituire una strategia per valorizzare il conflitto stesso come
opportunità di pluralismo e per tradurlo in strumento di democratizzazione
dei rapporti sociali. La sinistra terza può farsi portavoce di questa
moderna forma di solidarietà-reciprocità. 10. I soggetti, il mercato,
le libertà. Ovvero cosa è stato veramente Seattle Come prima conclusione
e, insieme, come punto di partenza per un percorso successivo, ribadiamo
che la divisione di campo tra sinistra riformista e sinistra antagonista
non risponde, in alcun modo, alla crisi della sinistra tutta intera. Si
può dire, anzi, che la "specializzazione" che esaspera i rispettivi ruoli
(tra chi dimentica troppo in fretta e chi non smette mai di ricordare
di essere stato comunista) produca due risposte entrambe "estremiste"
ed entrambe tragicamente insufficienti (ad esempio, tutto mercato o niente
mercato). Basti un esempio: per quanto riguarda l'attività sindacale,
una occasione importante - anche di "creatività lavorativa" - come la
contrattazione dei modi della produzione, è stata abbandonata, per motivi
opposti, da entrambe le sinistre. Il risultato è che a un sindacato organicamente
legato alle "due sinistre", com'è quello maggioritario, non rimane che
la concertazione centralizzata o l'opposizione radicale a essa; ma, in
entrambi i casi, manca una piattaforma concreta, legata alle condizioni
di lavoro, alla loro trasformazione e agli effetti (non solo organizzativi,
ma anche sociali) delle innovazioni tecnologiche. Di conseguenza, risulta
ancora più importante estendere anche a questo campo la critica nei confronti
della concezione statocentrica dell'agire pubblico, capace di uniformare
le modalità di azione e la stessa forma associativa dell'organizzazione
del lavoro dipendente. Tutto ciò mentre si accentua la crisi degli Stati
nazionali, a causa, per un verso, del ruolo sempre più autonomo assunto
dal mercato e dalla finanza e, per l'altro, a causa dell'enfasi posta
sull'identificazione nelle "piccole patrie" in cui si fanno convergere
le identità etniche, culturali e religiose. Sembra importante, allora,
partire dalla questione del lavoro, della sua trasformazione, del suo
impatto sulle risorse e sull'ambiente e del suo futuro, per ragionare
di un programma possibile. E' prioritario, intanto, capire se il lavoro
"finisce", "non finisce" o semplicemente cambia. Rifkin dice che finisce,
Rojas che non finisce (che la fase del post-fordismo, anzi, produce più
lavoro, in rapporto al prodotto interno lordo). Certamente il lavoro cambia:
per effetto delle tecnologie e dei nuovi bisogni, in particolare di quelli
legati ai servizi. Questo cambiamento porta con sé anche un modo nuovo
di lavorare (meglio: modi nuovi di lavorare): e qui può inserirsi, anche
nelle sue valenze positive, la questione della flessibilità. Se, nei paesi
sviluppati, la trasformazione del lavoro - basata su tecnologie avanzate,
nuovi consumi e nuovi bisogni - presuppone altri saperi e maggiore duttilità
(adattamento, mobilità, disponibilità al cambiamento), allora va posto,
tra le priorità, il problema del rapporto tra libertà e autonomia. Se
l'autonomia, come sappiamo, è la condizione per farsene qualcosa della
libertà, la garanzia dei diritti individuali all'interno del mercato del
lavoro, anche per affrontare i costanti mutamenti che l'attraversano,
è un requisito fondamentale. Ma questo discorso - qui riferito, come si
diceva, ai paesi sviluppati - assume un rilievo ancora maggiore, e una
maggiore complessità, se considerato nella sua dimensione planetaria.
A quel livello - oggi ineludibile - lo scontro vero è tra chi vuole globalizzare,
riducendo i diritti a un minimo comune denominatore (peggiorando, quindi,
gli standard nelle società democratiche) e chi vuole globalizzare, estendendo
quei diritti oltre i confini e le compatibilità, i vincoli dei mercati
e i meccanismi degli scambi ineguali. E, allora, cos'è stata veramente
Seattle? In una scena di "Butch Cassidy", dopo la rapina al treno, lo
sceriffo cerca di convincere i concittadini ad accompagnarlo nell’inseguimento
dei banditi. I passanti, tra l’incuriosito e l’annoiato, si radunano fino
a formare una piccola folla. A quel punto, arriva un tale che vende biciclette
e si mette a decantarne le qualità, dopo aver scostato lo sceriffo: «lei
ha fatto la sua parte, ha raccolto gente, ora tocca a me». Ecco: questa
è l’efficacia (e queste le modalità possibili) della politica nell’epoca
della globalizzazione. Scostare dalla scena i poteri forti, che, soli,
possono determinare gli eventi e sottoporli allo sguardo del mondo; incunearsi
nelle contraddizioni economiche complessive e nelle loro articolazioni
locali; introdursi negli spazi giuridico-formali, con intelligenza e mezzi
di "guerriglia" (tematico-comunicativa) e, naturalmente, con buone e "oggettive"
ragioni: cioè sapendo e facendo sapere di aver ragione. Perché se il "prodotto"
non vale, non c’è "pubblicità" che tenga. E, viceversa, se non c’è forza
comunicativa, anche il miglior "prodotto" non può affermarsi e convincere.
(Sia chiaro: è mille volte più importante la prima affermazione rispetto
alla seconda). Detto ciò, resta ancora interamente inevasa la domanda:
oggi, cosa aggrega, transitoriamente, i movimenti; cosa determina, o contribuisce
a determinare, le condizioni per l’azione collettiva? L'errore più grave
che si potrebbe fare dopo Seattle (e che molti sembrano propensi a fare)
è immaginare la rinascita di un movimento omogeneo, riproducibile e stabilizzabile,
in quanto a ragione sociale, interessi, finalità e linguaggi. Il modello-movimento
operaio (strutturato per rappresentare interessi, che si assumono come
stabili e dotati di un base produttiva e sociale definita) non funziona
più né può essere risuscitato. Né esiste soggetto o classe generale, titolare
di interessi generali. Gli interessi che ci riguardano non sono solo differenziati:
sono spesso confliggenti gli uni con gli altri. Da qui bisogna partire,
perché ne deriva la centralità e la mutevolezza delle alleanze (se tali
possono essere definiti le aggregazioni e i patti cui lavorare). Se pensiamo
che l'ecologia (ovvero una cultura e un punto di vista ecologici) possa
rappresentare un approccio innovativo, adeguato e, tendenzialmente, complessivo
a tali questioni, è proprio perché (e fintanto che) l'ecologia si autodefinisce
e si autolimita come approccio. Il più lungimirante ed efficace, certo:
e, tuttavia, una cultura e un punto di vista, non un sistema organico
di idee e di valori; piuttosto, una generale funzione critica e una radicale
pars denstruens, capace di affrontare nodi antichi e irrisolti: a cominciare,
come suggerisce Stefano Rodotà, dalla questione proprietaria. E, infatti,
nessuno tra gli approcci culturali alla modernità poteva immaginare che
la logica del possesso si trasferisse così rapidamente dal controllo sulle
risorse della produzione materiale al controllo sulle risorse della natura
e, infine, su quelle della genetica. E che tale logica si manifestasse,
tuttavia, attraverso le procedure più classiche del diritto di proprietà
(basti pensare alle controversie in materia di brevetti). E' l'ecologia
(e, direi, solo l'ecologia) che permette di individuare le nuove aree
di prerogative e di diritti (corposamente materiali) intaccate, se non
erose, dalle nuove forme di sfruttamento proprietario. Il mercato internazionale
delle "quote di emissioni" (che consente ai paesi ricchi di acquistare
maggiore "libertà di inquinamento" dai paesi poveri) evoca, non a caso,
quella tendenza proprietaria (in qualche misura già post-fordista e, comunque,
neo-capitalista) a "monetizzare la salute", che fu la posta in gioco di
importantissimi conflitti nel corso degli anni '70. Conflitti intorno
alla possibilità di sussumere dentro il concetto di forza lavoro, e di
sua compravendita, altre componenti della persona del lavoratore (la salute,
l'integrità, le aspettative di vita, l'equilibrio psico-fisico). Tale
processo conosce un' ulteriore fase quando, con la generalizzazione della
produzione di merci, all'interno della categoria di forze produttive -
e dentro i percorsi della loro mondializzazione - vengono riassunti e
calcolati, e resi merce, altri fattori. E già nei primi anni '40, Karl
Polanyi osservava che, con la diffusione del modo di produzione capitalistico,
la persona, il tempo e la natura stessa diventavano merci. E questa riduzione
a merce riguarda fattori, in tutta evidenza, naturali e universalistici
e - per definizione, direi - indisponibili. Ecco il punto cruciale: i
diritti di cui stiamo parlando sono finalizzati a tutelare beni non disponibili.
E' questo che può attribuire una forza dirompente a un discorso, e a un
conflitto, sui limiti dell'appropriazione: ovvero sulle categorie di beni
le cui regole d'uso devono essere diverse da quelle della proprietà privata;
e da quelle della proprietà di Stato. Da qui la definizione di "patrimonio
comune dell'umanità" per beni che non possono essere oggetto di utilizzazione
esclusiva né di negoziazione a contenuto economico. Proprio perché il
"contenuto" dell'isola di Budelli o di un gene umano non è riducibile
a valore di scambio. E, allora, buttiamola in politica. a. La "lezione
di Seattle" è assai più complicata da decifrare e da utilizzare di quanto
sembrasse a una prima lettura. b. L'approccio offerto dall'ecologia consente,
più di qualunque altro, di leggere la complessiva e articolata mappa delle
diverse iniquità, ambientali e sociali, che si consumano sul pianeta.
c. L'ecologia come cultura e come strumento di interpretazione è più grande,
assai più grande, dei Verdi. I Verdi ne hanno, per così dire, la gestione,
ma non, certo, l'esclusiva proprietà. Ed è vano e, forse, perfino controproducente,
ambire ad averne la rappresentatività generale. I Verdi devono mettersi
a disposizione (e mettere l'ecologia a disposizione) di altri soggetti
e di altri conflitti. L'errore più grave sarebbe voler stabilizzare e
formalizzare (a livello mondiale, addirittura) la rappresentanza di interessi
assai diversi, anziché giocare e giocarsi in singole battaglie con interlocutori,
alleanze e avversari, a loro volta mutevoli. d. Se l'ecologia è il discorso
sui beni indisponibili - quelli relativi alle strutture fondative della
persona umana e del mondo fisico - essa può rinnovare il senso profondo
dell'antica questione proprietaria. Questo può consentire che, a determinate
condizioni, conflitti ambientali e conflitti sociali tendano a coincidere.
e. La problematica dei diritti ne può risultare radicalmente modificata.
Non più un catalogo di diritti che si allarga periodicamente, addizionando
nuove prerogative e nuove titolarità a quelle antiche. E non più, dunque,
un diritto all'ambiente che va ad aggiungersi a quello alla salute, a
quello al lavoro, e così via, a ritroso nel tempo e nel progresso sociale.
Bensì, i diritti come fondamento costitutivo e ineludibile della sovranità.
Appendice. Nota 1. In Italia parlare di (e lavorare per) una terza sinistra
è ancora più importante e urgente. Qui domina, infatti, una teoria delle
"due sinistre", costruita su un falso storico. Ovvero sull'ipotesi che
sia esistita, dagli anni '60 alla fine degli anni '80, una sola sinistra,
pressochè interamente rappresentata dal PCI; che questa sinistra si sia
separata dopo il 1989; e che si riproponga, oggi, nella sua netta duplicità:
come partito dei Democratici di sinistra e come partito della Rifondazione
comunista. Anche chi non condivide la prima parte di questa improbabile
ricostruzione della vicenda storica (una sola sinistra tra gli anni '60
e la fine degli anni'80), è incline ad accettarne la drastica semplificazione
successiva: oggi, a competere, sarebbero due sinistre. L'una "antagonista"
e l'altra "moderata" (definizioni di Fausto Bertinotti, ovviamente) ;
oppure l'una "anti-sistema " e l'altra "europea" (definizioni di Walter
Veltroni, ovviamente ). Ma quella lotta per l'egemonia ha senso in quanto
entrambi i competitori coltivano un'idea (tendenzialmente) totalizzante
della rappresentanza politica a sinistra, dove lo spazio lasciato libero
dall'uno - come in un gioco a somma zero - viene occupato dall'altro.
E ciò proprio perché lo spazio della sinistra sarebbe - nell'interpretazione
che qui contestiamo - uno e prevedibile, sostanzialmente immobile e immutabile,
ripartito tra la sinistra "antagonista" ("antisistema", secondo i detrattori)
e la sinistra "europea" ("moderata", secondo i detrattori). Col che si
producono due effetti, entrambi negativi: intanto si cancellano o si trascurano
esperienze e culture, non assimilate e non assimilabili ai Ds e al Prc.
In sintesi: esperienze e culture ambientaliste e radicali, antiproibizioniste
e garantiste, libertarie e antistataliste, sindacaliste e pacifiste. Esperienze
e culture sempre presenti nella storia italiana di questo dopoguerra e
che hanno svolto il ruolo, preziosissimo, delle minoranze critiche. A
limitarne l'attività e a mortificarne la vitalità è stato il peso preponderante
del Partito comunista italiano, costretto a essere (da cause che qui non
possiamo esporre) "stalinista" e "conservatore", insieme, verso le minoranze
critiche e radicali. Ora, a svolgere lo stesso ruolo, riducente e omologante,
sono le formazioni politiche derivate da quello stesso partito. Nel caso
dei Ds, la "volontà omologante" ha assunto anche una forma organizzativa
(la Cosa 2); nel caso del Prc, la "volontà omologante" si manifesta, in
primo luogo, come presunzione di totalità nei confronti del "pensiero
critico". Nell'un caso come nell'altro, emerge insofferenza verso le minoranze;
nell'un caso come nell'altro, la premessa per non agevolare quella "volontà
omologante" è il rifiuto di teorie infondate e puerili, come quella delle
"due sinistre". Le sinistre sono molte e differenti, organizzate e non;
e tali, fortunatamente, sono destinate a rimanere. July, 2000
|
***
***
|